1. La pubblica amministrazione, di sovente, promette ma non mantiene. Acquisisce la fornitura da un privato per garantire servizi pubblici ordinari o per una improcrastinabile urgenza da soddisfare – talvolta non osservando le procedure di spesa - per poi lavarsene le mani al momento di corrispondere il dovuto. Anche anni dopo. L'esazione dei pagamenti ha sempre tempi lunghi, se e quando vengono soddisfatti. Nei casi di prestazioni realizzate in assenza di impegno contabile degli uffici, invece, l’ente oppone la più sorda osservanza delle formalità di spesa, la cui avvenuta violazione inficerebbe la pretesa del privato rimasto insoddisfatto, salvo questi decida di rimescolare le carte ed intraprendere la via giudiziaria.
2. Qualche dato per comprendere la quantità del fenomeno dell’insoluto nei confronti dei fornitori, che somma i crediti riconosciuti ma insoddisfatti dalle pubbliche amministrazioni a crediti non riconosciuti, che la pubblica amministrazione ignora, a torto o a ragione. Al 31 dicembre 2014 il debito accertato delle pubbliche amministrazioni nei confronti dei privati fornitori ammontava a circa 70 miliardi di euro – dati della Banca d’Italia: il 4.54% della produzione nazionale nell’anno - ed è costato alle imprese, in termini di ritardi e spese di esazione, circa 6.1 miliardi di euro – secondo l’indipendente Centro Studi Impresa e Lavoro. Vanno aggiunte le somme che le pubbliche amministrazioni non riconoscono, salvo il successivo accertamento giudiziale che travolge ogni determinazione contraria, di cui però mancano i dati aggregati. In entrambi i casi per il ritardo al pagamento le imprese falliscono, vanno in decozione, contraggono costosi fidi bancari per sostenersi, limitano gli investimenti, accumulano inadempimenti, drogando l’affidabilità dei pagamenti del sistema nazionale: il 76% delle imprese soffre di liquidità per ritardi nei pagamenti, secondo la CGIA di Mestre. Con puntualità certosina lo Stato, invece, esige il dovuto fiscale, senza tentennamenti, salve le ostiche e limitate ipotesi di compensazione fiscale dei crediti con le somme iscritte a ruolo – v. D.L. n. 78 del 2010. I tempi medi dei pagamenti danno la cifra al fenomeno: 131 giorni con picchi di 400 giorni nel settore sanitario – ancora secondo la CGIA di Mestre. Sono i più alti d’Europa nonostante timidi sintomi di miglioramento, fra cui i recenti interventi governativi che hanno inteso finanziare parte del debito pregresso verso i fornitori – 56 miliardi di euro nel biennio 2013-2014, il cui impatto è stato evidentemente limitato, vista la autorigenerazione del debito commerciale - la direttiva UE n. 2011/7/UE che ha fissato in trenta/sessanta giorni i tempi massimi di esazione dei pagamenti ed una regolazione degli interessi di mora sulle somme dovute particolarmente afflittiva per l’ente pubblico cattivo pagatore (anche oltre l’otto per cento annuale, v. d. lgs. n. 192 del 2012).
3. L’ente pubblico, in molti casi, si disinteressa della richiesta di pagamento del fornitore. Lo fa quando, per paradosso, al tempo di commissionare la fornitura, la medesima pubblica amministrazione non ha seguito pedissequamente le procedure di impegno e di spesa previste dalla normativa speciale di contabilità pubblica. Pur colpevole, l’ente pubblico intende a suo favore usufruire delle storture procedurali, a danno del fornitore che trova respinta la richiesta di indennizzo. E fa la faccia cattiva, negando il dovuto. Più chiaramente: quando è assente un impegno di spesa o una specifica regolazione contrattuale che consentirebbe al fornitore di agire per l’intero della somma concordata, la pubblica amministrazione volge lo sguardo altrove – v. par. n. 4 -. Il fornitore batte allora la via giudiziaria, nei termini di domanda di riconoscimento dell’indebito arricchimento della pubblica amministrazione ex art. 2041 c.c. Si tratta di vie obbligate. Le ragioni del ricorso giudiziario del fornitore sono plurime e s’annidano fra le sacche d’inefficienza degli apparati amministrativi. Di sovente le pubbliche amministrazioni non istruiscono le modalità e le quantità delle forniture prestate – spesso risalenti nel tempo –. In altri casi confidano nel metus publicae potestatis e nella specialità della pubblica amministrazione, che fa dell’ente pubblico un debitore più difficilmente aggredibile da un qualsivoglia creditore munito di un titolo esecutivo – potendo l’ente dichiarare in parte impignorabili i propri conti correnti o usufruire di termini dilatori per l’esecuzione nei suoi confronti significativamente più lunghi, ai sensi dell’art. 14 del D.L. n. 669 del 1996 -. Altrove sono obiettive crisi di liquidità dell’ente ad impedire il pieno soddisfo del dovuto – nonostante l’abbandono del Patto di stabilità per l’anno 2016 per Regioni ed Enti Locali, che avrebbe sbloccato i pagamenti in presenza di cassa disponibile -. In altri casi ancora fanno un cattivo uso della discrezionalità amministrativa, riconoscono alcuni debiti e non altri – gli enti locali adottano la procedura del riconoscimento dei debiti fuori bilancio, ai sensi dell’art. 194 del d. lgs. n. 267 del 2010 e le Regioni ai sensi dell’art. 73 del d. lgs. n. 118 del 2011 - in relazione alla forza contrattuale del creditore o a fattori preferenziali o di favore. Casi frequenti, per quanto esecrabili.
4. L’equivoco cui l’ente confida, per quanto si dirà d’appresso, è che in ogni caso di fornitura del privato acquisita in scostamento dalla rigida osservanza delle procedure di contabilità pubblica o nei casi di assenza di convenzione scritta con il fornitore – da sanzionare con la nullità del rapporto a far leva dal regime di contabilità pubblica ex R.D. n. 2440 del 1923 -, a pagare non sia più l’ente pubblico ma il funzionario che al tempo ordinò la fornitura, se e quando identificabile, se e quando solvibile. L’amministrazione se ne lava, insomma, le mani. L’incentivo per l’ente pubblico è a non pagare il fornitore e di seguito ad incrementare il volume dei crediti dei fornitori rimasti insoddisfatti. La soluzione contiene degli evidenti elementi di paradosso, oltre a risultare più ostica per il fornitore disatteso. In primis, questi agirebbe nei confronti di funzionari che non hanno nei fatti acquisito alcuna utilità dalla prestazione. Spesso non sa chi sono, di sovente non ha documenti a sostegno delle pretesa perché l’ente pubblico li nega. Quando identificati, i pubblici funzionari illo tempore ordinanti la prestazione, citati in giudizio ed eventualmente condannati a pagare il fornitore dovrebbero poi agire nei confronti dell’ente pubblico acquirente utilità per la prestazione, dando corpo ad una irrazionale duplicazione processuale per porre in linea i fattori sostanziali del trasferimento di valore della prestazione. In questi termini trova parafrasi la prevalenza della sfera amministrativa – le norme di contabilità pubblica ex R.D. n. 2440 cit. - su quella civilistica – le norme sull’indebito arricchimento ex art. 2014 cod. civ. -, la quale imporrebbe la legittimazione passiva processuale diretta in capo a chi di quella prestazione e quell'utilità ha usufruito – l’ente pubblico - e non ha ciò nonostante corrisposto il dovuto.
5. Eppur qualcosa si muove. L’eco non è sottile, pare suonare di gran cassa. Le Sezioni Unite sono intervenute nel 2015 – sentenza n. 10798 - a definire il principio opposto: paga la pubblica amministrazione che ha acquisito l’utilità dalla prestazione del privato, nonostante non voglia corrisponderne il valore. A prescindere dal riconoscimento dell’utilità o del debito da parte dell’ente – nel caso di enti locali, dal riconoscimento del debito fuori bilancio ex art. 194 del d. lgs. n. 267 del 2010. -. E’ il giudice ad accertare l’utilità acquisita, non più l’ente che ne ha usufruito. Non potrebbe essere altrimenti, a ragion di logica comune, e la giurisprudenza civile finalmente aderisce. Viene dedotta la valenza generale dello strumento processuale dell’indebito arricchimento che, in quanto residuale ex art. 2041 c.c. e disossato da criteri di attribuzione formale della prestazione, non può che agganciarsi ai criteri di riferibilità sostanziale e fattuale dell’arricchimento. Paga chi ha goduto della prestazione del fornitore. D’ora in poi – la giurisprudenza di merito appare già a suo agio con la soluzione - non riconoscere il pagamento per una fornitura realmente prestata ed utile all’ente costituisce un rischio per chi ne sostiene il disconoscimento: funzionari, amministratori, consiglieri. Delle eventuali spese di soccombenza giudiziale in carico all’ente pubblico questi devono rispondere di fronte alla magistratura contabile. Che arriva. Tempo dopo ma arriva, con il solito intercedere inquisitorio.
6. La soluzione vuol dire di più di una fisiologica deviazione giurisprudenziale. Costituisce un fatto di civiltà giuridica di cui va a venire misurato l’impatto sulla quantità dell’insoluto nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Sostanzia l’osmosi della sfera civilistica su quella pubblicistica, di sovente regno dell’irresponsabilità, di norme e regolamenti interni diversificati, della dilazione dei tempi e dell’autoreferenzialità dell’apparato pubblico - ai danni di chi incardina relazioni commerciali con l’ente e bellamente ignora l’irrazionale magmatica dell’agire amministrativo -. Nonché di pedanti burocrati appassionati di cavillo. La soluzione osta all’esercizio di frequente malsano della discrezionalità amministrativa e dei figli e figliastri che seleziona l’ente pubblico, che non ha più l’ultima parola su chi pagare e chi non pagare fra i fornitori, potendo il giudice civile travolgere ogni determinazione contraria, quando abusiva. Costituisce un ulteriore breve scostamento dell’asse normativo dalla vischiosa dimensione autoreferenziale dell’ente a quella civilistica comune, in cui l’ente pubblico è niente più che un contraente che ha eventualmente leso un diritto soggettivo al compenso per una prestazione svolta. Come accade nei paesi di common law.
7. La soluzione nomofilattica intende insomma arginare fughe perimetrali del diritto amministrativo nell’area civilistica di accertamento del diritto soggettivo leso, di cui il giudice ordinario è padrone ai sensi dell’all. E della legge n. 2248 del 1865 che gli consente di poter disapplicare l’atto amministrativo adottato in violazione del diritto al compenso di un fornitore. In questa sede è la discrezionalità amministrativa dell’ente pubblico a contare di meno. Che riconosca l’utilità della prestazione di un fornitore o che non la riconosca, al giudice civile spetta l’autonoma determinazione materiale del vantaggio acquisito dall’amministrazione. Accertato quello, il fornitore va pagato dall’ente. Cade la primazia dell’ente pubblico. Nei meandri del diritto civile l’ente pubblico si perde.
8. Insomma, le Sezioni Unite del 2015 costituiscono neppiù che il battito d’ali di farfalla di Lorenz, le cui propalazioni potranno incidere sulla dimensione fenomenica dell’insoluto di fornitori nei confronti delle pubbliche amministrazioni. La soluzione sottrae all’ente la schermatura al privato dell’irritualità della procedura che ha consentito al fornitore di prestare attività per l’ente. Un passo in avanti, di certo, per fare delle amministrazioni contraenti inadempimenti come altri e minare alla fonte le ragioni della specialità degli enti pubblici. Come noto, è l’incentivo a determinare costumi e prassi amministrative. Più di nuove norme o delle retoriche al buon andamento dei poteri pubblici. I tempi sono ancora poco maturi per misurare l’impatto sui numeri del nuovo orientamento giurisprudenziale. Di certo, quando la pubblica amministrazione fa la voce severa smentendo la richiesta di un pagamento per una fornitura utilmente prestata a suo favore, lo fa a rischio e pericolo dei funzionari od amministratori che hanno malamente denegato la richiesta di un giusto compenso per l’attività espletata e che hanno trascinato l’ente alla disputa giudiziaria. Cioè, il timore dell’intervento riparatore della Corte dei Conti nei loro confronti potrebbe avere più forte capacità dissuasiva di qualsivoglia carnevalesca invocazione alla moralità ed alla giustezza dei comportamenti amministrativi. Se lo augurano, per prime, le imprese fornitrici degli enti pubblici.
il nuovo orientamento giurisprudenziale è che in ogni caso deve pagare l'ente pubblico, non il funzionario. Se è così, potrebbe Capitani gentilmente dire più chiaramente che cosa intende quando scrive:
Avendo fatto il classico ;-) posso intuire il senso di questa prosa. Ma preferirei vederla tradotta in un inglese comprensibile da un nord-americano, che è un test di comprensibilità raccomandabile sempre. Almeno su nfa, quando non si scrive di poesia ma di questioni concrete come chi debba pagare chi.
Grazie comunque, l'articolo sembrerebbe toccare un punto importante.
Il tentativo è quello di relazionare dimensione (certa) dell'insoluto della pubblica amministrazione (i cui rimedi sono durati una notte) a una tendenza evolutiva innescata da un nuovo approccio giurisprudenziale più severo nei suoi confronti. Nella pubblica amministrazione poche cose fanno paura quanto la Corte dei conti (non l'esercizio del potere disciplinare, non perdere il proprio posto di lavoro). La Corte interviene quando l'ente pubblico perde risorse finanziarie in via ingiustificata, ad esempio quando perde cause civili e sono ricavabili profili di responsabilità personale. Prima: l'ente pubblico disconosce un debito con un fornitore, il giudice civile non può discostarsene, il funzionario non paga. Ora: il giudice civile non si cura del disconoscimento del debito della pubblica amministrazione e la può condannare, dunque la Corte dei conti può rivalersi nei confronti del funzionario per ogni spesa aggiuntiva occorsa. Insomma, il cattivo esercizio della discrezionalità amministrativa ora ha un prezzo. E' un passo avanti. S'incrementa l'incentivo a fare attente valutazioni su chi pagare e chi no (sia chiaro, mi sono limitato a scrivere di uno specifico caso, la fornitura utilmente acquisita in violazione delle norme di contabilità pubblica). Chi disconosce e sbaglia, rischia più di prima. La speranza è che la minaccia di sanzione migliori i numeri dell'insoluto nei confronti della pubblica amministrazione. Occorrerebbero, ai fini analitici, anche analisi comparate con quanto fa la Corte dei conti ogni anno. Sarebbe interessante. Probabilmente scrivendo in inglese comprensibile sarei più incomprensibile. :)