A parole, sono tutti d’accordo sul ruolo essenziale dell’istruzione e della ricerca per lo sviluppo e per il futuro del nostro paese. I professori universitari, sostenuti da una parte consistente dell’opinione pubblica, denunciano una cronica mancanza di fondi e accusano il governo di ignorare nella prassi delle assegnazioni di bilancio i principi da esso stesso enunciati. La Finanziaria 2008 prevede meccanismi di tagli semi-automatici, solo in parte colmati da stanziamenti una tantum nelle finanziarie 2009 e 2010. Senza ulteriori interventi, nel 2011 le università non avranno da pagare gli stipendi. Il governo nega che la catastrofe sia incombente e piuttosto si propone di cambiare le regole per utilizzare al meglio le risorse già disponibili (il ben noto decreto Gelmini dovrebbe andare in questa direzione).
Il dibattito si caratterizza per i toni violenti e la mancanza di solide basi quantitative. Al massimo si citano confronti internazionali sulla spesa per l’università in rapporto al PIL o al numero di studenti. In effetti, nel 2004 (ultimi dati disponibili), la spesa per studente iscritto risulta molto bassa rispetto alla media dei paesi OCSE. Perotti (2008) ha però sostenuto che il confronto dovrebbe essere fatto sul numero degli studenti equivalenti a tempo pieno, per tener conto dell’elevatissimo numero di studenti fuori corso che caratterizzano l’università italiana. Secondo i dati dell’ultimo rapporto del Comitato Nazionale per la Valutazione del sistema Universitario (CNVSU 2009 tab 1.1), il numero di studenti “regolari” (in corso) è equivalente al 57% degli iscritti. Secondo i calcoli di Perotti, l’Italia spenderebbe (per studente a tempo pieno) circa il 70% degli Stati Uniti, poco meno della Svizzera e della Svezia e più degli altri paesi OCSE. L’opportunità della correzione proposta da Perotti è stata messa in dubbio da molti professori universitari ed il dibattito si è arenato di nuovo.
Questo post adotta un approccio diverso. Affronta il problema in prospettiva storica, sulla base di una serie a prezzi costanti (euro del 2008) della spesa statale per l’università. La serie della spesa totale è riportata nella Figura 1 (si rimanda alla Nota metodologica in fondo al post per i dettagli sulle fonti dei dati e le definizioni delle variabili).
Figura 1. Spesa totale a prezzi 2008 (milioni di euro)
Come si vede nella figura, dal 1980 al 2008 la spesa totale in termini reali è quasi triplicata (l'aumento è del 176%). Questo aumento è concentrato in due periodi relativamente brevi, dal 1984 al 1990 (+80%) e dal 1994 al 2001 (+47%), mentre negli altri anni la spesa è rimasta quasi costante. Nello stesso periodo è però aumentato anche il numero degli studenti iscritti, da un milione nel 1980/1981 a 1,8 milioni nel 2006/2007 (+70%). Il numero degli studenti “regolari” (in corso) è aumentato meno – solo del 35%. Quindi la spesa per studente è aumentata meno di quella totale – del 103% se si considerano gli studenti regolari e “solo” del 60% se si considerano tutti gli iscritti, come la Figura 2 illustra. In particolare la spesa per studente è rimasta pressoché stabile nell’ultimo decennio.
Figura 2. Spesa per studente a prezzi 2008 (euro)
L’incremento della spesa corrisponde abbastanza strettamente a quello del numero di docenti, passato da 16000 nel 1980 a 61500 nel 2008, un aumento del 226%. La legge 382/80 stabilizzò circa 15000-16000 precari (quorum ego), promossi a ricercatore, ed aumentò di circa 10000 unità il numero complessivo di ordinari ed incaricati (promossi ad associati). In quei cinque anni il numero di professori, ricercatori inclusi, è quindi aumentato di 1,5 volte. Dal 1985 l’aumento del corpo docente è stato più lento, “solo” del 45% - mentre il numero di ordinari è più che raddoppiato, passando dal 20% ad oltre il 30% del totale.
Il ministro Gelmini potrebbe interpretare l’espansione quantitativa come prova di un’insopprimibile tendenza dei professori a moltiplicarsi senza reale necessità, e quindi giustificare la politica della lesina di Tremonti. E’ però possibile un’interpretazione alternativa, più favorevole alla corporazione. Si potrebbe infatti sostenere che il grande incremento della spesa negli anni Ottanta sia stato necessario per adeguare il numero di professori al boom del numero di studenti, aumentato da circa duecentomila alla fine degli anni Cinquanta a sei-settecentomila dieci anni dopo (prima del ’68) ad oltre un milione nel 1980 (ISTAT 1985 tab. 4.6). In questo caso, il il livello del 1980 avrebbe dovuto essere molto basso in confronto agli anni precedenti e/o al livello di spesa di paesi a reddito simile. I dati per verificare tale ipotesi non sono di facile reperimento. Sono disponibili solo le cifre per il 1957-1959 (Cannati e Mussari 2003): allora la spesa totale era di 333 milioni (di euro 2008), pari ad un decimo di quella del 1980 e ad un ventesimo di quella attuale. La spesa per studente “regolare” risultava essere allora di 1750-1800 euro, esattamente la metà di quella del 1980 ed un quinto di quella del 2000 (e del 2008). Quindi la spesa del 1980 non sembra essere stata particolarmente bassa.
L’incremento del numero di studenti spiega quindi una parte consistente dell’aumento della spesa totale, ma non tutto. I dati disponibili permettono di individuare quattro fasi nell’evoluzione di lungo periodo della spesa per studente (“regolare”)
a) l’aumento dal 1959 al 1980 (un periodo che è giocoforza considerare unitario) riflette soprattutto l’aumento del costo unitario del personale – in sostanza degli stipendi. Il costo pro-capite dei professori (e del personale non docente) è aumentato di 2.5 volte, il numero di professori (ordinari ed incaricati) per 100 studenti è diminuito di un terzo
b) il boom dei primi anni Ottanta è strettamente legato all’immissione in ruolo dei precari e dei professori incaricati. Esso ha contemporaneamente fatto calare del 40% la spesa unitaria per docente (i ricercatori erano pagati molto meno dei professori) ed ha fatto ritornare il numero di professori ufficiali (la terminologia del tempo per indicare associati ed ordinari) a 3.5, lievemente sopra il livello della fine degli anni Cinquanta. In altre parole, il solo incremento del numero di ordinari e la stabilizzazione degli incaricati sarebbe stata sufficiente per riequilibrare l’offerta didattica (assumendo che essa fosse in equilibrio nel 1957-1959). Gli ex-precari, divenuti ricercatori, erano un sovrappiù – ed infatti la legge 382/80 negava loro il diritto di tenere corsi ufficiali. Tale diritto sarebbe stato riconosciuto solo nel 1990, e solo sotto forma volontaria.
c) La crescita della spesa degli anni Novanta è stata in gran parte determinata dall’incremento del costo unitario per professore, passato da circa 90000 euro nel 1985 al massimo storico di oltre 150000 nel 1998 per il combinato effetto di aumenti degli stipendi reali e della proporzione di professori ordinari sul totale (salito dal 20% al 25%). Invece l’offerta didattica non è aumentata, nonostante l’apporto dei ricercatori. Infatti, nello stesso periodo, il rapporto docenti/100 studenti è calato da 3.5 a 2.9 esclusi i ricercatori e da 5.5 a 4.7 inclusi i ricercatori.
d) l’ultimo decennio si caratterizza per una crescita del numero di docenti, molto più rapida di quella degli studenti. Questo è illustrato nella figura 3, che riporta la dinamica del rapporto docenti/studenti in Italia dal 1950 in poi. Il numero totale di professori è aumentato da circa 50000 a circa 60000 (+20%), mentre il numero di non-docenti rimaneva stabile o in lieve calo. In particolare l’incremento si è concentrato nella fascia degli ordinari, passati da circa 13000 a circa 20000 (+45%). Sono stati assunti circa 6000 nuovi ricercatori. E’ quindi diminuito lievemente il costo unitario per docente, mentre il numero di docenti (ricercatori inclusi) ha toccato il massimo storico di 5.9. Dal 1999 al 2008 le spese per personale a prezzi costanti sono aumentate del 20%.
Figura 3. Docenti in rapporto agli studenti
Riassumendo, questa semplice analisi suggerisce l’alternanza di periodi di espansione del corpo docente (soprattutto i primi anni Ottanta, ma anche l’ultimo decennio) e di crescita del suo costo pro-capite, a sua volta determinata dalle promozioni e dai meccanismi automatici. I professori italiani ricevono collettivamente un aumento percentuale fissato sulla base dell'incremento dei salari nella pubblica amministrazione ed individualmente scatti di anzianità biennali (indipendenti dalla performance scientifica o didattica. Nelle precedenti fasi di espansione, gli incrementi di spesa per il personale, di qualsiasi origine, sono stati bilanciati da un massiccio aumento di trasferimenti statali. Nell’ultimo decennio, invece, i trasferimenti (in termini reali) sono aumentati poco in totale e sono rimasti stabili per studente. La situazione dei bilanci dell’università è corrispondentemente peggiorata. Ciascuno può giudicare sulla saggezza di questa politica.
Nota metodologica
La serie considera solo i finanziamenti statali in senso stretto – dal Ministero dell’Università o dell’Istruzione, escludendo sia quelli delle autorità locali sia quelli statali attraverso il CNR. Esclude anche ovviamente tutte le risorse proprie degli atenei (tasse, entrate da patrimonio, entrate da convenzioni con terzi).
La serie delle spese è ottenuta da tre fonti differenti. Per il periodo 1980-1995 si utilizzano i dati di Catturi e Mussari 2003, a loro volta tratti da fonti ISTAT. Essi si riferiscono alla spesa totale, allora gestita in gran parte dal ministero, che, prima dell’autonomia, pagava direttamente gli stipendi dei docenti. Per il periodo 1994-2006 si utilizzano i dati del rapporto del Comitato Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario (CNVSU e 2002 2009).
La fonte riporta per tutto il periodo le cifre del cosidetto FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario), utilizzate autonomamente dalle università – in gran parte per pagare il costo del personale. Fornisce dati sulle spese finalizzate (soprattutto per ricerca ed edilizia) solo dal 2001. I dati per il 2007 e 2008 si riferiscono al solo FFO e sono tratti dal sito del CUN.
http://www.cun.it/media/70638/mo_2008_01_10_002.pdfTutti i dati espressi in prezzi correnti e, fino al 1995, in lire, sono stati trasformati in milioni di euro a prezzi 2008 con l’ indice dei prezzi al consumo ISTAT
Date le differenti definizioni di spesa, per costruire una serie omogenea nel tempo è stato necessario trasformare le due serie (Catturi-Mussari e CNVSU-CUN) in indici con base 1995=100. Tale indice è stato poi moltiplicato per il valore della spesa totale (FFO e finalizzate) nel 2006 per ottenere una serie della spesa. Si noti che tale procedura introdurrebbe distorsioni se il rapporto fra FFO e spesa totale fosse cambiato nel tempo. In realtà, è rimasto stabile negli anni 2001-2006 all’85% del totale dei finanziamenti ministeriali.
Bibliografia
- Catturi G. e R. Mussari (2003) Il finanziamento del sistema pubblico universitario dal dopoguerra all’autonomia, “Annali” del Centro interuniversitario per la storia delle Università italiane, 7 (2003) (http://www.cisui.unibo.it/home.htm)
- CNVSU (2002) Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario I dati finanziari Prime elaborazioni Roma luglio 2002
- CNVSU (2009) Ministero dell’università e della ricerca Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario Nono Rapporto sullo Stato del Sistema Universitario Roma - dicembre 2008 -
- ISTAT (1985) Sommario di statistiche storiche 1926-1985 Roma
- Perotti R. (2008) L’Università truccata Einaudi Torino
La crescita della spesa va in larga parte imputata alla variazione della composizione demografica del corpo docente, per effetto dell'avanzare dell'Onda Anomala di personale immesso in ruolo negli anni '80 - come documentato, fra l'altro, da un ben noto studio di Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi, "Lo Tsunami dell'Università Italiana", da essi ripreso anche in un libro recentemente uscito.
Del pari, la composizione demografica dei docenti si riflette anche nel fatto che, a parità di numeri totali, l'Italia deve fare posto ad una fascia di 65-75enni, del tutto marginale negli altri Paesi, giusta l'età di pensionamento, raramente derogata al di là di Chiasso, a 65.
Poi, la spesa per un Ordinario anziano (ma anche di un associato o di un ricercatore) non è affatto esigua, giusta la progressione stipendiale (e visto quando costoro diventarono Ordinari) automatica: un Barone di lungo corso, insomma, ci viene a costare sovente più di 150.000 Euro, un occhio della testa rispetto, e.g., ai colleghi inglesi (vedasi la scala salariale, su cui si carica peraltro un fardello minore di contributi a carico dell'amministrazione). Oltre tutto, ad un nostro ricercatore (a vita) si continuano a dare scalini in salita, mentre ad un lecturer ad un certo momento la scala si ferma.
Se solo anche in Italia si decidesse di pensionare i Baroni a 65 anni (liberando quindi risorse per meno costosi, ma spesso non meno validi, giovani accademici), e di legare gli scatti a valutazioni più stringenti, si risparmierebbe parecchio sul lato della spesa.
Sul totale della spesa, poi, va ricordato come - contrariamente a quella scolastica - quella dell'istruzione superiore sia sempre all'ultimo posto fra i Paesi OCSE, lo 0.8% del PIL (vds. Education at a glance 2009, Tab B4.1, pag. 241). Questo per rimarcare l'impegno globale.
Insomma un totale di spesa esiguo (consistente con la natura di Paese poco avanzato) e una distribuzione e degli obblighi scriteriati.
RR
Hai per caso i dati sulle eta' di pensionamento effettive in Italia e negli altri Paesi? Secondo me il punto importante e' la crescita di anzianita' delle retribuzioni, se come avviene per es in UK e' meno impetuosa e si ferma dopo 10-12 anni allora e' non c'e' vantaggio ad anticipare l'eta' di pensionamento. Il problema italiano e' che negli ultimi anni di anzianita' si concentrano vantaggi abnormi. Va sottolineato che la pendenza e durata abnorme degli scatti di anzianita' ha come conseguenza anche salari miserabili per i giovani.