La sera del 13 settembre 1987, nella città di Goiânia – Brasile centrale –, due uomini approfittarono dell’assenza della guardia per intrufolarsi in una struttura deserta. Era un vecchio centro di cura privato, da diversi anni in fase di smantellamento. Speravano di portare a casa qualcosa di valore, e dopo un po’ trovarono qualcosa che in effetti sembrava fare al caso loro: una piccola capsula di cinque centimetri per cinque; ben solida e pesante, nonostante le ridotte dimensioni, con un’apertura su un lato.
Dopo averla portata a casa di Roberto dos Santos Alves, uno dei due, cominciarono a smontarla. Poche ore più avanti, la sera stessa, vomitarono entrambi. Il giorno successivo a Pereira – il secondo uomo – vennero diarrea e vertigini. La sua mano sinistra cominciò a gonfiarsi, e su di essa comparve una bruciatura; aveva la stessa identifica forma dell’apertura della capsula. Due giorni dopo Pereira visitò un dottore, che ipotizzò un’intossicazione alimentare e gli consigliò di restare a casa a riposarsi.
Alves intanto non aveva interrotto i suoi tentativi di aprire la capsula, e il 16 settembre riuscì finalmente a bucare la fessura con un cacciavite. Dall’interno veniva un’intensa, affascinante, luce blu. Non sapendo cosa fosse, né cosa farne di preciso, Alves vendette l’oggetto a un vicino deposito di rottami.
Il proprietario del deposito, Devair Ferreira, notò la luce e fu colpito dalla sua bellezza, tanto da riportarsela a casa per mostrarla alla propria famiglia. Anche altri amici furono invitati per ammirarla. Uno di loro, lavorando sulla capsula con un cacciavite, riuscì a staccare diversi pezzetti del materiale blu luccicante, per poi regalarli ad altri conoscenti ancora. Il 21 settembre anche la moglie di Ferreira, Gabriela, cominciò a sentirsi male.
Ancora tre giorni dopo l’uomo vendette la capsula a un altro deposito di rottami. Di nuovo, il fratello del nuovo proprietario portò l’oggetto a casa, grattando un po’ di polvere da esso per poi spargerla sul pavimento. Momenti dopo, sua figlia piccola si sedette su quella stessa superficie mentre mangiava un boccone. Quella polvere blu intenso l’affascinava, tanto che se ne mise un po’ addosso per poi mostrare il risultato a sua madre. Qualche granello, per caso, cadde sul cibo che stava mangiando, e la bambina l’ingerì.
Gabriela Ferreira fu la prima ad accorgersi che qualcosa non andava: come mai tutte quelle persone avevano cominciato a sentirsi male insieme, all’improvviso? Quindici giorni dopo che l’oggetto era stato trovato, tornò dal nuovo proprietario per farselo restituire. Lo infilò in una busta di plastica, per poi recarsi nell’ospedale più vicino. Non ci volle molto per capire la causa del problema, tanto che già la mattina seguente i sospetti furono confermati da un contatore a scintillazione. La capsula conteneva una sorgente altamente radioattiva: 93 grammi di cloruro di cesio, usato in radioterapia per curare i pazienti colpiti dal cancro, e protetti – almeno in origine – da una schermatura di acciaio e piombo. L’oggetto era stato abbandonato nell’ospedale, mentre uno scontro legale impediva di rimuoverlo, e lì era rimasto finché qualcuno non se l’era andato a prendere.
Le autorità brasiliane analizzarono 112mila persone per contaminazione da radiazioni, e in 249 di loro riscontrarono una presenza significativa di materiale radioattivo nel corpo. Molte abitazioni furono abbattute: era più semplice che decontaminarle. L’esposizione diretta a un livello così elevato di radiazioni causò la morte della nipote di Ferreira, sei anni, oltre che di Gabriela e di altre due persone. Fra i sopravvissuti, diversi finirono per subire l’amputazione degli arti con i quali avevano maneggiato – o anche solo sfiorato – la polvere blu.
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Racconto questa storia perché mi è tornata in mente proprio di recente, mentre sentivo parlare di bufale, fake news o come le volete chiamare. L’ho trovata una metafora interessante. Come Pereira, Alves e gli altri della storia con la capsula radioattiva, ho l’impressione che spesso (anche in perfetta buona fede) non trattiamo le bufale come le sostanze pericolose che sono; anzi tendiamo a maneggiarle senza realizzare del tutto i danni collaterali che rischiamo di causare. L’istinto naturale, se vediamo qualcosa che non ci piace o che pensiamo possa fare male agli altri, è puntarci il dito sopra e gridare il più forte possibile: “Guardate qui, questa è una schifezza!”.
Se poi lo facciamo su un social network è ancora più facile: basta un clic, una riga di commento e la bufala è risolta perché ho spiegato a chi mi legge che è falsa. Più facile di così. Oppure no? In realtà ci sono almeno due aspetti che pochi tendono a considerare, quando si tratta di queste cose, ma che possono portare (e spesso portano) all’esatto contrario di quanto vorremmo – e cioè più bufale e non meno bufale.
Il primo è banalmente economico. Praticamente tutti i siti che ospitano questo genere di “contenuti” includono anche pubblicità. Il mercato dei banner online paga anche in base alle visualizzazioni, per cui a ogni clic sull’articolo corrisponde un ricavo per chi quel pezzo l’ha scritto e per il suo editore. Più clic equivalgono a più soldi; ogni "mi piace", a prescindere dalle intenzioni, ha un certo valore economico. Ai gestori di queste piattaforme non interessa se l’articolo lo condividiamo perché è la cosa più interessante mai letta nella storia dell’universo, o perché ci fa orrore, o perché ci è scappato il dito sul tasto sinistro del mouse.
Anzi, posso dire per esperienza diretta che i più furbi di loro sanno benissimo come funziona questo sistema, e lo sfruttano alla grande fregando anche chi – in buona fede – ci casca. Molti fra i contenuti più assurdi che leggiamo sono creati consapevolmente proprio a questo scopo, per monetizzare intanto i clic di chi, a quelle storie, ci crede e – perché rinunciarci? – anche quelli di seconda generazione: di chi s’arrabbia, s’indigna, li prende in giro. (Che poi non è mica una cosa che nasce con la rete: secondo voi perché uno come Sgarbi vive in televisione? Il meccanismo è esattamente lo stesso. E lui lo sa, e ci sguazza; e chi lo invita lo sa, e ci sguazza. Noi condividiamo le sue trollate per prenderlo in giro – guardatemi, sono uno intelligente io! –, e lui ci guadagna.)
Cinico? Certo. Ma a loro che importa? Finché fanno soldi in questo modo, che motivo avrebbero mai per smetterla? Me li immagino, osservando le luci della città una piovosa serata d’autunno, a riflettere mesti sulle ingiustizie della comunicazione contemporanea.
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E anzi, più è assurda la bufala, più convince i boccaloni e fa indignare i fact-checker-fissati-con-i-numeri-tipo-me, (che magari la rilanciano, alimentando altri clic) meglio è. Tanto che è nata un’intera industria basata su questa debolezza umana. Date un’occhiata a questa storia della BBC, per esempio, dove le bufale che hanno infestato le presidenziali americane sono state investigate fino a una città in Macedonia. Lì un gruppo di giovani ha industrializzato la produzione di bufale acchiappaclic. “Gli americani adorano le nostre storie”, spiega uno di loro, “a chi importa se sono vere o false?”.
Questo non vuol dire, naturalmente, che bisogna far finta di nulla. (Poi io faccio il giornalista, mica il prete: non sta certo a me dire alle persone cosa devono o non devono fare). Però, come ricorda uno dei più saggi uomini in circolazione, alla fine è sempre meglio sapere. Almeno così, prima di cliccare sul dannato tasto “condividi”, possiamo prendere una decisione informata sulle conseguenze. E se proprio dobbiamo linkarle, queste storiacce, possiamo almeno provare a usare un servizio come donotlink che ne limita la visibilità sui motori di ricerca. (Dimenticavo, c’è anche questa. Lo sapevate che se abbastanza persone condividono o anche solo linkano una storia sul legame fra vaccini e autismo per dire che è una cretinata criminale, la prossima volta che qualcuno cerca “vaccini” e “autismo” su un motore di ricerca quell’articolo comparirà più in alto fra i risultati? Altro effetto collaterale).
Certo se poi quel link lo apriamo, allora comunque stiamo regalando soldi ai bufalari. Ma alle soluzioni tecniche c’è sempre un limite: almeno finché la causa del problema risiede, purtroppo, nello spazio fra la sedia e il computer.
P. S. Ora che ci penso c’era anche una seconda ragione, ma quella è ancora più complicata e il post sta già diventando troppo lungo così. Sarà per la prossima!
P. P. S. La storia dell’incidente di Goiânia è ampiamente tratta dalla relativa (e molto ben fatta) pagina di Wikipedia.
resta il problema di come evitare le fake news pubblicate dai media tradizionali , problema forse piu' difficile da risolvere