È finita la crisi?

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Io, di mio, faccio l'econometrico specializzato in serie temporali (nonlineari, per giunta). Qualcuno di qui - interessato nelle analisi congiunturali che da circa due anni elaboro mensilmente per il BIAM - mi ha chiesto di tradurle in italiano corrente, sperando interessino anche i lettori. Questo mese ci provo, poi vedremo.

Durante il mese di maggio sono stati pubblicati tutti i dati macroeconomici relativi al primo trimestre del 2009: essi confermano che le principali economie del mondo hanno vissuto, tra gennaio e marzo, il peggior trimestre degli ultimi 60anni. Fin qui, niente di nuovo.

La sostanziale contrazione del PIL negli Stati Uniti, in Giappone e nella zona euro (specialmente in Italia, Germania e Spagna) ha causato un nuovo peggioramento delle aspettative di crescita per il 2009. Mentre le statistiche ufficiali confermavano la serietà della recessione, molti dei leading indicators iniziavano a mostrare un cambio di tendenza. I primi segnali, osservati in aprile, sono stati confermati durante maggio. Anche il recupero delle borse, che molti considerarono puramente illusorio, continua da mesi, tanto che la variazione dall'inizio dell'anno è oramai positiva in tutti i principali mercati. Questi sono, concretamente, i famosi ''germogli verdi''.

 

ECONOMIC INDICATORS OF THE MAIN ECONOMIES

 
 


 

EURO AREA

 
 

GERMANY

 
 

SPAIN

 
 

ITALY

 
 

UNITED
KINGDOM

 
 

U.S.A.

 
 

JAPAN

 
 

GDP1 1 quarter
(quarterly)

 
 

-2,5

 
 

-3,8

 
 

-1,8

 
 

-2,4

 
 

-1,9

 
 

-1,6

 
 

-3,2

 
 

PIB1 1 quarter
(annual)

 
 

-4,6

 
 

-6,9

 
 

-2,9

 
 

-5,9

 
 

-4,1

 
 

-2,6

 
 

-4,3

 
 

IPI march
(annual)

 
 

-20,2

 
 

-21,7

 
 

24,7

 
 

-23,8

 
 

-14,8

 
 

-13,7

 
 

-34,4

 
 

Exports2
march (annual)

 
 

-16,7

 
 

-24

 
 

-24

 
 

-26

 
 

-26

 
 

-23,8

 
 

-49,4

 
 

Retail sales3
march (annual)

 
 

-4,2

 
 

-1,9

 
 

-8,2

 
 

1,6

 
 

0,8

 
 

-6,8

 
 

-3,4

 
 

Unemployment rate4
marzo (%)

 
 

8,9

 
 

7,6

 
 

17,4

 
 

5,8

 
 

6,6

 
 

8,1

 
 

4,4

 
 

1) GDP Japan: 4 quarter 2008.
2) Non-seasonal adjusted. U.S.A. and Japan: february 2009.
3) Italy: february 2009
4) U.K. January 2009. Italy: december 2008. U.S.A. and Japan: february 2009.
Source: EUROSTAT & ECOWIN

 

Sulla capacità delle borse di anticipare l'evoluzione dell'economia reale si è detto e scritto di tutto: laverità è che non esiste una relazione statistica stabile che permetta risolvere una volta per tutte la questione.Per quanto riguarda i leading indicators bisogna considerare due tipologie distinte. Da un lato ci sono gli indici di fiducia e tutte le variabli costruite attraverso interviste e sondaggi. L’indicatore di sentimento economico, pubblicato dalla commissione europea, o l'indice di fiducia dell’industria, ne sono esempi. Un altro tipo di leading indicators è quello sintetico, costruito aggregando in una variabile unidimensionale l'informazione contenuta in uninsieme più ampio di variabili. Un esempio classico in questo senso è il Conference Board Leading Indicator (pubblicato per 10 nazioni). Il succo è questo: quasi tutti questi indicatori hanno invertito la tendenza tra marzo e aprile ma tutti rimangono in un rango di valori vicino ai minimi storici e chiaramente in ''zona contrazione''. Se la relazione statistica che lega questi indicatori alle principali variabili macroeconomiche ha mantenuto una certa stabilità è molto probabile che il secondo trimestre sarà migliore del primo, che la velocità di caduta sia diminuita, o addirittura abbia raggiunto lo zero, e che l'economia abbia toccato o tocchi fondo nei prossimi mesi. L'informazione disponibile non è sufficiente per stabilire se sarà una crisi a forma di U di V o di W. I modelli quantitativi di cui disponiamo possono sbagliare nel predire la ripresa come (o peggio) sbagliarono nel predirre la crisi. È sufficiente tutto questo per dire che il peggio è passato? Beh, dipende.

Da un lato, è passato il timore dell'apocalisse. I mercati finanziari hanno ritrovato un po' di traquillità e tutti gli indicatori di avversione al rischio si stanno normalizzando. Questa normalizzazione è arrivata dopo che governi e banche centrali hanno inondato i mercati di liquidità a tassi stracciati per oltre un anno e dopo che, cosa probabilmente più importante, hanno dimostrato di essere disposti a tutto per garantire la solvenza del sistema bancario. Consiste in questo la “soluzione” della crisi? Saremmo arrivati all’apocalisse in assenza di questi interventi di salvataggio generalizzato? La questione è aperta.

Dall’altro lato, gli indicatori “reali” continuano a segnalare una pessima situazione. Il mercato del lavoro, per esempio, segue il ciclo con un ritardo di vari trimestri e continuerà peggiorando durante molti mesi. Nei paesi dove la bolla immobiliaria è stata piú forte (USA, Irlanda, Spagna e UK) la situazione sarà ancora peggiore e la crisi dell’occupazione più lunga. Per il mercato del lavoro il peggio non è affatto passato. Questo implica che per una fetta sostanziale delle famiglie il peggio della crisi deve ancora venire.

Guardando al PIL le cose sono un po' più complicate e tirerò in ballo le nostre previsioni. Nella zona euro crediamo che il PIL rimarrà praticamente costante nel secondo trimestre per poi tornare a cadere nel terzo con una caduta dello 0,8% sul trimestre precedente. Tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010 la crescita trimestrale del PIL della eurozona dovrebbe stabilizzarsi su valori leggermente positivi. La flessione del PIL sarà del 4,0% quest’annomentre la crescita sarà contenuta però positiva nel 2010 (+0,2%). Se si è toccato il fondo nel trimestre passato è anche probabile che in quel fondo rimarremo un bel po'. La ripresa sarà lenta e modesta con una crescita media nel 2010 appena positiva.

Gli Stati Uniti, magari un po' a sorpresa, se la passano meglio; almeno nei nostri calcoli. Nelle previsioni del Consensus Forecast lo scenario centrale è quello di una flessione del 2.9% del PIL nel 2009 con una crescita quasi identica (2,8%) nel 2010. Insomma, se i modelli econometrici ci azzeccano gli USA torneranno (quasi) al PIL del 2008 all’inizio del 2011.

Quanto all'Italia, le previsioni del consensus sono simili alle nostre previsioni per la zona euro: una riduzione media annuale del 4,0% del PIL durante quest'anno e una ripresa molto debole con crescita quasi nulla (0,1%) nel 2010. Bisogna però ricordare che l'Italia ha chiuso il 2008 con una variazione media negativa dello 1,0%, entrando in recessione prima e più profondamente degli altri paesi dell'area euro. Di nuovo, se gli econometrici ci azzeccano, l'Italia all'inizio del 2011 sarà molto più povera che nel 2008. Infatti, sarà più o meno dov’era nel 2000. Poiché i cicli economici non trattano tutti in modo omogeneo, questo implica che, ancora nel 2011, una fetta veramente sostanziale delle famiglie italiane starà peggio che nel 2000!

Senza dilungarmi oltre su questi aspetti lasciatemi trarre una piccola conclusione: l'economia mondiale è passata attraverso uno dei peggiori trimestri della storia ma la probabilità di una nuova grande depressione, che molti pronosticavano solo tre-sei mesi orsono, sembrano ora molto remote. Tutto finito? Non proprio.

Il costo dell’intervento pubblico, per le economie occidentali, si aggira, per il triennio 2007-2010, sul 20% del PIL secondo le stime del FMI. Dando uno sguardo alle previsioni a lungo termine l'aumento supererà i 30 punti percentuali nel 2014. Anche se il settore privato, spinto dalla poca disponibilità delle banche ad emettere nuovi prestiti, iniziasse il suo deleveraging a un ritmo vertiginoso, l’indebitamento globale delle principali economie è destinato ad aumentare nei prossimi anni. Questo implica che da una crisi dovuta all'eccessivo indebitamento usciremo ancor più indebitati di quando ci siamo entrati. La differenza starà nell'identità dei soggetti indebitati.

La bolla del consumo privato, gonfiata dall’inflazione della ricchezza finanziaria e immobiliaria, non si ripeterà. Sperare che i consumatori tedeschi, cinesi o italiani (anche l’Italia è tra i paesi con un alto tasso di risparmio) cambino le proprie abitudini e "sostengano" la ripresa dell’economía mondiale indebitandosi è non solo illusorio ma controproducente. Vale la pena ricordare che gran parte delle economie occidentali (e non) devono vendere nei prossimi anni una immensa quantitá di debito, che il settore bancario deve ancora terminare lasua ricapitalizzazione, che le imprese, non potendo più contare sulle banche, dovranno finanziarsi principalmente con emissioni di corporate debt. Vale la pena ricordare insomma, che più che di consumo sembra che l’economia mondiale abbia bisogno di una grande quantità di risparmio. Questo fatto, che sta emergendo sempre più chiaramente negli ultimi tempi, la dice lunga sulla rilevanza del dibattito di sei-nove mesi fa sulla necessità di stimoli fiscali.

Per l'Italia, e non solo, la via d'uscita tipica dalle recessioni è stata quella della domanda esterna e della svalutazione competitiva. Questa strategia ha un difetto fondamentale: funziona solo se i paesi che creano la ''domanda esterna'' non sono anche loro in recessione. Purtroppo la crisi è globale: molti paesi hanno visto cadere le proprie esportazioni a tassi superiori al 20%, la flessione del commercio internazionale (in volume) sarà superiore al 10% nel 2009. Molti paesi, che affrontano la prima crisi dell'era euro, non hanno il controllo diretto della propria moneta mentre altri equilibri (penso al tasso di cambio dollaro-yuan) si reggono su motivazionipolitiche e strategiche più che economiche. Nessun paese importante può sperare di tornare a crescere a breve termine manipolando il tasso di cambio: questa strada, per ora, è chiusa.

Alla luce di questi fatti, la possibilità che alcuni paesi (USA in primo luogo) possano tentare di uscire dalla trappola del debito generando un eccesso di inflazione aumentano. Questa opzione ha guadagnato molto spazio sui mezzi di comunicazione nelle ultime settimane (diversi articoli, specialmente sul Financial Times) mentre il dibattito sulla deflazione, la grande paura degli economisti "ufficiali", si è oramai spento. I dati confermano questo cambio di tendenza: alcuni prezzi sono diminuiti per alcuni mesi, perché era in atto un cambio di prezzi relativi dovuto, in generale, ad un eccesso di offerta di quei beni. Il cambio è stato utile e la situazione sembra ormai stabile: il rischio di deflazione negli USA e nella euro area è insignificante.

Dall'altro lato l'inflazione USA si è attestata sopra le previsioni per due mesi consecutivi proprio grazie ai prezzi dei beni industriali. Incorporando la nuova informazione le nostre previsioni dell’inflazione core per il 2009 ed il 2010 sono l'1,8% (± 0,18) e l’1,9% (± 0,39) con un aumento di 2 decimi nel 2009 e di un decimo nel 2010. Anche la FED ha modificato le sue previsioni verso l’alto: l’intervallo della tendenza centrale del core PCE per l'ultimo trimestre passa dal 0,9%-1,1% pubblicato in gennaio al 1,0-1,5%. Potrebbero non sembrare grandi numeri, ma bisogna tenere in conto che il core PCE è una misura di inflazione estremamente stabile e poco volatile. Un cambio dal 0,9% all’1,9% è un cambio tra due scenari completamente diversi.

Il problema con le previsioni della FED è che, in questo momento, il suo conflitto di interessi è enorme. Se, da un lato, non può non prendere atto che le aspettative di inflazione sono cambiate, dall'altro non può ammetterlo se il Tesoro USA vuole continuare a vendere T-bills con rendimenti nulli. Una volta portata a termine l’espansione del debito necessaria, la tentazione di generare inflazione sarà fortissima. Anche se nel FOMC si parla ormai molto di exit strategy,è chiaro che ci troviamo davanti a un classico problema di inconsistenza temporale.

La domanda fondamentale, in un problema di inconsistenza temporale, è se la punizione che il mercato può infliggere al debito pubblico americano è sufficiente a disincentivare l'utilizzo puntuale di una strategia opportunista. Se non emerge un'altra moneta di riserva, la risposta è probabilmente negativa. Se gli USA generassero inflazione svalutando il loro debito, i risparmiatori mondiali dovrebbero ammettere l'errore ed accettare le perdite. Mantenere l’inflazione tra il 5 e il 7% per un periodo di 2-3 anni scontenterebbe molti e incentiverebbe alcuni cambiamenti, ma difficilmente potrebbe portare alla rapida ascesa dell’euro, del yuan o di una moneta artificialecreata dal FMI come valuta di risverva.

È possibile che la zona euro o il Giappone seguano gli Stati Uniti sullo stesso cammino? Improbabile. Il Giappone ha avuto per 15 anni la possibilità di svalutare il suo immenso debito e non l’ha utilizzata. Per quanto riguarda l’unione monetaria europea, mantenere l’inflazione sopra il 2.0% sarebbe una violazione del mandato del BCE.

Concludendo: il rischio nuovo è quello dell'inflazione USA. Quello antico sta in una ripresa che tardi a venire perché qualcosa, da qualche parte, si è rotto nel meccanismo mondiale dei mercati, e le parti rotte non sono state sostituite.

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Commenti

Ci sono 15 commenti

Complimenti per l'italiano corrente, ho capito tutto io che sono un mulo (keynesiano, per giunta), immagino gli altri.

In questo scenario molto chiaro che tratteggi sembra che privilegi (come a gran voce stanno facendo in USA, per far pagare al resto del mondo i loro problemi) lo scenario inflazionistico, non pensi che ci possa anche essere un "rischio" di aumento di tassazione, almeno nell'area euro ?

Magari, per non essere sgradevoli politicamente, non sul reddito delle persone fisiche, ma sull'imposta sul valore aggiunto (attraverso la classica "rimodulazione e armonizzazione") ? Tutto sommato un punto percentuale in più sull'iva in ambito europeo è una cifra di tutto rispetto.

Bell'analisi semplice e probabilmente veritiera alla faccia del paradigma delle derivate seconde e delle inversioni di tendenza...Tre secondo me sono gli elementi interessanti di quest'analisi:

1) Ammesso e non concesso che la derivata seconda sia migliorata per vari indicatori, siamo sempre in territorio negativi e li ci possiamo rimanere per tempo...Nessuno sa per quanto nonostante la derivata seconda. Se la discesa del PIL é rallentata nessuno ci puo' dire quando si tornerà in positivo. Un inflection point non é un turning point...

2) Il conflitto d'interessi nel dare i dati: alcuni hanno interesse a diffondere ottimismo e non realismo sperando in aspettative autorealizzantesi (il governo Berlusconi é specialista e trasforma automaticamente i punti di flesso in punti d'inversione. Anche Trichet della BCE parlo' di inflection points invertiti ma si guardo' bene nel comunicare la differenza tra inflection point e turning point).

3) Che bene che vada nel 2011 saremo in ogni caso più poveri e indebitati e più disoccupati che nel 2008 (Tremonti disse che non era un problema se il PIL torna indietro...e Brunetta gira dicendo che con la crisi alcune categorie come pensionati e dipendenti si sono arricchite, alla faccia dell'ottimismo di maniera e della nozione di peggioramento che rallenta...)

Leggendo l'articolo più che risposte mi sono venute in mente domande: tutti i soldi spesi dai governi per contrastare il crash finanziario, dovranno prima o poi rientrare nelle casse degli stati. Tasse alte e ripresa non vanno daccordo. Soluzione? Meno servizi per i cittadini? Una lunga e costate stasi economica fino al default (sulla falsa riga dell'Argentina)? O altro?

Secondo me, inflazione (tra un paio d'anni). Persino uno dei piu' tenaci propagatori di paranoie su rischi deflazionistici, Martin Wolf, finalmente ammette che vari segni, non ultimo l'aumento dei rendimenti dei titoli obbligazionari, fanno pensare che la paventata deflazione dopotutto non ci sara'. Tempo di autocritica? Macche': e' contento perche' dice che questa e' la prova che le misure prese dai governi hanno funzionato...

 

Davvero pensi che in USA la maggioranza sia composta da vigilantes anti-inflazione?

 

Non credo serva una maggioranza. Basta una minoranza ampia ed aguerrita, e quella mi sembra che ci sia.

Quando vedo articoli come questo, sul NYTimes di oggi, mi bolle un po' il sangue nelle vene pensando all'insano dibattito di 6-9 mesi fa, dove il problema era ... il troppo risparmio ed il troppo poco consumo e bisognava spendere, spendere, spendere. I pochi di noi a dire che il problema era, ovviamente, il rovescio, ossia che c'era stato troppo poco risparmio per troppo tempo e che ora i segnali di prezzo erano stati finalmente forti abbastanza per convincere la gente che era il caso di risparmiare, quei pochi di noi venivano sommersi da fischi ed improperi. Meno di un anno dopo risulta che avevamo, altrettanto ovviamente, ragione. Il che implica, non tanto che avevamo ragione noi ma che il maledetto modello economico che i gestori dell'economia mondiale usavano ed usano è totalmente sballato. Ma a quella conclusione il giornalista del NYTimes non sembra arrivarci, e la gente nemmeno.

Off to celebrate Andreu, that's more entertaining.

Un saluto da un nuovo arrivato, studente di statistica ed economia.

Ho letto di indicatori macroeconomici, di fiducia e di sentimento, di avversione al rischio; di inconsistenza temporale; di inflazione e svalutazione del debito. Aspetti sicuramente fondamentali.

Ma mi incurioscono molto alcune considerazioni che mi sembrano di tipo un po' diverso e che leggo anche su questo sito:

 

A me sembra che, a partire dai primi anni 2000, nel mondo industrializzato occidentale, ci sia un evidente eccesso di offerta. Non c’è più niente da produrre, niente da vendere, nessun mercato in espansione o nel quale poter entrare. L’unico mercato in espansione mi pare che sia quello delle fonti energetiche rinnovabili, ma, evidentemente, non può fare da traino all’economia mondiale (axel bisignano)

 

E' vero? Se lo fosse, non mi sembrerebbe irrilevante. E' forse una conseguenza della curva sigmoide tipica della domanda dei beni durevoli? C'è forse un contrasto tra aumento della produttività e saturazione della domanda di beni durevoli, un divario crescente tra ciclo di produzione e ciclo di vita del prodotto?

E' falso? E' solo un'ipotesi? E come si fa a dimostrarla o smentirla?

Grazie.