È giunta l'ora di allentare i vincoli edilizi nelle grandi città italiane?

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I vincoli edilizi nelle grandi città italiane sono oggetto di permanente contesa politica: c'è chi li vuole abolire del tutto, e chi si erge a difesa del patrimonio urbanistico. Esiste un modo per misurare l'impatto di tali restrizioni, ed è attraverso il confronto tra i prezzi di compravendita degli immobili e il costo di costruzione di nuove abitazioni. Risulta che le restrizioni imposte alla nuova edilizia residenziale sono notevoli, anche tenendo conto della volontà di salvaguardare edifici storici e paesaggi. Non sarebbe allora il caso di allentare la stretta e permettere un rinnovamento delle periferie urbane?

1. Introduzione

Negli ultimi dieci anni le famiglie italiane hanno affrontato un incremento delle spese per l'abitazione. Secondo dati ISTAT (“Consumi delle famiglie 2010”), la spesa mensile di una famiglia media italiana viene assorbita, per una quota pari al 28,4% dell'intera spesa mensile nel 2010, dal canone di locazione dell'abitazione, oppure dalla rata di mutuo se la famiglia in questione abita in un appartamento di sua proprietà.
Il seguente grafico considera l'andamento dei prezzi residenziali per nuovi appartamenti nelle città più grandi (quelle con almeno 250.000 abitanti), ponendolo a confronto con l'andamento del costo medio di costruzione. Appare evidente l'ascesa dei prezzi, ed anche che tale ascesa ha superato il tasso d'inflazione calcolato sui soli costi di costruzione.

 

Figura 1: andamento dei prezzi per immobili residenziali nelle città con  popolazione >250.000 (linea arancione), e andamento del costo medio di costruzione (linea blu), rispetto ad un anno base (2004=100).

Andamento die prezzi e dei costi di costruzione

Fonte: elaborazioni basate su dati: Ordine degli Ingegneri, Agenzia del Territorio, ISTAT.

La teoria economica fornisce diverse spiegazioni per questo dato. La domanda di nuove case è stata crescente fino al 2007, come riportato anche dall'Agenzia del Territorio che segnala “un decennio di decisa crescita iniziato nel 1997 e conclusosi nel 2006, anno in cui le compravendite hanno raggiunto il massimo storico di 869.308 NTN [nota: NTN indica il numero di transazioni registrate] con un incremento del 80% circa rispetto al ’96”. Solo con l'avvento della recente crisi globale nel 2007-2010 la domanda residenziale ha subito un decremento.

Sul fronte della domanda di servizi immobiliari, bisogna considerare da un lato l'andamento demografico che è stato crescente a partire dal 2002, quando vi erano circa 57 milioni di residenti in Italia, mentre oggi misuriamo circa 60,6 milioni di abitanti (secondo dati pubblicati dal Fondo Monetario Internazionale). Un secondo effetto che può aver favorito un incremento della domanda di nuove abitazioni è la persistenza di bassi tassi d'interesse reali, i quali possono aver incentivato l'accensione di mutui per l'acquisto. Il grafico in Figura 2 mostra l'andamento dei tassi d'interesse nominali e reali in Italia, ed evidenzia un livello di tali tassi piuttosto contenuto specialmente a partire dal 2001.

Figura 2: Tasso d'interesse per clientela “prime” in Italia, nominale (linea rosa)  e corretto per l'inflazione (linea verde).

Tasso d'interesse nominale e reale

Fonte: World Bank, World Development Indicators.

Nonostante l'aumento della domanda, sul lato dell'offerta di nuove abitazioni non osserviamo un'analoga crescita, e ciò è particolarmente evidente nelle città più grandi, dove il numero di permessi per l'edificazione di nuove abitazioni concessi annualmente è quasi costante nel tempo. La seguente Tabella 1 mostra come a fronte della menzionata domanda in crescita, la dimensione media delle superfici edificabili concesse nelle grandi città si è ridotta nel tempo in misura significativa.

Tabella 1: superficie media, in metri-quadri, concessa in un anno per edilizia residenziale. I valori indicati sono medie per fabbricato e per appartamento concesso.

Superfici concesse

Fonte: ISTAT, “Statistiche sui permessi di costruzione”, vari anni.

Il grafico in Figura 3 completa l'informazione sul lato dell'offerta, mostrando che mentre l'andamento di nuove costruzioni residenziali in Italia è stato effettivamente crescente nel periodo considerato, nelle grandi città è rimasto pressoché costante.

Figura 3: numero di permessi di costruzione residenziali per anno, in Italia (linea blu) e nelle città con più di 500.000 residenti (linea arancione)

Andamento del numero di permessi di costruzione per nuovi edifici

Fonte: ISTAT, “Statistiche sui permessi di costruzione”, vari anni.

Tirando le somme: a fronte di una domanda crescente e di un'offerta quasi stazionaria per tutto il periodo 2000-2010, ci si attende un innalzamento dei prezzi di vendita. Ed infatti, secondo dati dell'Osservatorio Immobiliare Italiano per l'anno 2011, mentre il prezzo medio di una nuova unità immobiliare residenziale in Italia è di €/mq 1.578, nelle municipalità con meno di 250.000 abitanti tale prezzo medio è di soli €/mq 1.187, mentre nelle grandi città (popolazione >250.000) sale ad una media di €/mq 2.821, cioè più del doppio. Non solo i prezzi nelle città grandi sono più elevati, ma sono anche cresciuti di più: tra il 2004 e il 2010 il prezzo medio è aumentato del 27,7% in tutta Italia, e del 30,4% nelle grandi città. Se consideriamo che nelle sole sei città italiane più grandi vive circa il 30% della popolazione italiana, si evince che questo mismatch tra domanda e offerta può essere causa di rilevanti trasferimenti di risorse dalle famiglie a coloro che riescono a realizzare nuovi fabbricati.

2. Costi di costruzione e prezzi nelle sei maggiori città

Per esaminare quantitativamente la questione, ho analizzato i prezzi di vendita e i costi di costruzione nelle sei maggiori città: Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo e Genova.
Il primo punto da sottolineare subito, è che le imprese di costruzione appaiono operare in modo concorrenziale. Infatti, non solo il numero di imprese nel settore è molto elevato (secondo dati ISTAT: 623.382 imprese e 1.903.007 di addetti, con una marcata prevalenza di microimprese sotto le 10 unità di personale), ma i profitti di queste imprese sono molto contenuti, mediamente secondo studi di Banca d'Italia (De Socio, 2010)  esprimono un R.o.E. di appena 3,6%, contro il 5,6% che è la media nazionale, il 5,7% del settore manifatturiero, ed il 4,4% delle piccole imprese di ogni settore. Da ciò discende che, se il mercato residenziale fosse concorrenziale come quello di costruzione, dovremmo osservare un prezzo medio molto vicino al costo marginale di costruzione. Ovvero, esprimendo ciò attraverso il rapporto tra prezzo finale e costo marginale, dovremmo avere un valore molto vicino ad 1. Non è così: nelle sei grandi città il costo di costruzione al metro-quadro, stimato dall'Ordine degli Ingegneri ed Architetti di Milano per una palazzina di 10 piani con caratteristiche di buona qualità e completa di tutti gli impianti, è mediamente attorno ai 1.300 €/mq (con oscillazioni locali di +/- 5%, delle quali ho tenuto conto nei calcoli ma che non riporto qui per brevità), a fronte di prezzi medi di compravendita (secondo dati FIAIP) che oscillano tra un minimo di circa 1.900  €/mq per i quartieri di Palermo dove non è significativa la presenza di edifici storici, sino agli oltre 13.000 €/mq rilevati nel centro di Roma.

Le differenze rilevate tra prezzi e costi di costruzione possono essere attribuite prevalentemente alle regole edilizie vigenti, che limitano fortemente l'edificabilità e la sostituzione di fabbricati più vecchi e bassi, con fabbricati moderni e alti anche 8-10 piani (la dimensione media di un fabbricato residenziale nei capoluoghi di provincia è di appena 8 appartamenti, per 2-3 piani di altezza).

È pur vero che tale distanza tra prezzi finali e costi di realizzazione può essere dovuta ad altri tre fattori. Il primo è la possibile scarsità dei terreni dove sia possibile tecnicamente edificare (parliamo di vincoli tecnici, non concessori). Il secondo è il valore della “opzione” dato dall'attendere ed edificare in futuro (rimando al lavoro accademico di Guthrie, 2009, per i dettagli). Infine, l'effetto delle imposte indirette, che in Italia ammontano solitamente ad un 10% di IVA dovuta sugli acquisti di nuove abitazioni. Secondo mie stime basate sull'osservazione dei valori di compravendita dei terreni agricoli limitrofi le città, pubblicati dall'Osservatorio Immobiliare, e sulla scorta delle simulazioni di Guthrie (2009), la somma di tali effetti comporta in equilibrio un rapporto tra prezzo teorico in mercato concorrenziale, e costo marginale di costruzione, mai superiore ad 1,35. Nelle sei città considerate, invece, tale valore non scende mai al di sotto di 1,50. Ciò segnala la presenza di rendite.


3. La tutela del patrimonio storico-artistico-paesaggistico

A questo punto, la prescrizione di policy è banalmente evidente: ridurre i vincoli edilizi nelle grandi città, così da far costruire nuovi fabbricati, sostituire quelli esistenti, o farli elevare di 1-2 piani, in modo da aumentare l'offerta di appartamenti e ridurre i prezzi. Vincono le famiglie, e perdono gli speculatori edilizi che riescono a farsi concedere l'edificabilità, grazie ad attività di lobbying o tangenti ai politici di turno.

L'opposizione più stringente a questa proposta è che le regole esistenti servono a tutelare il nostro patrimonio edilizio, che in Italia comprende palazzi storici vecchi di secoli, aree archeologiche e zone di valore paesaggistico e turistico. Per escludere le zone urbane che presentano questi patrimoni da preservare, ho ricalcolato i prezzi di compravendita per appartamenti come pubblicati da FIAIP, suddividendoli per aree “centrali” dove sono presenti edifici storici o patrimoni paesaggistici, ed aree di nuova costruzione dove questa problematica di tutela è inesistente o poco sentita. Per la sola città di Roma le aree sono tre, in modo da riflettere il fatto che la cintura di quartieri limitrofi al centro urbano vero e proprio è comunque dotata di numerosi edifici e zone pregevoli da preservare.
La Tabella 2 mostra inequivocabilmente che anche epurando le statistiche dai prezzi delle zone da preservare urbanisticamente, il rapporto prezzo/costo marginale oscilla tra un 1,5 circa guardando ai prezzi minimi in Palermo, sino ad oltre 2 nelle tre città maggiori.

Tabella 2: prezzi medi di compravendita per appartamenti nelle sei città italiane più popolose, classificati in “Centro storico”, “Nuove costruzioni” e per la sola città di Roma “Periferie estreme”. I valori sono €/mq.

Prezzi minimi e massimi per nuovi appartamenti, al mq

Fonte: elaborazioni su dati FIAIP (2011)

 

4. Conclusioni

Il nostro paese soffre di numerose disfunzioni. Una di queste appare risiedere nell'apparato delle concessioni e dei controlli sui permessi di costruzione, oggetto ripetuto di condoni, eco-mostri da abbattere, annunci in pompa magna di interventi legislativi, ed una generale mancanza di trasparenza già nell'interpretazione delle leggi vigenti. Ho mostrato come una deregulation nelle grandi città porterebbe benefici attesi rilevanti, alleggerendo le spese delle famiglie per i servizi residenziali. Ho anche dimostrato che i timori per una aggressione al patrimonio storico-culturale, pur condivisibili nelle finalità, non sono motivati se la deregulation riguarderà solo le periferie, gli edifici moderni e le aree più degradate che più di altre beneficerebbero di una riqualificazione urbanistica. Negli altri paesi d'Europa, costruire è molto più semplice dal punto di vista burocratico. Con un po' di buona volontà, possiamo arrivarci anche noi.



Bibliografia

Agenzia del Territorio (2001-2011), Rapporto immobiliare, pubblicazione online.

Collegio degli Ingegneri ed Architetti di Milano (2001), Prezzi Tipologie Edilizie, DEI Tipografia del Genio Civile, Roma.

De Socio, A. (2010), “La situazione economico-finanziaria delle imprese italiane nel confronto internazionale”, Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers), N. 66, Banca d'Italia.

FIAIP Federazione Italiana Agenti Immobiliari Professionali (2011), Osservatorio immobiliare nazionale  – settore urbano 2010,  pubblicazione online.

Guthrie, G. (2009), “House prices, development costs, and the value of waiting”, Journal of Urban Economics, Vol. 68, Issue 1, pp. 56-71.

ISTAT (2011), “Struttura e dimensione delle imprese”, pubblicazione online.

ISTAT (vari anni), “Statistiche sui permessi di costruzione”, pubblicazione online.

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Commenti

Ci sono 93 commenti

Diego, una domanda che deriva dalla mia ignoranza sulla regolamentazione del settore. A quale livello va presa la decisione di policy di cui parli? Sono semplicemente i comuni che dovrebbero rivedere i propri piani regolatori o ci sono interventi legislativi a livello nazionale (o regionale) che sono necessari?

 

La parte del leone la fanno certamente i Comuni. Sono questi infatti che definiscono il piano regolatore (P.R.G.), con l'avallo di Regione e Provincia, il quale determina come ciascuna area urbana è destinata a svilupparsi. Sono poi sempre i Comuni ad accogliere le richieste e a deliberare sui piani di lottizzazione. Regioni e Province esprimono pareri in base alle leggi regionali (e così anche le soprintendenze se esistono vincoli paesaggistici-storici-architettonici di qualche genere), e dopo la palla passa nuovamente ai Comuni che devono deliberare una seconda volta.

Certo, è da dire che la normativa nazionale in tema di concessioni edilizie pone anch'essa diversi ostacoli: è frammentaria, presenta ampi margini di interpretazione, e dispone che le soprintendenze abbiano un sostanziale potere di veto particolarmente nei casi in cui ci si scontri con generici vincoli di tutela paesaggistica o naturistica. Ma ripeto, tutto questo viene poi deciso dagli uffici tecnici dei Comuni, quindi il vero nodo da sciogliere è là.

Aumentare gli indici di costruzione ma (anzi "per") salvaguardare gli spazi verdi. Se nella stessa metratura orizzontale fai stare piu' famiglie, salvi verde e bosco.

Alcune domande sui tuoi dati:

1) come incide il nero? Sappiamo che in Italia c'è molto sommerso e quindi c'è molto nero accumulato. Al momento di comprare una casa, solo una parte del prezzo è ufficiale, il resto è in nero (quindi niente imposte). Sappiamo inoltre che al sud buona parte dell'edilizia è cosrtuita in nero (quasi il 90%). R.o.E. di appena 3,6% credo sia un effetto del nero. Il guadagno è altrove.

2) come giocano gli appartamenti sfitti?

 

L'Italia ha il record delle case sfitte in Europa, il 24% sul totale degli appartamenti, contro una media europea dell'11,8%.
È quanto emerge dai dati di Cecodhas, l'organizzazione che riunisce 46 federazioni di associazioni no-profit impegnate nell'alloggiare i cittadini più poveri.
Il dato sugli appartamenti sfitti va visto però in chiave regionale; infatti nel nord è pari al 19% del totale, al centro al 20%, mentre a sud raggiunge il 34%.

 

 

 

1) come incide il nero? Sappiamo che in Italia c'è molto sommerso e quindi c'è molto nero accumulato. Al momento di comprare una casa, solo una parte del prezzo è ufficiale, il resto è in nero (quindi niente imposte). Sappiamo inoltre che al sud buona parte dell'edilizia è cosrtuita in nero (quasi il 90%). R.o.E. di appena 3,6% credo sia un effetto del nero. Il guadagno è altrove.

 

Riguardo i prezzi di compravendita che ho utilizzato, il nero non incide perché si tratta di prezzi effettivi e rilevati da intermediari che operano sul campo. Non si tratta dei prezzi dichiarati nei contratti registrati, i quali ovviamente sconterebbero le strategie evasive molto diffuse nel paese.

Sul R.o.E. di settore, purtroppo non saprei come epurare il dato dal sommerso. Ma questo crea un problema solo se il sommerso nelle costruzioni è molto più alto di altre industrie. Se non è così, il confronto con il R.o.E. ottenuto negli altri settori produttivi rimane valido. Secondo ISTAT ("La misura dell’economia sommersa secondo le statistiche ufficiali"), il tasso di lavoro irregolare nel 2006 è di 11.0 nelle costruzioni, a fronte di una media complessiva di 12.0. Quindi, più o meno il sommerso dovrebbe essere omogeneamente ripartito in molta parte degli altri settori merceologici.

Seguo il problema abitativo per motivi personali (ovviamente non in tutta Italia).

Mi riservo di tornare sull'argomento postando le fonti ed eventuali ulteriori informazioni perche' ora vado di fretta, ma volevo fare alcune considerazioni in breve:

1. molte delle aziende edili sono piccole perche' spesso e volentieri nel settore si pratica molto nero ed elusione con sistemi di scatole cinesi, cosa che potrebbe influenzare non poco il RoE.

2. chi costruisce ha convenienza a farlo anche se non vende e chi compra ha convenienza a tenere gli appartamenti vuoti. Come esempio questo porta a quella provincia veneta in cui si parla di 220mila case vuote, e a citta' come Roma dove case di enti, banche ecc. sono tenute vuote per anni (*).

3. In Italia c'erano (vado a memoria) 27 milioni di households nel 2010. Con una famiglia media di 2,1 persone e 60,5 milioni di abitanti significa che di households ne servirebbero 28,8. Posto che una percentuale non trascurabile sia di seconde case, che non tutte le case sarebbero egualmente appetibili e che non tutti hanno una famiglia, sono numeri paragonabili (**). Questo significa che di case ce ne sono "quasi" abbastanza, ma molte sono fuori mercato o tenute vuote perche' usate come investimento.

In breve: allentare i vincoli e' una cosa fattibile, ma second me si potrebbe fare qualcosa piu' velocemente e riducendo il problema della casa senza rischiare di foraggiare un settore purtroppo in mano a pochi soliti noti e a grossi volumi di evasione. Ad esempio, aumentare le tasse per le case sfitte o invendute proporzionalmente al numero di appartamenti posseduti, o trovare altri incentivi per far affittare o vendere. 

 

(*) capisco che se l'affittuario fa finta di essere indigente poi a mandarlo via ci vogliono anni, ma anche un affitto sarebbe un dignitoso rendimento per un investimento...

(**) per dirne una l'Italia ha rapporto household/popolazione pari a 2,24, migliore di altri paesi europei, come la Spagna - 47 milioni di abitanti con 16 milioni di households, rapporto 2,9, e UK con 61 milioni di abitanti e 26 milioni di households, rapporto 2,3. Ovvio che entrano in gioco molte altre considerazioni, ma per dire che le case ci sono.

 

 

1. molte delle aziende edili sono piccole perche' spesso e volentieri nel settore si pratica molto nero ed elusione con sistemi di scatole cinesi, cosa che potrebbe influenzare non poco il RoE.

 

A questa obiezione ho risposto in un altro commento a Francesco Forti.

 

2. chi costruisce ha convenienza a farlo anche se non vende e chi compra ha convenienza a tenere gli appartamenti vuoti. Come esempio questo porta a quella provincia veneta in cui si parla di 220mila case vuote, e a citta' come Roma dove case di enti, banche ecc. sono tenute vuote per anni (*).

 

La convenienza a tenere gli appartamenti sfitti è, a mio modo di vedere, figlia delle strane regole italiane che favoriscono in modo eccessivo gli inquilini. Un proprietario di casa è ben razionale se preferisce attendere prima di fittare la casa, per non rischiare di subire la morosità prolungata di un inquilino scelto male. Il secondo aspetto, quello degli appartamenti invenduti (ma che riguarda anche gli appartamenti sfitti, date le norme che prevedono la stipula di contratti pluriennali 4+4), è legato all'andamento dei prezzi: se si ritiene che questi cresceranno e se, com'è nella realtà, l'offerta di immobili è rigida, può convenire attendere un po' e vendere nel futuro, particolarmente se i tassi d'interesse sono bassi e quindi aumenta il valore atteso del prezzo futuro. Ma proprio aumentando l'offerta (riducendo i vincoli edilizi, appunto), si comprime il vantaggio di questa strategia.

 

3. In Italia c'erano (vado a memoria) 27 milioni di households nel 2010. Con una famiglia media di 2,1 persone e 60,5 milioni di abitanti significa che di households ne servirebbero 28,8. Posto che una percentuale non trascurabile sia di seconde case, che non tutte le case sarebbero egualmente appetibili e che non tutti hanno una famiglia, sono numeri paragonabili (**). Questo significa che di case ce ne sono "quasi" abbastanza, ma molte sono fuori mercato o tenute vuote perche' usate come investimento.

 

L'analisi che ho proposto riguarda le grandi città italiane. Dove si trovano tutte le abitazioni che i tuoi dati riportano esistere? Comprendono i piccoli paesini spopolati nelle campagne, oltre che case in luoghi di villeggiatura? Se esiste una domanda crescente per servizi esidenziali in un luogo, non significa che non la si debba soddisfare perché esiste, in qualche altro luogo, un appartamento sfitto.

Non posso non sottoscrivere, soprattutto la parte propositiva: l'investimento immobiliare è in Italia qualcosa di simile all'acquisto di lingotti d'oro, con la differenza che almeno i lingotti occupano poco spazio e non distruggono il paesaggio.

Mi chiedo poi se io sia l'unico a vedere ovunque nelle periferie urbane eserciti di cartelli "vendesi appartamento" che ingialliscono o se sia l'unico ad avere notato le sterminate distese di case vuote di nuova costruzione (a volte nemmeno finite) che hanno ulteriormente dilagato in periferia negli ultimi anni... Non parliamo poi degli speranziosi cartelli "vendesi terreno edificabile subito".

Oddio, ci mancava solo questa.

Non e' che perche' uno vive in periferia deve per forza beccarsi i palazzoni da 10 piani stile quartiere dormitorio eh.

Assolutamente no, non è necessario pensare agli orrendi palazzoni dell'edilizia popolare italiana, o peggio agli edifici-alveare nello stile delle vele di Scampia. Personalmente ho in mente un modello di sviluppo più vicino ad Hong Kong, dove gli edifici si sviluppano in altezza ma preservando ampie distanze e notevoli dotazioni di verde pubblico. Chi ha visitato Hong Kong sa di cosa parlo: città vivibilissima ed ad elevata densità abitativa, fra l'altro con edifici moderni e quindi meglio coibentati, antisismici e ben attrezzati di servizi.

capiscco le perplessità, ma portare a ZERO il consumo di nuovo territorio e lavorare sui tessuti periferici per riqualificare e densificare è assolutamente necessario. E comunque i quartieri dormitorio non hanno necessariamente relazione con la densità, si può progettare male a bassa densità così come ad alta, a mio parere il punto sta nel grado di multifunzionalità.

 

Avrei una domanda riguardo ai dati nel post: il numero di permessi per costruire potrebbe non essere indicativo dell'offerta se nelle grandi città con un permesso si costruiscono 4000 appartamenti in media e nel resto d'Italia si fa una stanza in più al posto della stalla?

Inoltre il numero di imprese edilizie potrebbe  essere un dato fuorviante se la maggior parte si occupano di appalti pubblici o sono subappaltatori dei developer veri e propri.

A Roma, dove abito, negli ultimi anni(dall'inizio dell'era Veltroni) l'offerta di nuove case è cresciuta molto, la maggior parte costruite su terreni vergini(nel senso che non c'era costruito niente prima) che erano di proprietà di un ristretto numero di aziende(10 circa, qua alcuni dettagli e numeri, credo affidabili). La commercializzazione di buona parte di queste nuove abitazione è stata fatta da un'altrettanto ristretto numero di agenzie( vedi qui (goliardico) o qua). Questo oligopolio a valle del mercato potrebbe essere stato cruciale nel determinare l'andamento dei prezzi?

 

Grazie per l'attenzione

 

Luca Ravagnani

 

Avrei una domanda riguardo ai dati nel post: il numero di permessi per costruire potrebbe non essere indicativo dell'offerta se nelle grandi città con un permesso si costruiscono 4000 appartamenti in media e nel resto d'Italia si fa una stanza in più al posto della stalla?

 

Vero. Per brevità non ho riportato tutte le statistiche sui permessi di costruzione, che comunque sono liberamente consultabili sui siti dell'ISTAT e dell'Agenzia del Territorio. In parte risponde la Tabella 1 che mostra come la dimensione media per permesso edilizio si è ridotta nelle sei grandi città. Anche tenendo conto del numero di mq concessi, o del numero di appartamenti, rimane osservabile una notevole stazionarietà dell'offerta residenziale nelle maggiori città.

 

Inoltre il numero di imprese edilizie potrebbe  essere un dato fuorviante se la maggior parte si occupano di appalti pubblici o sono subappaltatori dei developer veri e propri.

 

Il numero di imprese da solo dice poco. È per questo che va letto assieme al dato sul R.o.E., che esprime la redditività media di queste imprese e può evidenziare la presenza diffusa di rendite. Concordo che la presenza di appaltatori pubblici ed in particolare delle grandi imprese di costruzione che fungono da general contractor sarebbe da considerare come caso a parte. Ma l'impatto di queste sulle statistiche indicate non mi pare rilevante: gli appaltatori pubblici possono produrre sovraprofitti, quindi alzano il valore del R.o.E. medio; ma al contempo, se i sovraprofitti sono realizzati a scapito dei piccoli costruttori in subappalto, questi ultimi vedranno ridursi il loro di R.o.E. Ad ogni modo l'analisi qui riguarda l'offerta di nuovi appartamenti, e questo è un mercato in larga prevalenza privato dove non esiste il problema di doversi interfacciare con un general contractor.

magari mi sbaglio, ma non sono cosi' stupito dal fatto che i prezzi immobiliari siano sistematicamente piu' alti delle spese di costruzione. La ricerca in urban economics ha mostrato come lo studio delle citta' e dei prezzi delle case va fatto in termini di spatial equilibrium, un concetto diverso da quello generalmente applicato in economia. Questo paper lo spiega molto bene: 

http://www.people.fas.harvard.edu/~jdgottl/papers/WealthOfCities2009JEL.pdf

Welfare has to be equalized across space, quindi costa di piu' vivere nelle citta' e nelle zone delle citta' che sono piu' in voga e sono piu' produttive. Le spese di costruzione dipendono dalla struttura del mercato edilizio, che non e' dei piu' trasparenti. Rimuovere i vincoli edilizi produrrebbe molto probabilmente un qualche effetto di riduzione dei prezzi, ma non e' cosi' ovvio che cambierebbe di molto la situazione. Cio' che rende costoso vivere nelle citta' e' un insieme di fattori, agglomeration economies, density economies and so on e questi non cambierebbero se si cambiasse la politica edilizia. Potrebbe addirittura succedere che le nuove politiche edilizie rendano ancora piu' attraente vivere nelle citta' e i prezzi aumentino.

 

Welfare has to be equalized across space, quindi costa di piu' vivere nelle citta' e nelle zone delle citta' che sono piu' in voga e sono piu' produttive. Le spese di costruzione dipendono dalla struttura del mercato edilizio, che non e' dei piu' trasparenti. Rimuovere i vincoli edilizi produrrebbe molto probabilmente un qualche effetto di riduzione dei prezzi, ma non e' cosi' ovvio che cambierebbe di molto la situazione. Cio' che rende costoso vivere nelle citta' e' un insieme di fattori, agglomeration economies, density economies and so on e questi non cambierebbero se si cambiasse la politica edilizia. Potrebbe addirittura succedere che le nuove politiche edilizie rendano ancora piu' attraente vivere nelle citta' e i prezzi aumentino.

 

In questa sede ho seguito la logica discussa nei seguenti lavori:

Glaeser, E.L. - Gyourko, J. - Saks, R. (2005), "Why Is Manhattan So Expensive? Regulation and the Rise In Housing Prices", The Journal of Law and Economics, 48, pp. 331-370.
- (2005), “Why Have Housing Prices Gone Up?” American Economic Review, 95(2), pp. 329–33.

In buona sostanza: è vero che una moltitudine di fattori influisce sui prezzi di equilibrio del nuovo costruito residenziale urbano. Ma, ed è questo il cuore della mia semplice analisi, quando per tempi non brevissimi la distanza tra prezzi di costruzione e prezzi di vendita rimane elevata, come successo in Italia nel periodo che ho considerato (dal 2000 ad oggi), è solo una qualche barriera all'ingresso di nuovi investimenti che può evitare una convergenza dei prezzi verso il costo marginale. Nota che i prezzi di costruzione che ho usato sono già corretti per il diverso costo della vita nelle sei città considerate. Insomma no, posso sbagliare ma non credo che la spatial equilibrium analysis aggiunga nulla di rilevante alla questione.

 

Concordo.

Per esperienza personale le persone vogliono tutte stare in zona "in", e con l'aumento (fino a qualche anno fa, sigh) della ricchezza generale, c'è stata una fuga dal paesello e dalla periferia.

Almeno, questo è quello che è accaduto nella mia città (circa 180.000 ab.).

vado spesso in Austria, per motivi familiari, e ho visto come funzionano le cose lassù, almeno per i piccoli centri. E' una cosa che voglio approfondire, quando ci tornerò, perché per ora sto a quanto mi hanno raccontato persone comunque non del settore.

Il comune non stabilisce delle zone limitate in cui si può costruire, trasformando ipso facto in miliardari tutti i fortunati proprietari di quella zona. Il comune dice: potete costruire dove vi pare, basta che sia in una fascia limitrofa alle strade e ad altre abitazioni preesistenti, per limitare i costi di urbanizzazione. In base a ciò redige una mappa in cui queste aree sono indicate come preedificabili (o qualcosa del genere). Queste aree sono tante, quindi il loro prezzo, più alto di un terreno agricolo, non raggiunge mai il prezzo dei terreni edificabili dalle nostre parti. Se io voglio costruire su un lotto "preedificabile", devo pagare al comune una tassa che copre le spese di urbanizzazione. A quel punto il terreno diventa edificabile e io posso costruirci sopra o rivenderlo come edificabile, a un prezzo maggiore. Ma non c'è molto spazio per le speculazioni, dato che se in un tot di tempo (mi pare tre anni o giù di lì) nessuno ci costruisce, l'edificabilità decade e bisogna pagare di nuovo la tassa il cui ammontare, data l'abbondanza di terreni disponibili, finisce per corrispondere alla differenza di prezzo tra terreno preedificabile e terreno edificabile.

Risultati: il primo, ovvio, c'è più libertà, che di per sé è cosa buona e giusta. Il secondo è che non si creano quei mostruosi nuovi quartieri che dalle nostre parti sono devastanti soprattutto per i piccoli centri, ma la distribuzione urbanistica sul territorio è più armonica. Terzo, costruire costa molto meno, perché è incredibilmente inferiore il prezzo del terreno: da noi i piani regolatori comprimono l'offerta, e spingono in alto i prezzi. Quarto, molte più persone hanno la possibilità di costruirsi casa da sé, invece di doverla comprare necessariamente bell'e fatta a un costruttore/speculatore che poi è l'unico che può permettersi di acquistare le aree edificabili.

Una delle cose che mi ha fatto notare quasi subito la mia compagna, dopo essere venuta a vivere in Italia, è che qui sono molto pochi quelli che realizzano la "casa dei sogni", comprando il terreno, progettandola e rivolgendosi a un'impresa solo per la costruzione, cosa che invece in Austria è quasi la normalità. Una cosa che salta subito all'occhio è quanto queste case siano più "avanzate" delle nostre dal punto di vista delle tecniche costruttive, del design, dell'efficienza energetica, e mi sembra verosimile che questo sia il frutto di questa libertà, laddove invece da noi il costruttore/speculatore tende necessariamente a comprimere i costi dato che non ha una visione di lungo rispetto a un immobile del quale si disfa nel più breve tempo possibile.

Mi hanno detto che nei centri abitati più grandi le cose vanno diversamente, in maniera più simile a quanto succede da noi. Comunque approfondirò.

cari amerikani.

scusate se scrivo due righe di presentazione, sono un vostro assiduo lettore e non mi par vero di poter intervenire con cognizione di causa visto che di mestiere faccio l'architetto a milano.

innanzitutto apprezzo l'articolo ma ritengo che vada a mirare l'obiettivo sbagliato (e anche il più facile dal vostro punto di vista, se foste stati Komunisti avreste attaccato i grandi immobiliaristi tipo ligresti +o- con le stesse argomentazioni) ma andiamo oltre.

nel merito i due grandi accusati sono la P.A. miope e corrotta e gli "speculatori" ma in tono minore, quasi come se fossero costretti dalla contingenza ad operare in tal modo.

non voglio assolutamente difendere queste due categorie ma vanno fatte alcune precisazioni.

innanzitutto il titolo, in italia la materia edilizia è di pertinenza assolutamente regionale (riforma del titolo V della costituzione), le leggi nazionali non prevalgono nella sostanza bensì forniscono atti d'indirizzo. e qui potremmo aprire un grande capitolo sul famoso "piano casa". 

fatta questa premessa, vediamo la legislazione ed il comportamento della P.A.

in lombardia (ma questa cosa vale almeno per altre 6 regioni del nord/centro italia) esite la legge 12/05 che interviene in maniera assolutamente "nuova" nel modo di pianificare. sono stati aboliti i PRG (piani regolatori generali) ed istituiti i PGT (piani di governo del territorio). la differenza fondamentale è che prima il legislatore (comune in questo caso) diceva "qui fai così la fai colà, lì costruisci 10 e di fianco ci va il parchetto per i bambini" con logiche conseguenze facilmente immaginabili e conseguente devastazione del territorio, nessun costruttore degno di tal nome può non essere amico di un assessore (il poveraccio che vedeva il suo terreno a destinazione parchetto non aveva l'amico assessore).

dal 2005 invece, fermo restando che bisogna continuare ad essere amici degli assessori, si è sancito l'annullamento della distinzione di destinazione d'uso principale e secondaria, e l'istituzione della perequazione.

a milano (pgt ancora in fase di discussione) sono stati annullati gli indici volumetrici e incentivata la sostituzione edilizia. 

quindi la situazione dal punto di vista legislativo è fondamentalmente "buona"

ma cambia poco o nulla.....

purtroppo, come disse bianchi jannetti ex dirigente del settore edilizia del comune di milano, i buoi sono già scappati. ovvero in italia si è già costruito tanto, tantissimo, e soprattutto negli anni '60, '70 quando c'erano poche regole ed ampiamente disattese (c'era da far case per tutti i meridionali che venivano a lavorare alla fiat, breda, falk ecc...) e negli anni '80 quando c'erano + regole ma purtroppo viziate da 10 anni di ritardo. in italia i PRG duravano (dovevano durare) 10 anni ed in media ce ne volevano 15 a farlo. in totale fa 25 anni. un piccolo esempio, comune di Monza, PRG del 1970, nel 1990 (quindi 10 anni dopo la scadenza) viene avviato l'iter per il nuovo PRG, che vede definitvamente la luce nel 2006 sotto forma di PGT. in tutto 'sto periodo ovviamente vige il principio della salvaguardia ovvero la coesistenza di 2 piani, 1 vigente e l'altro adottato per cui vale la regola + restrittiva. cambiando le giunte anche il piano adottato muore, risorge muta ecc..  comunque per la cronaca la nuova giunta in carica dal 2007 lo sta ancora rimaneggiando. (piccola nota di colore, l'assessore all'urbanistica di questo rimaneggiamento è nientepopòdimenoche paolo romani attuale ministro. indovinello: chi è proprietario di grosse aree a monza?). su milano non dico nulla per carità di patria.

ma ancora non siamo giunti al dunque. purtroppo la grossa dificoltà nel mettere mano agli immobili o adirittura ad interi quartieri in italia è molto più dificile che in europa e questo per un motivo che non ha quasi nulla a che vedere con quanto finora detto.

in italia c'è una capillare distribuzione della proprietà privata che di fatto impedisce qualsiasi intervento.

i quartieri periferici infatti sono pieni di ex case popolari di varia natura che col sistema del riscatto sono diventate a tutti gli effetti normali condomini privati. come si fa a mandare tutti fuori per tirare giù il palazzo?

le medie aree industiali ormai inserite completamente nel tessuto urbano sono state già frazionate e, nella peggiore delle ipotesi trasformate in "fighissimi loft" ove, per salvaguardare al meglio le caratteristiche di ex fabbrica, ci si guarda bene dall'effettuare le bonifiche (ah! i bei tetti in eternit di una volta!!).

sulle grandi aree industriali tipo falk di sesto san giovanni stendiamo un velo pietoso...

non voglio dilungarmi ulteriormente ma c'è ancora molto da dire.

l'analisi + approfondita sul "vero" costo di costruzione la farò se me la chiedete

scusate la lunghezza 

gianluca

e poi scusatemi ma basta con questi confronti con l'estero... diciamolo una volta per tutte, le case inglesi e tedesche fanno schifo! con quella moquette in bagno...  blahhhh!!

comunque per chi avesse voglia e tempo da perdere, qui può leggersi tutte le vicende di Monza, consiglio in particolare i capitoli dal 7 al 9, sono molto istruttivi di come funziona la macchina amministrativa tra cialtronerie e furberie...

 

Credo anche io che la prima emergenza edile italiana sia la sostituzione, più che le nuove costruzioni, soprattutto nelle grandi città del nord (di cui ho esperienza diretta): bisogna trovare un modo di rendere fattibile l'abbattimento e ricostruzione di condomini di ormai pessima qualità (4/5 piani, senza ascensore, con una pessima distribuzione dei locali, impianti decrepiti e fuori norma e consumi energetici folli) costruiti tra gli anni '60 e '80 spesso come case popolari, di una trentina di appartamenti per lo più riscattati dagli inquilini (che comunque hanno un reddito medio o basso). Non è facile, ma va fatto.

Poi ci sarebbe da risolvere il problema delle case sfitte per investimento, che costituisce il fondo pensione più gettonato per la classe media e ha assorbito negli ultimi vent'anni una buona fetta delle nuove costruzioni (sia in città che in presunti luoghi di villeggiatura), contribuendo al mancato calo dei prezzi nonostante l'aumento dell'offerta (credo sia un problema di modello superfisso, nel senso che la domanda non è fissa: le nuove costruzioni non hanno abbassato i prezzi perché hanno anche comportato un aumento della domanda, per lo meno di domanda speculativa in grado di alterare i prezzi in modo sostenuto perché di fatto ogni "speculatore" tiene efficacemente fuori dal mercato il suo immobile per 10-20 anni senza neppure badare ai costi perché "tanto il valore sale sempre"). Inoltre il calo della domanda dovuto alla crisi non ha fatto abbassare i prezzi, ma ha abbattuto i volumi, pare che siccome "il mattone non cala mai" la curva dell'offerta sia piuttosto particolare (in pratica i proprietari sono disposti a ritardare la vendita di anni pur di non accettare un guadagno inferiore alle attese).

Probabilmente, come notato da Gianluca, alla fine ci sarà ancora da costruire ex-novo, ma in quantità forse marginali.

Per tutti questi punti il problema principale mi pare però lo stato di diritto: senza una giustizia, soprattutto civile, rapida, prevedibile e efficace anche contro lo Stato (quindi ben lontana dalla nostra) non vedo come un qualsiasi intervento legislativo o amministrativo possa migliorare la situazione.

Per farsi qualche idea non filtrata, ecco un blog un po' naif e sanguigno ma ricco di informazioni:

http://bollaimmobiliare.freeforumzone.leonardo.it/forum.aspx?c=150353&f=150353

 

Raccomando in particolare il grafico "ciclo del nido d'ape".

 

 

Conoscendo la "qualita'" dei costruttori edili, coop comprese, mi spaventa molto l'idea di togliere vincoli alla costruzione di nuovi edifici. QUello che serve e' la riqualificazione degli edifici esistenti, adeguandoli alle condizioni sismiche locali. Ma gli italiani preferiscono comprare cessi quadrati da migliaia di euro, piuttosto che spendere due lire in sicurezza.

Avrei racconti dell'orrore su come si costruisce in italia, o perlomeno a Bologna, mi basta pero' dire che troppo spesso la qualita' del costruito e' infima e gli italiani ne sono contenti (altrimenti non comprerebbero certe case).

Quello che e' strano e' che nonostante una mole di appartamenti invenduti incredibile (a Zola Predosa, un comune a fianco di Bologna, ben servito da viabilita' e da ferrovia metropolitana, si parla di 1600 appartamenti invenduti in ex area idnustriale riconvertita), i prezzi sono calati poco. Evidentemente c'e' un meccanismo perverso che fa mantenere il prezzo anche alle case di bassa qualita che non si riescono a vendere.

Per gli affitti, il mercato e' crolalto del 40%, qui a Bologna.

Non so che cosa possa servire costruire nuove case, se i prezzi comunque non calano e le case non si vendono.

 

completamente d'accordo.

sulla qualità delle costruzioni.

terremoto dell'irpinia. i giapponesi si chiedono perchè una scossa del genere abbia provocato un tale macello. forse,pensano, c'è un qualcosa di particolare che non si conosce ancora che ha causato quel disastro. si precipitano sul posto, vedono le costruzioni e capiscono...

 

 

Conoscendo la "qualita'" dei costruttori edili, coop comprese, mi spaventa molto l'idea di togliere vincoli alla costruzione di nuovi edifici. QUello che serve e' la riqualificazione degli edifici esistenti, adeguandoli alle condizioni sismiche locali. Ma gli italiani preferiscono comprare cessi quadrati da migliaia di euro, piuttosto che spendere due lire in sicurezza.

 

La qualità tecnica di un edificio, nel senso se questi sta in piedi e può reggere ad una scossa sismica di potenza X è cosa relativamente semplice da verificare, particolarmente nel caso di nuove realizzazioni, sulla scorta di valutazioni tecniche oggettive basate sulle migliori pratiche costruttive e sulla letteratura. Altre norme invece, tese ad esempio a garantire paesaggio e decoro urbano, oppure le decisioni circa le destinazioni d'uso, sono più arbitrarie e dipendono dalla volontà di amministratori locali e di soprintendenti vari. Sono queste ultime che non hanno ragione d'essere tanto stringenti nelle città esaminate, non le regole anti-sismiche.

 

Quello che e' strano e' che nonostante una mole di appartamenti invenduti incredibile (a Zola Predosa, un comune a fianco di Bologna, ben servito da viabilita' e da ferrovia metropolitana, si parla di 1600 appartamenti invenduti in ex area idnustriale riconvertita), i prezzi sono calati poco. Evidentemente c'e' un meccanismo perverso che fa mantenere il prezzo anche alle case di bassa qualita che non si riescono a vendere. Per gli affitti, il mercato e' crolalto del 40%, qui a Bologna.

 

Non conosco la situazione di Bologna, che non rientra tra le città che ho studiato. Ma, for the sake of discussion, ammettiamo che l'offerta residenziale là sia più che adeguata alla domanda. Qualora si riducessero i vincoli edificatori, quale investitore sarà così stupido da costruire appartamenti che nessuno vuole? Non comprendo i timori di colate di cemento "inutili": chi investe cerca il profitto, e lo otterrà solo fintanto che esista una domanda da soddisfare.

La proposta per me è corretta ma vorrei riflettere con voi su alcuni punti.

I piani regolatori come oggi li conosciamo esistono grossomodo da metà-fine 1800.

Prima non esistevano, ma a ben vedere le città piu' belle che la storia ci ha consegnato (prendiamo venezia, firenze, lucca, tutte le città rinascimentali solo per fermarci all'Italia) si sono sviluppate senza un PRG. Ma la stessa cosa puo' essere detta praticamente per tutto il globo. Contemporaneamente se mi perdonate la franchezza, le brutture piu' oscene le vediamo oggi, come risultato di una pianificazione urbanistica pubblica.

Certo, il fatto che non ci fosse un PRG non vuol dire che non ci fosse un piano, un disegno, ma è questo il punto. L'unico piano concepibile e valido è quello che scaturisce dal pubblico, con il suo inevitabile codazzo di corruzione? 

Mi dicono che in USA ci sono città anche grosse, tutt'oggi senza piano regolatore. Gli amici di NfA confermano? Come sono messe quelle città?

 

 

Il post di Diego secondo me pone un problema non solo attinente il post stesso: che è quello di chiedersi fino a che punto si  può regolare il mercato, e se lo  stesso è in grado di autoregolarsi.

La risposta è che il mercato delle abitazioni in Italia non sarà forse il massimo, ma c'è,non c'è scritto da nessuna parte che dobbiamo vivere tutti in Via Montenapoleone, o nella città di Roma, o comunque in una grande città. Se lo vuoi fare paghi,e paghi quello che il mercato di un bene scarso (le abitazioni nei confini di una metropoli non sono infinite, comunque) chiede, oppure vai da un'altra parte.

Allentare i vincoli, temo, significherebbe solo avere altri palazzoni orridi, per via della massimizzazione del profitto, senza alcun beneficio,visto che poi le nostre città non hanno le infrastrutture viarie e di comunicazione per reggere aumenti di popolazione.

Altra cosa sono i permessi di costruzione in senso lato, che in Italia sono semplicemente terrificanti,anche in zone ove è permesso costruire, o lo sarebbe con minimi adattamenti.

Concludo: il mercato delle abitazioni nelle grandi città italiane è efficiente: il bene è scarso, se lo vuoi lo paghi, costruire al di fuori delle grandi città , invece, è comunque impossibile per il comune cittadino,e il sistema favorisce solo i grandi gruppi, o semplicemente "ben introdotti", e questo andrebbe cambiato.

Caro Marco, dal titolo del tuo commento e quel "No grazie" ero stato indotto a pensare che tu fossi contrario alla deregulation come sopra esposta. Invece poi dici:

 

Altra cosa sono i permessi di costruzione in senso lato, che in Italia sono semplicemente terrificanti, anche in zone ove è permesso costruire, o lo sarebbe con minimi adattamenti.

Concludo: il mercato delle abitazioni nelle grandi città italiane è efficiente: il bene è scarso, se lo vuoi lo paghi, costruire al di fuori delle grandi città , invece, è comunque impossibile per il comune cittadino,e il sistema favorisce solo i grandi gruppi, o semplicemente "ben introdotti", e questo andrebbe cambiato.

 

Quindi se ho ben capito, concordi che un ammorbidimento dei vincoli edilizi ed un passaggio a norme oggettive e predeterminate nelle zone periferiche delle grandi città sia cosa da fare. Si eliminerebbe l'arbitrio che consente agli amministratori locali di contrattare con i soggetti "ben introdotti" di cui sopra, e si aumenterebbe l'offera di abitazioni per i redditieri inferiori. Certo, andrebbe fatto preservando una qualità minima ex lege affinché i fabbricati stiano in piedi, e imponendo gli oneri di urbanizzazione in quelle aree "vergini", dove la mancanza di strade ed altre infrastrutture le renderebbe degradate in partenza.

È dopotutto proprio questo il senso dei numeri che ho calcolato e riportato in Tabella 2: tolto il centro storico, tolti i quartieri dotati di edifici storici, di panorama e di altre amenità, rimane il dato di un rapporto tra prezzo e costo marginale di costruzione che oscilla nelle sei città considerate, de minimis, tra 1.5 e oltre 2. Nella periferia di Roma extra-G.R.A. parliamo di un indice prezzo/costo tra 2.1 e 2.8. A New York, città ad altissima densità abitativa con oltre 19 milioni di abitanti, il medesimo calcolo (basato sul costo di sopraelevazione dei fabbricati esistenti ed il prezzo medio complessivamente rilevato in città) pubblicato da Glaeser e altri nel 2005 varia tra circa 1.3 a circa 2 dopo il 2000, ma questo indice si basa sul prezzo medio totale, non sul prezzo minimo delle sole periferie! Davvero il significato di questi dati non risulta evidente a tutti? Come credere che i prezzi degli appartamenti periferici, per virtù magiche sconosciute, rimangano indefinitamente tanto elevati, anche dopo una riduzione dei vincoli edificatori e della conseguente disponibilità di case? Sarebbe un fenomeno più unico che raro.

Concludo: il mercato delle abitazioni nelle grandi città italiane è efficiente: il bene è scarso, se lo vuoi lo paghi

Marco, se il mercato fosse efficiente adesso i prezzi sarebbero in calo verticale da un po', e non e' cosi' - almeno, non in tutte le citta'. Concordo sul resto.

Segnalo alcuni aspetti trascurati nell'analisi ma non di poco conto:

1) le motivazioni che sono alla base della domanda;

2) i risvolti sociali ed ambientali di una maggiore cementificazione dovuta ad una deregolamentazione con particolare riferimento alla correlazione tra il benessere collettivo e l'interesse individuale degli operatori sia sul lato offerta sia sul lato domanda.

 

 

L’articolo afferma che in Italia il rapporto tra prezzo di vendita e costo di costruzione sia molto elevato, e che in particolare esso sia superiore a 1,35, quest’ultimo calcolato da Guthrie su un campione di città americane (però non ho trovato questa soglia sul paper di Guthrie).  Per questo motivo, se si aumenta l’offerta di case si riduce il prezzo di vendita e quindi il rapporto scende e tutti starebbero meglio.  Per aumentare l’offerta si suggerisce ai comuni di essere meno restrittivi con i rispettivi piani regolatori, cioè deregolamentare.  

Il confronto Italia - USA mi pare non applicabile per la diversa disponibilità relativa di terra, che non rappresenta un vincolo vero e proprio per gli USA, almeno in media, e quindi la soglia di 1,35 mi pare sospetta.

Comunque proprio il risultato teorico del paper che fornisce la soglia di riferimento a questo articolo di Diego sembra suggerire invece una maggiore cautela nel proporre policy simili a quella contenuta in questo articolo. Infatti, il paper di Guthrie dice che per effetto dell’option value dell’attesa, ridurre la regolamentazione edilizia non necessariamente produce una riduzione del rapporto tra prezzo di vendita e costo di costruzione. Questa eventualità controintuitiva sarebbe più probabile al verificarsi di condizioni che sono più simili a quelle presenti in Italia rispetto agli USA (questo paragone con l’Italia è una mia interpretazione nasometrica, of course). Quindi se la soglia di 1,35 è da prendere sul serio, allora  anche il resto del package con le avvertenze accluse andrebbe preso sul serio. Magari ha ragione Diego, ma considererei meglio le implicazioni di Guthrie che possono essere anche stravaganti.

Infine una notazione su “una deregulation nelle grandi città porterebbe benefici attesi rilevanti”. Il piano regolatore, approvato dal comune, in teoria dovrebbe già incorporare e massimizzare i “benefici attesi” che non sono solo il paesaggio, ma anche la vivibilità generale dell’impianto urbano per i cittadini, che peraltro in maggioranza possiedono già una casa.  I meccanismi di mercato qui possono operare con effetti non sempre desiderabiliin quanto praticamente tutto di una città è pianficato (ad esempio, traffico, parchi, strade, parcheggi etc).

 

Lo studio di Guthrie afferma che "Removing building restrictions would not remove the delay options embedded in undeveloped land, so house prices would not fall all the way to the construction cost in markets characterized by low interest rates, high expected demand growth, and the prospect of future land scarcity." Cioè, non dice che la rimozione dei vincoli edilizi può causare un innalzamento dei prezzi, ma che questi potrebbero piuttosto non scendere fino al costo marginale di costruzione, rimanendo un po' più alti.

Il rapporto tra prezzo e costo (da ora in poi "indice" per brevità) calcolato da Guthrie si basa su delle simulazioni. Con i dati a disposizione sul tasso d'interesse reale italiano nel periodo (4%) ed ipotesi "caute", ovvero aspettative per gli agenti di prezzi crescenti e pochi terreni disponibili (perché già si è costruito ovunque, o perché magari molti terreni sono troppo ripidi per edificarci sopra), l'indice assume un valore di 1.21. Ciò significa che, SE il mercato fosse perfettamente concorrenziale e non intervengono altri cunei tra costo marginale e prezzo, ci si può attendere che il prezzo d'equilibrio sia 1.21 volte il costo marginale di costruzione. Il valore che ho indicato io, di 1.35, tiene conto di altri due effetti:

1) sono andato a vedere a quanto si vende, negli ultimi 10 anni circa, un terreno agricolo lasciato a prato nelle aree immediatamente limitrofe quelle urbanizzate, ed ho trovato che il prezzo non arriva neppure ad un 2% del costo di costruzione. Ho preso il valore superiore di 2% e l'ho sommato alla stima di Guthrie, presupponendo che se i terreni "vergini" sono rari, anche in assenza di un esplicito permesso all'edificabilità questi incorporeranno in parte il valore di tale "rarità". In questo ho semplicemente seguito l'approccio di Glaeser et al. (2005), che pur se imperfetto mi pare ragionevole in prima approssimazione.

2) C'è poi la questione imposte. In Italia o si applica IVA al 10%, oppure una selva di imposte di registro che più o meno arriva ad un valore simile. Come valutare l'incidenza dell'imposta? Si dovrebbe avere stime sull'elasticità di domanda ed offerta. Per semplificare, ed again per avere stime molto conservative, ho semplicemente immaginato che l'intera imposta si trasferisse sul prezzo finale. A dire il vero i prezzi che ho usato io sono ante imposta, ed a meno che l'offerta sia pendente negativamente, il cuneo fiscale non dovrebbe provocare incrementi del prezzo lordo. Applicando un rincaro di +10% al valore dell'indice, arrivo ad 1.35, che è per quanto detto una stima super-conservativa.

Ora, è vero che le simulazioni di Guthrie vanno prese con le pinze, sia perché sono calcolate per gli USA, sia perché sono solo simulazioni. Ma per adesso non ho trovato in giro lavori migliori, o specifici per l'Italia. Per i terreni, è vero che negli USA hanno le sterminate praterie, ma a ridosso delle città più grandi, come Manhattan e Chicago, non è proprio così. Vedi al riguardo il lavoro di Glaeser e Gyourko (2002) (“The Impact of Zoning on Housing Affordability”, NBER Working Paper, No. 8835, QUI).

Detto tutto ciò, è chiaro che queste stime sono imprecise. Ma qui stiamo parlando di un indice teorico (impreciso, ma non campato in aria) di 1.35, contro un indice calcolato sui prezzi minimi della periferia di Roma di 2.1, e qualcosa in più a Milano e Napoli. È un bel gap! Se non è causato da regolamentazioni molto restrittive, non so a cosa possa essere dovuto (ma spiegazioni "esotiche" sono benvenute).

 

 

Infine una notazione su “una deregulation nelle grandi città porterebbe benefici attesi rilevanti”. Il piano regolatore, approvato dal comune, in teoria dovrebbe già incorporare e massimizzare i “benefici attesi” che non sono solo il paesaggio, ma anche la vivibilità generale dell’impianto urbano per i cittadini, che peraltro in maggioranza possiedono già una casa.  I meccanismi di mercato qui possono operare con effetti non sempre desiderabiliin quanto praticamente tutto di una città è pianficato (ad esempio, traffico, parchi, strade, parcheggi etc).

 

In teoria è come scrivi, concordo. I parchi, poi, sono un buon esempio di "bene pubblico" (non escludibile, ecc.) per i vari benefici che apportano (ossigeno, bellezza, vivibilità...), ed è quindi logico che siano gestiti pubblicamente. Idem per strade e molti altri servizi. Ma ipotizzare che le policy comunali siano welfare-maximizing, perdonami, ma proprio nelle grandi città italiane mi pare un'ipotesi più che temeraria. Devo farti l'elenco dei sindaci di Napoli e Roma degli ultimi 30 anni, o siamo già d'accordo che sul tema siamo in piena ed ampiamente avallata ipotesi di Public Choice? ;)