Ho argomentato che, sul piano individuale, non possiamo vivere liberamente senza cercare ogni giorno un senso da dare ai nostri atti. Siccome viviamo fra e con gli altri questa scelta individuale dobbiamo cercare di renderla compatibile con quelle altrui. Qui comincia la politica e qui comincia la contraddizione teoricamente insanabile ma, mi ostino di credere, risolvibile di fatto.
La politica è il luogo in cui gli individui cercano il potere e, in questa ricerca del potere, si scontrano interessi e fini se non sempre contrapposti almeno non coincidenti. La conclusione frequente è che porre la "morale" a guida della politica conduce o ben a "guerre di religione" oppure ad una qualche forma di "stato etico" in cui gli interessi di alcuni vengono imposti a tutti paludandoli come "superiori". Questi rischi sono reali ma sono rischi che non possiamo evitare di prenderci: la politica corre sul filo del rasoio che separa queste sue degenerazioni dalla politica come esercizio di scelte etiche individuali. In altre parole: la politica funziona se e solo se diventa il luogo in cui le morali individuali si confrontano secondo regole condivise.
Definisco il "metodo liberale" come quell'insieme - mutevole, perché evolve all'evolversi di tecnologia, organizzazione sociale e sistemi di valori individuali - di regole della politica che rendono possible ed utile tale confronto senza che scada o ben in guerra di religione o nella creazione di uno stato etico. Non esiste, io credo, un'etica liberale nel senso di un insieme, esauriente e definito una volta per sempre, di valori che la definiscano: si considerava "liberale" Jefferson, la cui morale riteneva giusta la schiavitù, e lo era Lincoln che intendeva abolirla. Se qualcosa quei due avevano in comune era l'accettazione di regole condivise d'interazione politica e la consapevolezza che i loro valori morali erano, anzitutto ed essenzialmente, un atto individuale d'assunzione di responsabilità. Il lettore può da solo aggiungere centinaia di esempi che soddisfano entrambi i criteri. Non era liberale Mussolini, perché né accettò le regole allora condivise d'interazione politica né ritenne la sua morale una scelta individuale ma, invece, un sistema giusto per tutti e, quindi, da imporre a tutti alla faccia delle regole. Per la stessa ragione, non erano liberali Lenin o Khomeini o Castro ... e non lo è, da quanto ci è dato capire, neanche Bergoglio.
Il 'liberale" è una persona con principi morali individuali, ai quali si attiene personalmente e che persegue accettando, e facendo rispettare, delle regole d'interazione politica condivise dagli altri individui con cui interagisce. Il fatto che sia così difficile, direi impossibile, definire un sistema compiuto di valori etici e di fini "liberali" è, io credo, la ragione principale per cui oggi un po' tutti, non solo in Italia, si definiscono "liberali", Bertinotti compreso. Perché si confondono i fini con i mezzi, i valori con le regole. Il liberalismo è un metodo, non un insieme di fini o valori da affermare. Tutto dipende dalle regole di comportamento che ci si sceglie assieme e dalla capacità dell'elettorato di farle rispettare, di non deviare da esse solo perché conviene nel breve periodo alla propria parte.
Esattamente l'opposto di quanto avviene in Italia da tempo immemorabile, con gli effetti di degrado e perdita di credibilità dell'intero sistema politico. L'elettorato italiano è molto poco o per niente liberale perché, da un lato, è assente nella grande maggioranza dei cittadini una nozione di morale come scelta individuale (mentre prevale l'idea di una morale assoluta, rivelata, ideologicamente completa e quindi religiosa, che separa i "giustì dagli "ingiusti") e, dall'altro, perché è assente l'idea di una responsabilità individuale nel far rispettare delle regole condivise del gioco politico.
Insomma, avevano ragione i classici e non v'è nulla di nuovo sotto il sole.
Partiamo dalla questione del potere. Chi fa politica vuole ottenere potere, non c'è dubbio. In politica ognuno fa il possibile per ottenere dalle altre persone la delega a comandare. Insomma, a fare il "capo" perché anche nei sistemi democratici meglio funzionanti la discrezionalità di scelta ed azione concessa a chi detiene il potere politico è enorme. Questo aspetto (la politica è anzitutto lotta per il potere) implica che il gioco politico deve avere delle regole per funzionare: senza regole non esiste gioco ma confusione. Quali regole? Qui sta il punto difficile: delle regole accettate da chi partecipa al gioco devono esistere, pur riconoscendo che esse siano mutevoli nel tempo a seconda delle circostanze. Purché siano condivise. L'alternativa è la fine della politica come luogo dove il conflitto per il potere e lo scontro di interessi e morali ha una soluzione utile. Senza regole c'è o ben la guerra di tutti contro tutti o la paralisi. Banalità ovvie? Certo, ma in Italia (e non solo) sembriamo essercele scordate. Il "laissez faire", in politica ma non solo, porta a ISIS ed oltre - questo è l'insegnamento sia della storia che della scienza politica: possiamo negarlo in teoria, ma quando abbiamo provato a negarlo nella pratica i risultati sono stati orrendi.
La domanda che io mi pongo è la seguente: una regola di comportamento collettivo deve basarsi su un principio morale condiviso o può essere solo una regola "efficiente", ossia scelta secondo (supposti) criteri tecnocratico/pragmatici? A tale domanda questo post non sa dare risposta perché, francamente, non credo formulabile una risposta teorica. Esistono solo le risposte di fatto, che la storia degli umani ha dato di volta in volta. E quelle risposte sembrano portare ad una conclusione pragmatica: in politica conta solo la competizione per il potere, chi vince ha ragione, punkt. Il vecchio BB diceva (si riferiva alla guerra ma conosciamo tutti il vecchio detto di Clausewitz) che "fra i vinti faceva la fame la povera gente e fra i vincitori faceva la fame la povera gente ugualmente". Quindi? Quindi competizione per il potere, ossia à la guerre comme à la guerre?
Occorre capire che la parola "competizione/concorrenza" (in politica come in economia) NON può voler dire "everything goes" e questo per una semplice ragione. Se tutto è permesso allora la competizione, ad ogni livello, viene sempre vinta (in media) da quello disposto alla maggiore "violenza" per la semplice ragione che esercitare livelli crescenti di "violenza" richiede, sul piano individuale, criteri morali sempre più lassi. Questo punto l'economia contemporanea l'ha inteso, ma la grande maggioranza delle persone no, anche fra chi si occupa di scienze sociali. La parola "concorrenza (competition)" in economia non vuol dire "va bene tutto" ma, invece, vanno bene certe regole e certi comportamenti, certi/e sì altri/e no! Se la concorrenza è equivalente ad "everything goes" vincerà sempre colui il quale ha, personalmente, minori vincoli morali nella sua relazione con l'altro. Vincerà sempre colui per il quale gli "altri" sono solo strumenti da usare e non fini. Insomma, nella competizione senza regole vince, per definizione, il "cattivo". Sto semplificando ma spero d'essermi spiegato: nella competizione pura "vince" il narcisista puro, quello per cui l'unica cosa che conta è la propria, personale, wille zur macht.
Da queste banali osservazioni segue che la scelta etica è alla radice dell'azione politica, ne definisce la possibilità stessa: senza etica individuale, per minima che sia, l'acquisizione del potere perde finalità e si svuota nella pura follia: Stalin, Hitler, Pol Pot ... fate voi. Ma non basta la scelta etica individuale, servono anche le regole collettive: senza regole collettive non vi è politica ma carneficina. Da cui le costituzioni e la conclusione (ben lungi dall'essere comunemente praticata anche se da tutti sbandierata) secondo cui codeste non debbono prescrivere i fini dell'azione politica ma le regole da rispettare nella lotta per il potere. E quanto tali regole condivise saltano, o ben perché non più condivise o ben perché condivise a parole ma negate nei fatti, salta anche la credibilità della politica. Sto parlando dell'Italia? Si', ma non solo. Chiunque stia riflettendo seriamente su come fronteggiare il "pericolo islamico" (o quello "cinese") forse intende cosa mi preoccupi. Mi preoccupa che, visto che "loro" non giocano con le nostre regole, noi si perda di vista le nostre e, con esse, la nostra identità morale. Ossia, noi stessi.
Piccolo detour: chi conquista il potere, anche rispettando le regole, gode di discrezionalità nell'esercizio del medesimo. Questo implica che, per valutare il politico, contano solo i fatti (sia pregressi che sul terreno) e mai, di per se, le promesse. Meglio ancora, le promesse contano solo nella misura in cui sono, oltre che internamente coerenti, "compatibili con gli incentivi" del politico che le fa. Questo vuol dire, semplicemente, che se un candidato promette di fare X al tempo T tale promessa è credibile se è solo se è ragionevole aspettarsi che, nelle circostanze probabili in T, gli convenga fare X. Gli economisti chiamano questa cosa "(in)consistenza temporale" ed è stata studiata in centomila forme nell'ultimo mezzo secolo. Purtroppo questo principio è entrato molto poco nella cultura diffusa ed è ben lungi dall'essere il criterio con cui l'elettore medio valuta questo o quell'altro aspirante alla carica di "capo". Chiunque stia seguendo gli affari greci in questi giorni capisce al volo l'argomento, anche se sarebbero bastati BS e Renzi per apprendere la medesima lezione. Fine del detour, riassumo.
(1) Poiché il politico vuole il potere e tale potere, una volta ottenuto, verrà esercitato con un altro grado di discrezionalità, è nell'interesse dell'elettore avere più informazione possibile sulle caratteristiche personali dell'aspirante capo. La posizione del politico e dell'elettore non sono simmetriche. La discrezionalità dell'elettore diventa irrilevante una volta dato il voto e si esaurisce in esso. Quella del politico invece diventa rilevante solo a partire dal voto perché è lì che comincia la sua discrezionalità, ragion per cui il sistema di valori morali del (praticati dal) politico è cruciale in quanto è da essi che possiamo cercare di dedurre/indovinare quali fini perseguirà una volta al potere. Ne segue il principio (discusso svariate volte in questo blog) secondo cui l'usuale nozione di "privacy" non si applica al politico perché qualsiasi informazione potrebbe essere rilevante per valutare come utilizzerà il suo potere discrezionale. E per fare questo occorre che i principi morali dell'aspirante capo siano i più espliciti possibile e che si trovi una qualche maniera di renderli vincolanti. La "statura morale" dell'aspirante capo conta. Ma conta ancora di più quella degli elettori, perché essa è il vincolo vero all'azione del capo. Il giorno che scopri che il tuo capo mente o ruba (o va a puttane mentre a parole difende la famiglia sacra ed inviolabile) è la TUA statura morale che può farlo dimetterle, e solo quella.
(2) La politica "giusta" non esiste. Qualsiasi politica si adotti, essa sarà sempre "ingiusta". Questo non è un fatto accidentale, ma un'implicazione logica di quanto siamo stati in grado d'intendere sino ad ora sui fondamenti della morale e della lotta politica, che è lotta per il potere. Chi non capisce di cosa parlo legga, per dire, Isaiah Berlin. E questo fatto ha delle implicazioni rilevantissime sul tipo di regole del gioco ed istituzioni che dovremmo sceglierci.
(3) Le obbligazioni "morali" entrano spesso in conflitto fra di loro e forzano sempre ad una scelta del male minore, ragione per cui interpretare la politica attraverso i filtri della morale è tremendamente pericoloso. L'idea che un sistema di valori - sia esso utilitarista, socialista, libertario, cristiano-sociale o what not - possa essere coerentemente applicato in assenza di continui compromessi è idea altamente rischiosa se perseguita in pratica (comunismo, fascismo, islamismo ...). In due parole: poiché al fondo di ogni sistema ideologico vi è l'idea che i principi morali che il medesimo ispira sono sia giusti che coerenti e realizzabili in toto, QUALSIASI approccio ideologico alla politica porta inevitabilmente al disastro.
Siamo quindi di fronte a tre contraddizioni immanenti: (i) i principi sono sia assoluti (per l'individuo) che relativi (collettivamente, perché non necessariamente condivisi dagli altri); (ii) il potere è il fine della politica ma poiché il potere va esercitato per qualcosa occorrono dei fini; (iii) senza regole accettate da tutti il gioco della politica porta al nulla, quindi occorre avere delle regole anche per la politica. Abbiamo bisogno di principi morali sempre e comunque. L'etica, cacciata dalla porta, rientra sempre dalla finestra.
Queste tre contraddizioni sono, io credo, inevitabili; hic sunt leones (questa dovrebbe piacere a Palma). La realtà della convivenza umana è inevitabilmente contraddittoria perché gli umani sono fra loro in conflitto (almeno sino a quando qualcuno non ci rivela la verità vera ...) e per farli stare insieme occorre trovare regole condivise che risolvano le contraddizioni non una volta per tutte ma solo di fatto, una alla volta. "Solo di fatto" è, se volete, una "filosofia della storia" da un centesimo: la storia del mondo avrebbe potuto avere miliardi di evoluzioni possibili, nessuna di per se più "giusta" delle altre. È stata quella che è stata, ed è unica, perché (per ragioni ed attraverso meccanismi che non sappiamo spiegare) ha vinto qualcuno il giorno X ed ha perso un altro il giorno Y. Ma non c'era nulla di giusto o di inevitabile nelle vittorie di Caesar o di Napoleone, nulla. Hegel era uno che si fumava della roba veramente dannosa e Marx, quando scriveva di filosofia della storia, pure. E tanti altri ...
Ritorniamo al punto: la politica è il luogo o l'attività dove queste inevitabili contraddizioni trovano la loro risoluzione. Non logica, sia chiaro, ma di fatto. Si risolvono perché qualcosa accade e qualcuno "vince". La domanda che io mi pongo è sia normativa che positiva: possiamo (la parte positiva è qui: "siamo capaci di fare questa cosa?") darci delle regole/istituzioni che gestiscano nel modo meno peggiore possibile queste contraddizioni che sempre ci affligeranno? Nel pormi questa domanda definisco il mio essere "liberale": il liberale è colui che, incessantemente, si pone questa domanda sulle regole da adottare. Le risposte, quelle sono solo mie e non pretendo siano "liberali" per la semplice ragione che sono quasi certamente conseguenze delle mie scelte etiche individuali.
La mia personale risposta alla domanda "quali regole adottare?" ha a che fare con principi morali individuali, cultura condivisa, regole/istituzioni. Sulla morale individuale ho già scritto ad nauseam, quindi riassumo il mio pensiero sulle ultime due.
(I) Da un lato una "cultura" (nel senso di una maniera di leggere il mondo, ossia una teoria di come esso funzioni) che accetti il relativismo dei fini e dei principi morali che muovono gli individui. Relativism of distance lo chiama Williams, ossia il semplice fatto che i sistemi di "valori pubblici" non possono non essere il frutto delle concezioni del mondo (letteralmente, incluso le concezioni sulla sua origine, formazione, ordine che lo regge, eccetera) dominanti in un certo paese ed epoca. In un mondo in cui la stragrande maggioranza o tutti credono fermamente nella diseguaglianza e nell'esistenza di individui a cui per natura (o decisione divina) è dato di comandare in quanto "superiori", prentendere che si applichi una qualche nozione di "tutti uguali davanti alla legge" è, semplicemente, illusorio. L'idea qui è che l'etica sociale non è un elemento "primitivo" o fondante ma, piuttosto, una "sovrastruttura" che si costruisce su fondamenta più profonde che sono le concezioni personali del mondo. Quando cambiano quest'ultime cambia l'etica sociale e questo implica, fra le altre cose, che dare giudizi morali sul passato o su sistemi politico-sociali fondati su concezioni del mondo diverse dalle nostre è sia rischioso che controproduttivo. Questo principio diacronico vale anche sincronicamente: la tua morale individuale vale quanto la mia e, nella misura in cui accettiamo delle regole di competizione fra la tua morale e la mia, giochiamo secondo regole liberali. Se non le accettiamo, allora no. Allora c'è ISIS o quel che verrà dopo di ISIS.
(II) Dall'altro le regole o istituzioni condivise che gestiscono il risolversi - nei fatti che avvengono nel tempo, ossia nella dinamica della storia - della contraddizione inevitabile fra il desiderio di potere (per certi fini) di X ed il desiderio di potere (per altri fini) di Y. Tenendo il tutto dentro limiti che la cultura, di cui sopra, riconosce come accettabili. Tipo: oggi hai vinto tu e mi tassi N% per fare i sussidi alla regione che ti piace, domani vinco io e riduco le tasse ed elimino quei sussidi anzi ne metto di diversi per sussidiare un'altra regione.
Il liberalismo è quindi, essenzialmente, pluralità di punti di vista che competono sul da farsi in base a delle regole temporanee ma rispettate finché valgono. Questo è il liberalismo secondo Williams ed anche secondo me: un metodo d'interazione umana e non un insieme di fini o valori. Il liberalismo è un metodo o, al più, un pragmatico compromesso che si fonda sulla consapevolezza della nostra diversità intrinseca ed irrisolvibile e, allo stesso tempo, sulla necessità di vivere assieme, o almeno a fianco uno dell'altro, senza farci (troppo) danno. Liberalism of fear lo chiama Williams da qualche parte e sembra a me ragionevole anche se, ovviamente, fallisce davanti a visioni totalitarie. Si noti la natura tutta "pragmatica" e common sense dell'intero approccio, che io condivido profondamente.
Ma la morale, quella è, come Williams ci ricorda, mai imparziale e sempre soggettiva, anche in politica. Anzi, soprattutto in politica visto che ciò di cui la politica si occupa è di favorire certi interessi piuttosto che altri ...
Grazie!