Non credo che la sparata del Guardian sull’uscita dell’Italia dal G8 sia realistica. Questo club di stati con il Pil più grosso non è poi così cruciale, e non avrebbe senso umiliare il premier mondiale che ha in mano le sorti del paese al 156° posto al mondo per efficienza della giustizia ed al 73° posto al mondo per libertà di informazione. Escludere l'Italia dal gruppo, formando un G7 o sostituendola con la Spagna, non gioverebbe.
Qualche giornale insinuava che l’affermazione del Guardian fosse concertata con le scosse al governo previste da D’Alema. Piuttosto, se ci saranno scosse per l’Italia in campo internazionale, esse riguarderanno la sua permanenza nell’area euro. Di questo tratta il mio articolo.
Una settimana fa l’Istat riportava i conti pubblici per il primo trimestre 2009. La notizia ha fatto un po’ di sensazione per come è stata riportata dalla stampa: un deficit a -9.3% sembra già fuori l’orbita di sostenibilità. In realtà sia la produzione che i conti pubblici italiani hanno molta stagionalità perciò, quando paragonato ad una media decennale per ogni trimestre, la situazione fa meno affanno: -9.3% rispetto ad una media del -7.2% per il primo trimestre.
Media decennale per trimestre (in % al Pil):
Trimestre |
ENTRATE |
USCITE |
DEFICIT |
Media I |
39.1 |
46.2 |
-7.2 |
Media II |
45.1 |
45.5 |
-0.4 |
Media III |
42.7 |
45.4 |
-2.7 |
Media IV |
52.3 |
55.2 |
-2.9 |
Primo trimestre 2009 (in % al Pil):
Trimestre |
ENTRATE |
USCITE |
DEFICIT |
2009 I |
39.9 |
49.2 |
-9.3 |
Quello che invece vale la pena notare è la risposta delle Entrate (tasse) e Uscite (spesa pubblica) allo shock sul Pil dovuto alla crisi; shock che il Fondo Monetario adesso stima al –5.1% per il 2009. Durante il primo trimestre il rapporto Entrate/Pil rimane in media, al 39-40%. Questo significa che, con il Pil (al denominatore) in calo del 5%, le Entrate (al numeratore) calano pressapoco altrettanto.
La costanza non è più vera per le Uscite (spesa pubblica). Se il Pil cala del 5% lo stato non riesce a ridurre le spese di altrettanto, ossia la spesa pubblica non è una funzione del Pil. Anzi, in termini nominali la spesa pubblica è sempre in aumento, e al massimo si riesce a farla crescere meno dell’inflazione. L’aumento del deficit (in rapporto al Pil) sta tutto qui: la spesa pubblica non riesce a diminuire neanche quando crolla il Pil. Vale la pena notare, qui, che in Italia non v'è stato alcun gran piano di spesa "keynesiana", stile stimolo obamiano: la spesa pubblica è cresciuta mentre il Pil calava ma NON perché questo governo abbia deciso di lanciarsi in straordinari investimenti pubblici. È cresciuta perché così è fatta l'idrovora che si chiama stato italiano: ha sempre fame.
Avanzo una previsione scontata: accadrà la stessa identica cosa negli altri trimestri del 2009 e, rispetto al -2.7% del 2008, il deficit raddoppierà nel 2009 arrivando quasi ad un -6%. Dopodiché l’economia potrà anche riprendersi, come dice il Fondo Monetario, con una recessione solo del –0.1% nel 2010 e continuare negli anni venturi con una media di crescita del 0.9% (la media nel decennio prima della crisi). Però anche se l’economia si riprende, il deficit rimarrà elevato.
Dopo un crollo del Pil di –5.1%, e con queste previsioni di ripresa, l’Italia ci metterà un decennio a tornare al Pil del 2007. Questo vuol dire che il rapporto Uscite/Pil rimarrà sproporzionato anche nel lungo termine (salvo un miracoloso dimezzamento della spesa pubblica). Non sto nemmeno tenendo conto dell’aumento del debito pubblico. Non è più in discussione che il rapporto debito/Pil sarà ben oltre il 120% per il 2010. Anche trascurando un possibile aumento dei tassi d’interesse reali, l’impatto degli interessi su un 15% in più di debito (rispetto al 106% nel 2008) sarà pari ad un ulteriore 1% del Pil di deficit.
Ora, se l’economia si riprende dopo la crisi, crescendo dello 0.9% all’anno, cosa c’è da preoccuparsi? (Chi se ne frega se ci supera la Slovenia in reddito pro capite...) Non è solo una questione d’orgoglio nella graduatoria europea: l’impressione che ho avuto a Unindustria Treviso sui mancati pagamenti di appalti pubblici pare moltiplicarsi e, data la dipendenza di una grande fetta dell'economia italiana dalla capacità dello stato di pagare i propri fornitori, questo potrebbe avere effetti per niente gradevoli.
I quotidiani nazionali non ne parlano, ma nella stampa locale capita di leggere di bancarotte come questa: un’altra ditta va in fallimento per 800 mila euro di appalto pubblico che non vengono pagati dopo ormai due anni. Questi sono sintomi di uno stato alla frutta: oltre ai sempre più scadenti servizi pubblici oramai asfissia i propri fornitori. Manca solo che gli investitori perdano la fiducia sui titoli di stato e la frittata è fatta.
Mi spiace contribuire sempre articoli così cupi quando bisognerebbe sorridere con ottimismo. Perciò questa volta propongo, con grande ottimismo, una soluzione azzardata.
Entro il 2011 l’Italia doveva rientrare dentro il parametro di Maastricht che prevedeva un rapporto debito/Pil del 60%. Questo spassoso articolo del 1998 descrive il piano di Ciampi per dimezzare il debito con ben un anno di anticipo (dal 121% del 1998 a meno del 60% nel 2010). Il tutto secondo una “doppia simulazione” elaborata dai “Ciampi boys”: la simulazione, doppia, prevedeva una crescita nominale del Pil pari al 4.5% annuo ...
Ora, solo perché l’Italia non rispetta Maastricht non ne consegue un'automatica espulsione dall’euro; alla fine si tratta di una decisione politica. Ma qualcosa ci verrà chiesto di fare, non ne ho il minimo dubbio. Quali sono le soluzioni possibili all’imminente crisi dei conti pubblici? Io ne vedo tre.
1. Restare nell’euro e vendere tutto. Questo non risolve i problemi strutturali del contenitore Italia, ma permetterebbe di ridurre il debito, riportare temporaneamente alla normalità i conti pubblici e posticipare di altri 7-8 anni i problemi veri. Non so quanto sia rimasto da privatizzare di enti pubblici. Venduta la Rai (ve l'ho detto che questo è un sogno di mezza estate!) toccherà vendere la Torre di Pisa agli arabi e Palazzo Ducale ai cinesi. Pare una barzelletta ma il ministro della difesa ha intenzione di fare un albergo a cinque stelle nello storico Arsenale di Venezia. Prima o poi toccherà anche al Palazzo Ducale.
2. Uscire dall’euro per ripartire con una lira svalutata. Mettendo da parte l’orgoglio, questa sarebbe la scelta più facile. Non è politicamente impossibile per la semplice ragione che l’alternativa potrebbe essere peggiore. È vero che è ridicolo fare troppo i pignoli con i parametri di Maastricht, però questi servono come punto di riferimento. Se si è completamente fuori dalla media degli altri paesi, la politica monetaria comune potrebbe non essere adatta per l’outsider.
In questa maniera si potrebbe velocemente ripristinare liquidità, le banche ricomincerebbero a fare prestiti alle ditte in difficoltà, e le esportazioni aumenterebbero grazie al ritorno della svalutazione competitiva. Non sarebbe la prima volta. Nell’autunno del 1992 la lira non riuscì a stare in un cambio semi-fisso con il marco. Da un cambio di 1100 con il dollaro, la lira schizzo' in poco tempo a 1700 e oltre. Quella "svalutazione competitiva" ha pompato artificialmente l’export per buona parte degli anni novanta.
Il grande svantaggio di questa opzione è che sarebbe un’altra maniera per posticipare il problema di altri 7-8 anni (posticipa oggi, posticipa domani, intanto tiriamo avanti ...). Un ritorno alla lira porterebbe vantaggio alle ditte settentrionali legate all’export, che a loro volta sarebbero in grado di continuare a produrre linfa fiscale per il sistema assistenzialista meridionale.
3. Euro-Lira: uno stato, due valute. È possibile utilizzare la politica monetaria per scavalcare le resistenze politiche e facilitare riforme strutturali? Un problema strutturale del contenitore Italia consiste nel tandem di mancato sviluppo economico al Sud (dovuto all’assistenzialismo) ed eccessiva pressione fiscale al Nord (per finanziare l’assistenzialismo). Ci sono altri problemi strutturali, ma questo è sicuramente un ostacolo che frena un sano sviluppo economico.
L’idea è di mantenere l’uso dell’euro nelle regioni settentrionali, ma lasciare che la lira venga utilizzata nelle regioni meridionali. E' fondamentale che il debito pubblico venga denominato in lire e che nella regione Lazio vengano utilizzate le lire, perché qui risiede la stragrande maggioranza di dipendenti statali, parlamentari in testa.
Questo permetterebbe allo stato di ricevere il grosso degli introiti fiscali in euro, e di pagare il grosso della spesa pubblica in lire. Il cambio euro-lira sarebbe naturalmente flessibile. Questo permetterebbe di risanare i conti pubblici dando la possibilità di diminuire la pressione fiscale. Ancora più importante, darebbe una possibilità di crescita al Mezzogiorno abbassandone i relativi costi di produzione.
La lira solo nel Mezzogiorno e nelle transazioni interne dello stato italiano potrebbe essere considerata come una politica monetaria per lo sviluppo, alternativa ai fondi europei. Gli unici a perderne sarebbero gli investitori che possiedono titoli di stato italiano, ma questi rischiano a prescindere.
Mi rendo conto che questa è una proposta apparentemente fuori da ogni logica, ma come esiste una moneta per più stati, puo' esistere uno stato con due monete. Questo era il caso dello stato di Serbia e Montenegro, dove l'euro veniva utilizzato in Montenegro.
Dipende solo da come questa transizione viene introdotta. Potrebbe essere una specie di ufficializzazione degli SCEC, le monete alternative locali che già riescono ad avere risalto mediatico al Sud. Oppure potrebbe essere in stile IOU californiani in busta paga. By the way, i californiani vogliono finanziarli con la legalizzazione della mariuana, quindi non ridete troppo rapidamente della mia proposta: desperate (indebtness) times call for desperate measures.
Questo governo ha le capacità mediatiche per vendere alla popolazione questo tipo di soluzione. Avrebbe sicuramente la benedizione leghista ed esistono incentivi per assicurarsi il consenso dei politici meridionali, in particolare a fronte delle alternative che implicano tutte drastici tagli dei trasferimenti al Sud.
Parlare di un’idea così fuori dagli schemi a metà estate 2009 pare una barzelletta per rallegrare le ferie. Ma a metà estate 2010 ci sarà poco da ridere, e ci sarà bisogno di soluzioni radicali.
Perche' escludere il default? Dopotutto, cambiare la denominazione del debito esistente da buona moneta (Euro) a carta straccia (Lire) non e' molto diverso da una diretta insolvenza.
D'altra parte, con le previsioni di deficit che girano in Europa, un -6% per l'Italia non e' poi cosi' eclatante. E non stare nell'area Euro non e' stato di gran beneficio all'Islanda, tant'e' vero che gli scandinavi stanno facendoci un pensierino.
"Perche' escludere il default? Dopotutto, cambiare la denominazione del debito esistente da buona moneta (Euro) a carta straccia (Lire) non e' molto diverso da una diretta insolvenza."
Secondo me è esattamente la stessa cosa di una diretta insolvenza. Prendiamo il caso del possessore non italiano di un titolo di stato denominato in euro. Egli dirà: se volete adottate pure come moneta la pataka di Macao, ma a me il bond me lo rimborsate in euro. Con piccole differenze il ragionamento è valido anche per i possessori italiani.
Quello che sfugge nell'articolo è che quando l'Italia ha adottato l'euro la lira ha cessato di esistere come valuta determinando di conseguenza la conversione automatica da lira a euro di tutto il debito pubblico. Ma se l'Italia dovesse uscire dall'area euro questo continuerebbe ad esistere come valuta ed i debiti denominati in euro continuerebbero ad essere esigibili in euro. A meno di un default vero e proprio, beninteso.