Globalizzazione e diritti umani

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Il recente post di Alberto sull'esportazione delle attività produttive nei paesi in via di sviluppo non tratta un tema sollevato da chi critica tale processo, tema che a volte mi trova in difficoltà:  i costi del lavoro in Cina o Serbia sono più bassi anche per la mancanza di diritti umani in questi paesi: lavoratori impiegati a 80 ore la settimana, lavoro minorile, (in)sicurezza dell'ambiente di lavoro, eccetera. Provo ad affrontarlo.

L'argomento in questione, dopo aver snocciolato i fatti di cui sopra, continua così: quindi la globalizzazione non solo comporta dei costi di rilocalizzazione delle risorse (il lavoratore Fiat che deve imparare a fare l'idraulico) ma i suoi vantaggi collettivi vengono conseguiti a scapito dello "sfruttamento" di lavoratori residenti altrove. Questo è un punto interessante, e ritengo che una buona dose di dibattito pubblico dovrebbe concentrarsi sulla discussione di queste tematiche.

La premessa di chi solleva il problema dei diritti umani (il termine è un po' esagerato, ma così si capisce meglio) è: "se è possibile, nel XXI secolo garantire certi diritti qui in Italia, perché non è possibile altrove?" Sessant'anni fa i diritti del lavoratore, le condizioni di lavoro, e così via erano poco, o meno, rispettati, anche qui da noi. Ma oggi la frontiera tecnologica permette a una parte dell'umanità il lusso di lavorare per 40 anni in un arco vitale di 80, a 40 ore circa la settimana, in condizioni ritenute accettabili secondo la nostra personale definizione occidentale di accettabilità. Perché non deve essere così altrove?

Il vizio evidente di questa argomentazione è che si possano facilmente replicare nei paesi in via di sviluppo le condizioni tecnologiche, sociali, istituzionali dei paesi industrializzati. Che questo non sia possibile mi pare evidente, altrimenti il nostro pianeta si chiamerebbe Svezia, o USA, o Canada, a seconda delle preferenze. Ma se non siete convinti, provate a copiare la ricetta del piatto preferito fatto da vostra mamma: nel 90% dei casi non è altrettanto buono. La tecnologia non è esportabile istantaneamente, e lo sono ancora meno le istituzioni e le società efficienti (date un'occhiata al dibattito sulla riforma della legge elettorale in Italia degli ultimi 25 anni, o a quello sulla questione meridionale). La ragione, alla fine, è banale: perché l'indonesiano medio possa lavorare e consumare come il lombardo medio è necessario che egli possieda lo stesso capitale umano (non solo un titolo di studio, ma conoscenze effettive), che gli impianti dove va a lavorare siano gli stessi, che i trasporti e i servizi pubblici pure lo siano, eccetera, eccetera, eccetera. Tutto questo si può fare? Certo! Ma chiedetevi: quanti decenni ha impiegato l'Italia a costruirle queste cose (che anche il capitale umano si "costruisce", piaccia o meno il termine)? Bene, perché mai ciò che in Italia o Francia ha tardato moltissimi decenni dovrebbe compiersi in pochi anni in Indonesia, Messico o Cina?

L'argomento più sottile è che si possa aumentare i diritti umani altrove in modo incrementale. E non è detto che questo non stia succedendo: i diritti umani sono un bene costoso, che si può "acquistare" crescendo economicamente. Lo abbiamo fatto anche noi, dopo tutto, e incrementalmente. Ci possiamo permettere di lavorare solo 8 ore al giorno e fare un mese di ferie perché quando lavoriamo siamo molto produttivi. In altri luoghi del globo invece i genitori di un bambino di 12 anni devono scegliere fra patire la fame o mandarlo a produrre scarpe per una multinazionale. La prima banale osservazione è che questa brutta alternativa permette pur sempre la scelta fra una condizione di vita marginalmente migliore e una peggiore, possibilità che verrebbe negata se questa scelta non ci fosse.

Ma, obiettano alcuni scettici, perché non è possibile usare una parte dei guadagni collettivi derivanti dalla globalizzazione per fare stare (un po') meglio i lavoratori nei paesi in via di sviluppo, almeno per evitare queste odiose scelte fra alternative pessime? Non sarebbe meglio pagare le magliette a un euro in più e far lavorare Zheng un'ora in meno e far studiare Gautam un anno in più? Ovviamente nessuno vieta a Mario di staccare un assegno verso Zheng  per permettergli di fare vacanza la domenica. Ma possiamo farlo in modo collettivo? Certo che sì, basta dire al capo del governo che lo rieleggiamo se, calcolati i guadagni collettivi derivanti dalla rilocalizzazione della Fiat in Serbia, una parte la devolviamo a riqualificare i poveri torinesi perché imparino a fare gli idraulici e gli infermieri, e il resto lo spendiamo in un'assicurazione per gli infortuni sul lavoro dei lavoratori serbi.

Battute a parte (ma non tanto, queste cose si sono fatte e si fanno con donazioni individuali e prestiti/aiuti governativi) il tema non è semplice perché si tratta di imporre a un'altra nazione il rispetto di standards che noi stessi non garantivamo fino a pochi decenni fa (e la cui assenza ha aiutato la nostra crescita, cosa da non dimenticare). Perché ogni azione su questo fronte richiede un coordinamento politico internazionale. Perché la questione va trattata diversamente nei confronti di regimi democratici e autoritari: avrà pur diritto una stato democratico, come, per esempio, l'India, di decidere se i propri cittadini possano lavorare a 12 piuttosto che a 16 anni. Pensare di imporre i nostri standards a un paese democratico in via di sviluppo mi pare una nuova pericolosa forma di colonialismo culturale.

Mi preoccupa di più il caso del regime autoritario che impone ai propri cittadini di vivere in condizioni di semi-schiavitù (o a una parte di essi, come nel caso dell'apartheid sudafricano). Che possiamo fare per il lavoratore cinese costretto a lavorare 70 ore la settimana? Proteggere questo lavoratore (ammesso fosse possibile) significa non solo cercare di capire quali preferenze abbia nell'allocazione delle proprie risorse fra consumo e tempo libero, ma anche capire come il suo benessere vada valutato nei confronti del benessere di suo figlio, che certamente beneficierà (in termini di reddito, diritti umani, tempo libero) del lavoro del padre. E poi, come gli episodi dei mesi recenti provano, persino in dittature come la Cina dopo un po' i lavoratori si organizzano e chiedono, e ottengono, sostanziali aumenti salariali. Ed anche questo fa riflettere.

Colgo infine l'occasione per ribadire un altro punto spesso poco chiaro quando si parla di globalizzazione e sfuttamento del lavoro: le dannate "multinazionali" che sfruttano i poveri esistono davvero, e possono sfruttare i lavoratori perché operano in condizioni di sostanziale monopsonio sui mercati del lavoro locali. Il problema dunque, ancora una volta, non è tanto dovuto al "mercato" in quanto tale, ma all'assenza di un mercato concorrenziale a livello internazionale e di una protezione antitrust che agisca globalmente. In questi casi, non vedo altra soluzione che un coordinamento globale di politiche del lavoro che metta alcuni chiari paletti nel rispetto delle scelte di politica sociale locali.

Si noti inoltre che anche senza l'intervento dei governi nazionali e sovranazionali, i mercati (tanto bistrattati oggigiorno) funzionano piuttosto bene come aggregatori delle preferenze individuali. Quando la spocchiosa middle class americana si è accorta che certe compagnie producevano scarpe e magliette sfruttando il lavoro minorile altrove, la mobilitazione generale dell'opinione pubblica ha fatto sì che queste compagnie riorganizzassero le proprie modalità di produzione, anche con l'istituzione certificazioni e marchi "no child labor". Il tutto, aggiungo, magari a scapito del benessere dei poveri bambini pakistani (e delle loro famiglie), ma certamente a vantaggio della coscienza del consumatore middle-class occidentale.

Come detto, mi piacerebbe che il dibattito si soffermasse su questi aspetti, oltre che sulla protezione dei consumi e la riqualificazione dei lavoratori dislocati nel nostro paese. Ma per farlo in modo produttivo, va chiarito il punto fondamentale: la mobilità delle risorse produttive è un bene, per la collettività, e questo il post di Alberto lo spiega chiaramente.

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Commenti

Ci sono 56 commenti

 

Il tutto, aggiungo, magari a scapito del benessere dei poveri bambini pakistani (e delle loro famiglie), ma certamente a vantaggio della coscienza del consumatore middle-class occidentale

 

Multinazionali che delocalizzano in pakistan penso che riescano a rendere profittevole il basso costo della mano d'opera senza dover cadere nello sfruttamento, poi che si lavori in una età un pò più bassa è anche normale visto anche che mediamente hanno una aspettativa di vita molto più bassa.

E' comunque corretto iniziare a pensare che il nostro stile di vita non sia un riferimento per decidere a che età e quanto ore debbano lavorare gli altri,  anche le modalità di sicurezza che sono non poco importanti sono relative a quanto sopravvivi non lavorando (es. non avendo risorse anche per pagarti le cure mediche).

Per quanto riguarda anche il benessere delle famiglie pakistane penso che se i genitori lavorassero e fossero meglio pagati magari si potrebbero anche permettere di dare maggiore cultura ai propri figli portandoli a lavorare ad una età più accettabile.

Soluzioni o regole equilibrate (la via di mezzo sembra ormai che sia quella più difficile da raggiungere) secondo me non fanno male, anche nel regolare il mercato internazionale (è possibile pensare di essere liberisti e fare tali affermazioni?).

Io ormai vedo anche un maggiore squilibrio tra i soldi che le aziende investono  per il marketing rispetto a quelli spesi per la qualità , i miei post nel precedente articolo a riguardo delle Nike erano  infatti indirizzati non alla azienda che li produce che può fare quello che vuole (quello che vogliamo noi cmq.), ma a noi che ormai pensiamo più alla forma che alla sostanza.

 

 

è possibile pensare di essere liberisti e fare tali affermazioni?

E' certamente possibile, l'idea che liberismo equivalga ad assenza di regole e' dura da smontare, ma ci stiamo provando. 

 

le dannate "multinazionali" che sfruttano i poveri esistono davvero, e possono sfruttare i lavoratori perché operano in condizioni di sostanziale monopsonio sui mercati del lavoro locali

 

Non che voglia fare la difesa di ufficio delle multinazionali suddette, ma credo sia anche una questione di percezione: la multinazionale è visibile e vulnerabile all' opinione pubblica occidentale, altri soggetti no.

In Messico ho visto bambini in età prescolare aiutare i genitori a far legna, ed in vari documentari intere comunità vivere rovistando nelle discariche o scavando zolfo quasi a mani nude, o schiavi bambini che coltivano cacao.Per non parlare dei subcontractors di Ciudad Juarez.In certi contesti non serve nemmeno il monopsonio per far sembrare attraente lo sfruttamento in multinazionale.

mi piacerebbe che il dibattito si soffermasse su questi aspetti

E' difficile suscitare dibattito se ci scrivi un post perfetto.

Grazie dei complimenti, che non sono interamente meritati: il post svicola un po' sulle questioni di fondo, che pero' non credo siano materia per economisti. Come ottenere il coordinamento internazionale delle politiche, quali misure ritenere accettabili a livello globale e quali altre da perseguire, etc... Su questo sollecitavo il dibattito. 

Ma bono&co., la cultura no-global e in certa misura anche quella dell'equo-solidale, preferiscono parlare d'altro. Questo ho dimenticato di sottolinearlo (quindi colgo l'occasione), nessuno per esempio che faccia notare che sono le misure protezionistiche UE ed USA (per esempio nel settore agroalimentare) a mantenere la poverta' nel resto del mondo. I nemici dell'equo-solidale dovrebbero essere i governi occidentali prima che le multinazionali. Si tende a vedere la globalizzazione (e le multinazionali) come IL problema, mentre la soluzione del problema della poverta' la si ricerca con un approccio assistenzialistico/solidaristico (quando non si fa di peggio, promuovendo il protezionismo nostrano ed altrui). Prestare a tasso agevolato agli artigiani nicaraguensi e comprare il caffe' direttamente dai coltivatori boliviani va bene, ma pensare che sia questa la soluzione della poverta' del mondo mi pare un po' utopistico. 

Forse potrebbe giovare alla discussione comparare crescita dei salari e produttività del lavoro. Alla fine, la produttività è dovuta ad una serie di fattori, tra cui come si fanno gli investimenti. Pensavo che, in fondo, alzando il livello della produttività le multinazionali finiscono anche per spingere su i salari nel medio periodo (cioè, assumo che la produttività è causa dei salari più alti).

Io scrissi un post qui e misi anche un grafico che faceva questa operazione per la Cina. Salari e produttività crescevano quasi di pari passo. Purtroppo, il dato sulla produttività era sull'economia e non sul lavoro, quindi potrebbe essere un risultato deviato.

Però ho fatto l'operazione con gli stessi dati con gli USA e pure lì salari e produttività crescevano insieme. Anzi, i salari crescevano a volte di più. Il che mi sembra una cosa plausibile visto la situazione debitoria usa.

Magari qualcuno ha dati precisi sulla produttività? I miei sono di euromonitor.

Andrea, quando dici:

le dannate "multinazionali" che sfruttano i poveri esistono davvero, e possono sfruttare i lavoratori perché operano in condizioni di sostanziale monopsonio sui mercati del lavoro locali. Il problema dunque, ancora una volta, non è tanto dovuto al "mercato" in quanto tale, ma all'assenza di un mercato concorrenziale a livello internazionale e di una protezione antitrust che agisca globalmente. In questi casi, non vedo altra soluzione che un coordinamento globale di politiche del lavoro che metta alcuni chiari paletti nel rispetto delle scelte di politica sociale locali.

non capisco del tutto cos'hai in mente. 

Se la multinazionale opera in condizioni di monopsonio sul local labor market del paese x in thailandia, vuol dire che riesce a pagare salari piu' bassi di quello concorrenziale. Che cosa scoraggia l'ingresso di altre multinazionali che possono avvantaggiarsi di questi prezzi piu' bassi, innalzando la domanda, visto che i lavoratori non sono costretti a lavorare per la prima se c'e' una alternativa?

Lo chiedo perche' non capisco come mai non vedi a questo altra soluzione che "un coordinamento delle politiche del lavoro che metta chiari paletti". In particolare, non capisco come passi dal problema (assenza di mercato concorrenziale a livello globale) alla soluzione (paletti di regolamentazione dei contratti di lavoro, ad esempio). Favorire l'ingresso di nuove multinazionali sarebbe una soluzione alternativa, ad esempio, e richiederebbe solo atti unilaterali del governo del paese.

 



Se l'Adidas va nel paese x la Nike mica si sogna di andare nello stesso posto a farle concorrenza sui salari. Di paesi poveri ce n'è in abbondanza e non è detto che i loro cittadini abbiano alternative fra monopsonio e fame. 

Certo che favorire investimenti esteri da parte dei governi locali è un'ottima alternativa. I paletti dovrebbero riferirsi al rispetto di poche norme etiche il più possibile universalmente condivise. Come ho scritto, in pochi casi eclatanti è il mercato stesso a farle rispettare. Temo anche in eccesso, visto che l'alternativa non e' detto sia migliore, come Marcello ha sottolineato sopra. 

I paletti non sono certo una soluzione ma se decidiamo che sotto gli otto anni non si lavora, o che la schiavitù non è permessa, accordiamoci internazionalmente su questo standard e facciamolo rispettare con i mezzi a disposizione. Nel caso dell'Apartheid mi pare la comunità internazionale abbia saputo coordinarsi. Non so se questo sia stato determinante o anche solo abbia facilitato la sconfitta di quel regime, ma certo è che in quel periodo il Sudafrica non andava nemmeno alle olimpiadi quindi quando la volontà di fare c'è mi pare che i mezzi si trovano. 


Che cosa scoraggia l'ingresso di altre multinazionali che possono avvantaggiarsi di questi prezzi piu' bassi...

Dal volume Freccia Gialla di Victor Pelevin, autore segnalato a suo tempo da Michele,

"comunque per noi cambia poco. Nessun esterno, te lo garantisco, riuscirebbe ad infilarcisi, in quel giro"
"E perché?" ribatté Ivan. " E se la piazzassi a un prezzo più basso?"
"Ma come faccio, Vanja? Leggi un pò meno il Financial Times! Se ne vendessi anche un solo rotolo a un prezzo più basso, mi prenderebbero e mi getterebbero vivo dal finestrino. Ti dico che non c'è trippa per gatti"

A volte, leggere i romanzi può essere fonte di sana meditazione e comprensione.

 

 

Andrea, visto che tutti sono d'accordo con te e tu invece chiedi il dibattito, faccio la parte dell'avvocato del diavolo (che mi viene male e mi sta stretta, notoriamente) e provo a dire alcune cose che forse potranno suscitare qualche dibattito.

1) Non ho capito perché tu voglia che qualche stato mondiale (ONU? WTO?) s'incarichi di decidere cosa debbano fare in Pakistan o in Guinea o in Perù. Cosa legittima questo stato mondiale che si prende la briga di decretare cosa possano fare i coltivatori diretti argentini? Chi lo elegge? Come? Dovrebbe, per caso, assomigliare alla Commissione sui Diritti Umani dell'ONU, quella presieduta dalla Libia o qualcosa del genere?

2) Quali sono i diritti umani che ti sembrano imprescindibili? Io ho lavorato i campi per la prima volta a 6 anni circa: avrei senz'altro preferito andare a fare un giro in Bugatti con lo zio ricco, ma non ho avuto questa fortuna. So what? Mettiamo in galera mio padre o lo zio ricco che non avevo? La settimana lavorativa massima, secondo i diritti umani, quanto lunga è? E, di nuovo, chi lo decide? Da quando in qua andare a scuola sino a 10, 12, 14, 16 ... anni è un "diritto umano" anziché un benvenuto e gradevole lusso che il progresso tecnologico e lo spirito imprenditoriale hanno reso possibile?

3) Le multinazionali sono cattive? Certo, solo che sono meno cattive delle imprese nazionali che operano nei paesi sottosviluppati. Era così anche in Italia, è stato così ovunque: per orrenda che sia, la multinazionale offre ritmi di lavoro, salari, trattamenti assistenziali ed altro che sono migliori di quelli che offrono le imprese nazionali. Andate in giro per il paese, la città o il quartiere, cercate i pensionati di età superiore ai 70 anni e fate una piccola inchiesta sul tema: nel 1950, dove preferivi lavorare? In una fabbrica di proprietà USA o in quella con padrone italiano? E tuo padre, che lavorava probabilmente durante gli anni '20 e '30, secondo te cosa preferiva? Tutta l'evidenza disponibile mostra che FDI porta crescita economica e progresso tecnologico nei paesi che lo ricevono. Vogliamo impedirlo perché fa tristezza a qualche ricco fighetto di "sinistra" che le sue fighettissime borse siano prodotte da dodicenni? Bene, i dodicenni in questione verranno quindi spediti a rovistare nella merda delle strade alla ricerca di qualcosa da mangiare.

4) Ho l'impressione che la questione dei "diritti umani", come li chiami tu, nei paesi sottosviluppati abbia una ed una sola soluzione: più crescita economica. La vita dei poveri di Shanghai è migliorata enormemente negli ultimi quindici anni: è visibile ad occhio nudo. Nei cinquecento o seicento precedenti era rimasta miserabile ed era peggiorata durante gli anni del socialismo cinese. Se proprio qualche anima candida con la testa imbottita da quel pagliaccio di Latouche vuole essere utile ai "poveri" del mondo, che doni loro i propri averi e faccia swapping di posto di lavoro e condizione di vita. It's as simple as that.

 

Ma qualcuno ha anche una vaga idea di cosa fosse (sia) la vita dei contadini italiani nell'Ottocento (dei contadini cinesi nel 1970)? Ma siete veramente convinti che sia l'idillio che i verdi tentano di propinarvi? Solo un dato: secondo le Monografie di famiglia fatte dell'INEA (Istituto Nazionale di Economia Agraria) negli anni Trenta del secolo scorso il numero medio di ore di lavoro era di 2750 per gli uomini e 3638 per le donne. Sono 10 ore al giorno TUTTI i giorni, comprese le domeniche. E se volete qualche descrizione sui livelli di vita, andate a leggervi l'inchiesta agraria Jacini (1881-1883). Questo in anni normali. Per non ricordare cosa voleva dire un raccolto fallito- uno shock macroeconomico del 30-40% e senza ALCUN welfare state. A noi un calo del 5% del reddito sembra una crisi epocale.

i miei nonni materni avevano la terza elementare ed erano braccianti agricoli. nel dopoguerra il lavoro operaio (la nonna, impiegata!) in una fornace fu per loro una benedizione. da pensionati, gli piaceva fare qualche giornata di vendemmia, senza paga e senza pensieri, liberi da ogni rimpianto.il pensiero di latouche , e di castoriadis, con loro non avrebbe mica tanto attecchito.

senza divagare troppo: ma i diritti umani non attengono alle cosiddette libertà civili? la libertà religiosa, di pensiero e di associazione et similia? già così, garantirli è un "compito vasto", con tanti compromessi di realpolitik. perchè aggiungerci anche la cilindrata minima dell'automobile del lavoratore? anche il "diritto alla salute" che indubbiamente riempie la bocca e scalda il cuore, ha molto a che fare con la ricchezza che si produce, e meno con i complotti dell'occidente colonialista.

La questione dei diritti umani non è solo il lavoro minorile ecc., cioè cose che potrebbe anche rientrare nella normalità in un certo contesto storico-sociale. La questione principale è che la Cina (e i suoi simili) sono paesi dove i diritti fondamentali dell'uomo non vengono rispettati: diritto alla vita, all'espressione del pensiero ecc., altro che sindacati, salari minimi o scioperi. Quindi, esportando capitali e produzioni nelle varie Cine noi foraggiamo e incoraggiamo dei regimi totalitari che non hanno ragione di esistere, e che sono cattivi per definizione.

Tuttavia, dopo la caduta dell'URSS, sembra che a nessuno interessi più la democrazia come valore irrinunciabile: si chiude un occhio su tutto, dalla questione tibetana al sanguinario dittatore comunista dell'Eritrea (grande amico di Berlusconi). Cioè, in altre parole, non sono affatto sicuro che il libero mercato porti automaticamente alla libertà politica: se la dittatura ci permette di massimizzare i profitti e minimizzare i costi, ci facciamo andar bene la dittatura.

Ottime provocazioni, rispondo alla prima, alle altre stasera che devo andare a fare un giro...

1) Penso per esempio allo stesso "organismo" che ha deciso di boicottare il Sudafrica dell'Apartheid. In quel caso (e non discuto nel merito) non ho visto grosse difficolta' a prendere decisioni quasi globali. In generale comunque, non e' ovvio che quello nazionale sia il livello ottimo per tutte le decisioni, esistono scelte da compiere a livello locale, cittadino, regionale, nazionale e qualcuna sovranazionale. Come risolvere il problema dell'aggregazione in quest'ultimo caso mi pare esuli dall'argomento del post. 

 

Se proprio qualche anima candida con la testa imbottita da quel pagliaccio di Latouche vuole essere utile ai "poveri" del mondo, che doni loro i propri averi e faccia swapping di posto di lavoro e condizione di vita. It's as simple as that.

 

Mi rendo conto che stai facendo l'avvocato del diavolo, ma puoi fare meglio di cosi'. Stai dicendo che le uniche alternative sono tra a) Fottersene completamente del prossimo tuo. b) Fare come S. Francesco e spogliarsi dei propri averi per donarli ai poveretti? Una via di mezzo adatta a chi non sia in odore di santita' non esiste proprio?

2) Quali sono i diritti umani che ti sembrano imprescindibili?

Assumiamo che non ce ne siano. Cosa dire allora dello schiavismo (stile Stati Uniti prima della guerra di secessione?) E' un modello economico come un altro, con i suoi pregi e i suoi difetti.  La settimana lavorativa massima e' chiaramente 7*24=168 ore con qualche pausa per il riposo concessa in funzione delle esigenze del proprietario/datore di lavoro.
Meglio questo che morire di fame o rovistare nella spazzatura no?

 

Tutta l'evidenza disponibile mostra che FDI porta crescita economica e progresso tecnologico nei paesi che lo ricevono. Vogliamo impedirlo perché fa tristezza a qualche ricco fighetto di "sinistra" che le sue fighettissime borse siano prodotte da dodicenni? Bene, i dodicenni in questione verranno quindi spediti a rovistare nella merda delle strade alla ricerca di qualcosa da mangiare.


Io trovo che in questi casi dovremmo affidarci all'etica deontologica e accettare le prescrizioni che come cittadini della nostra parte di mondo abbiamo interiorizzato come giuste. Altrimenti, ragionando per iperboli, si finisce con il giustificare quei morti di figa che prendono un'aereo per andare in Thailandia e abusare di prostutute/i bambini perchè benefattori che contribuiscono a togliere dalla miseria le famiglie di quei disperati.

Abbandonare i nostri principi con la scusa che operiamo in un contesto dove il ranking dei valori è diverso dal nostro, lasciandoci andare a elucubrazioni sulle conseguenze ultime delle nostre azioni non mi sembra opportuno perchè

- è sempre difficile comprendere le conseguenze dei nostri comportamenti potenziali, soprattutto in terra straniera

- è arrogante ergerci a giudici e stabilire cosa è bene e male per la popolazione locale. Non dovremmo esprimerci sul fatto che i locali manderebbero i propri figli a rovistare nella spazzatura. Decidano loro se sia cosa buona senza che noi ci si senta forzati a prendere posizione.

Anzichè buttare a mare il nostro sistema di valori e rinunciare alla nostra identità per mimetizzarci con gli indigeni dovremmo limitarci al rispetto degli usi, dei costumi, e valori di altri popoli e stop. Ovvero, solo astensione dal giudizio morale, come ci ha insegnato Herskovits.

Quindi, etica deontologica e relativismo culturale for the win.

Caro Andrea,

mi sembra che il tuo ragionamento soffra di un vizio di fondo. Il problema è il seguente: la nozione di diritti umani (che ha il suo più elevato compimento nella dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, un'insieme di principi che Ennio de Giorgi paragonava agli assiomi della matematica), presuppone la possibilità di fondare l'etica su di una base solida (p.e. la ragione, secondo la tradizione illuminista). Tale nozione si fonda dunque su  una visione deontologica (non conseguenzialista, come ad esempio l'utilitarismo) dell'etica, in base alla quale un'azione deve essere esclusivamente valutata per la sua conformità ad un principio ritenuto giusto.

Ora, tu fai riferimento ai diritti umani, ma emerge dal tuo discorso una visione dell'etica come convenzione, e le due cose fanno a cazzotti. Mi spiego.

Tu scrivi:

"Battute a parte (ma non tanto, queste cose si sono fatte e si fanno con donazioni individuali e prestiti/aiuti governativi) il tema non è semplice perché si tratta di imporre a un'altra nazione il rispetto di standards che noi stessi non garantivamo fino a pochi decenni fa (e la cui assenza ha aiutato la nostra crescita, cosa da non dimenticare). Perché ogni azione su questo fronte richiede un coordinamento politico internazionale. Perché la questione va trattata diversamente nei confronti di regimi democratici e autoritari: avrà pur diritto una stato democratico, come, per esempio, l'India, di decidere se i propri cittadini possano lavorare a 12 piuttosto che a 16 anni. Pensare di imporre i nostri standards a un paese democratico in via di sviluppo mi pare una nuova pericolosa forma di colonialismo culturale."

Supponiamo che l'India, democraticamente, introduca la tortura come mezzo per estorcere informazioni agli individui sospettati di aver commesso un reato (ma il discorso è analogo nel caso di una legge che consenta di far lavorare i bambini al compimento del quinto anno d'età). Ha diritto, uno stato democratico, di decidere sulla possibilità di poter torturare i propri cittadini (ovvero di far lavorare i bambini a 5 anni)? Pensare di imporre i nostri standard etici è una forma di colonialismo?

E' chiaro che ciascuno può rispondere come crede alle precedenti domande. Tuttavia deve scegliere: se la risposta è affermativa, mi sembra che la nozione di diritti umani si svuoti.

 

Ottima provocazione anche la tua. Io in soldoni la vedo così, premetto che sono però un dilettante della questione. Non c'è alternativa all'etica come convenzione. Deve per forza essere così, anche ammettendo  che ci sia qualcosa che ce la cala dall'alto, avremo pur sempre da esseri umani la libertà di accettarla o meno. Insomma i diritti umani che riteniamo fondamentali sono definibili anch'essi come un fenomeno di equlibrio fra le scelte e le aspirazioni individuali. Il tutto rispettando un certo vincolo di bilancio: alcuni diritti ce li possiamo permettere oggigiorno, altri non era possibile fino a 50 anni fa. Possiamo anche cercare di capire quali di questi diritti, nell'operare di queste scelte e desideri, si selezionano e quali altri diventano meno necessari. Quali consentano l'evolversi di società più efficienti e quali no.

Si svuota così la nozione di diritti umani? Non credo. Sono i diritti che riteniamo imprescindibili e per i quali siamo disposti a combattere, anche altrove, perdendoci vite e risorse. Come ho fatto notare, nel caso dell'Apartheid i paesi si sono trovati in quasi totale accordo. Che ci fossero motivi economici sotto, lo dubito, ma magari mi sbaglio. Magari costava poco, ma si e' fatto.

 

 

l tema non è semplice perché si tratta di imporre a un'altra nazione il rispetto di standards che noi stessi non garantivamo fino a pochi decenni fa (e la cui assenza ha aiutato la nostra crescita, cosa da non dimenticare).

 

Andrea, hai ovviamente ragione da vendere. Al solito la questione e' complessa di molto. Pero' sarebbe forse il caso di distinguere tra 1. il rispetto di alcuni diritti irrinunciabili della persona e 2. altre questioni piu' legate al concetto di benessere economico.

1. Se molti stati occidentali perseguitano i propri cittadini che si macchiano di reati pedofili all'estero (e giustamente aggiungo io), trovo anche assolutamente ragionevole prevedere sanzioni (dazi o altre barriere commerciali) per i beni ed i servizi prodotti senza rispettare alcuni diritti fondamentali. Qui penso, ad esempio, al celebre caso dei blood diamonds, alle azioni di alcune corporations petrolifere nel delta del Niger, ai casi estremi in cui i lavoratori vengono ridotti in un'effettiva condizione di schiavitu' o al caso del regime di apartheid in Sud Africa. Si', e' vero, i diritti umani sono in gran parte un'invenzione occidentale. And so what? Con questo principio saremmo ancora a commerciare schiavi (che vi ricordo compravamo gia' pronti all'uso sulle cose africane, giacche' un mercato locale era sempre esistito).

2. Sgombrato il campo dai casi piu' estremi, e' ovvio che la situazione economica di alcuni paesi e' talmente disperata da richiedere un massiccio ricorso al lavoro minorile. Se l'alternativa ai bambini che cuciono palloni per la Nike sono gli stessi bambini che muoiono di fame o si prostituiscono, ben vengano i palloni. Pero' io penso che i consumatori siano co-responsabili dei metodi di produzione dei beni e dei servizi che consumano. E' giusto richiedere la massima trasparenza da parte dei produttori, ed e' sensato che i consumatori facciano pressione sulle corporations per migliorarne le condizioni di lavoro. Se il prezzo di una Nike non riflette solo il costo di produzione e ricerca/design, ma anche l'acquisto di un certo lifestyle (yo, voglio essere come Kobe), non e' poi cosi' assurdo essere disposti a pagare un bene qualche dollaro in piu' per il lifestyle "aiutiamo i lavoratori del sudest asiatico".

Tra l'altro, il ciclo classico e' che la multinazionale porta il lavoro a basso salario, col tempo l'economia e la concorrenza crescono e i lavoratori incominciano a trattare per condizioni migliori. Ecco, come consumatore uno dovrebbe anche chiedersi dove vuole porsi in questa trattativa. Esempio: Subway e i raccoglitori di pomodori (se mi ricordo bene la notizia era anche uscita su The Economist, ma in rete potete rovarla qui).

Nel primo commento di questo articolo ho scritto:

 

E' comunque corretto iniziare a pensare che il nostro stile di vita non sia un riferimento per decidere a che età e quanto ore debbano lavorare gli altri,  anche le modalità di sicurezza che sono non poco importanti sono relative a quanto sopravvivi non lavorando (es. non avendo risorse anche per pagarti le cure mediche).

 

e successivamente ho risposto al tuo commento:

 

I contadini di una regione interna della Cina o della Siberia o di molti paesi dell'Africa, di diritti umani, istruzione, orario di lavoro non sanno nulla. Dal nostro punto di vista è ingiusto e/o imarale. Ma è il NOSTRO parametro. Bisogna capire qual è il LORO parametro. E l'unico modo è innescare sviluppo come altri hanno puntualmente precisato.

 

inziando con tale frase:

 

Perfettamente d'accordo,

 

mi scuso per la mia eventuale scarsa capacità di spiegazione,

quello che però posso cercare di spiegare con i miei limiti  e che puntualmente non vuole essere capito è di fare una riflessione sulla seguente frase all'interno del tuo post:

 

 

... Ma è il NOSTRO parametro. .....

 

 ma lo vogliamo capire che anche i nostri devono essere capiti, non pensi che un contadino cinese li trovi eccessivi specialmente se viene a sapere :

www.chicago-blog.it/2010/07/19/bonus-vacanze-l%E2%80%99albergo-pagato-non-e-un-diritto-costituzionale-e-non-e-nemmeno-un-diritto/

a cui io potrei aggiunegere maliziosamente che LE NIKE NON SONO UN DIRITTO UMANO .... e neanche le Hogan :)

Non ci resta che predicare .... come spesso fanno in questo splendido blog e anche in qualcun altro:

www.chicago-blog.it/2010/07/15/il-mercato-dice-probabilita-di-default-italia-a-5-anni-155/

 

Ovvero visto che parliamo di diritti umani:

 

 

Pastore sardo cerco di spiegarmi. Che venga utilizzato il lavoro di bambini da chinque è cosa che aborro. In Cina o da qualche altra parte il lavoro minorile è accettato e comunque non è visto come un abuso soprattutto perchè è una delle poche alternative alla fae. Questo dal nostro punto di vista non lo giustifica moralmente ma per far cessare la pratica devi introdurre degli incentivi e delle alternative innescendo un processo che man mano renda acquisito anche ai ciesi o chi per loro il concetto che il lavoro minorile è da aborrire. Comunque scusa ma la comunicazione scritta non mi facilita la discussione e quindi sono poco chiaro. 

Luzo48 da quello che sono riuscito a capire siamo un pò tutti d'accordo sul fatto che ci devono essere dei limiti alle modalità di lavoro tenendo comunque conto del contesto territoriale/culturale e quindi non sarebbe a mio parere instaurare un minimo di regole che limitino gli eccessi, in ogni caso anche le regole senza controllo ed efficacie applicazione delle sanzioni non servono comunque a niente (come l'Italia insegna).

I miei commenti volevano anche semplicemente evidenziare che il nostro stile di vita forse va meglio capito e che non ci rendiamo conto che forse dovremo iniziare a dare un più idoneo valore alle cose e al denaro, anche perchè non riusciamo ad insegnarlo ai nostri figli.

cordialità

P.S. anche io ho serie difficoltà ad esprimermi in modalità scritta

Dico la mia...

Diritti umani. Come diceva Bentham: non-sense upon stills. Ovvero, inutile predicare l'esistenza di alcuni diritti fondamentali che si dovrebbero tutelare costi quel che costi, farlo significa ignorare la genesi storica della loro proclamazione e l'origine giusnaturalistica dalla quale sono derivati. Le due cose dovrebbero farci sospettare delle sempre più dettagliate tavole delle leggi che si vanno compilando. Per inciso, nelle ultime che ho visto in circolazione rientra il diritto umano al "gioco" e quello alla "sessualità"...tutte cose molto impegnative, specie, immagino, a una certa età e in certi paesi del mondo. Personalmente ritengo che solo alcuni diritti sono veramente umani, ma non perché sia possibile desumerli dalle supposte caratteristiche universali dell'uomo, piuttosto perché sono condizioni che se garantite, rendono possibile esperire libertà che sono accessorie rispetto a quelle fondamentali. Per quanto riguarda questo post, e dunque la rilevanza dei cosiddetti diritti sociali, ecco penso che siano proprio quelli più labili da difendere. Quindi direi diritti umani fondamentali ok (libertà di parola, di opinione e di associazione e via con diritti negativi classici) quanto ai diritti sociali è preferibile appunto guardare alle condizioni sociali nelle quali  ci si trova. C'è poco costrutto a chiedere che i figli dei Nuer vadano a scuola invece che a cacciare antilopi; o che il bambino del Laos debba avere lo stesso tempo del gioco riservato ai bambini in Italia: vivono in situazioni così diverse che è lo stesso bambino, e i genitori, che chiederebbero di poter lavorare, anche perché alle volte l'alternativa al lavoro non è la scuola con la bandiera del paese a fianco alla cattedra, ma fame e malattie. Purtroppo spiace, ma è così, e la cosa riguarda tutti noi: per esempio mia nonna sono sicuro che era troppo vecchia per avere un inconscio e dunque parlarle di un benessere psicologico da contrapporre alla mietitura sarebbe stata una forzatura e l'alternativa alle messi non era un consultorio nel quale discutere della sua femminilità ma l'assenza di farina e di pane. Con questo non voglio assolutamente sposare discutibili forme di relativismo. Ripeto: il relativismo c'è in merito ai diritti sociali, su quelli fondamentali non si discute. Che un uomo debba lavorare solo 8 ore a settimana con 30 giorni di ferie l'anno è relativo; che non debba essere imprigionato a capriccio di un potente è un principio sacrosanto. 

Imporre i nostri valori ad altri. Premetto una cosa. I discorsi che sento sulla Cina o altri paesi asiatici li trovo eccessivi. Fra India e Cina, sceglierei la prima in quanto formalmente è una democrazia, ma anche in Cina le libertà prendono piede (l'ultimo Economist aveva proprio questa cover story) . E' una dittatura e su questo non ci piove, ma la popolazione cinese mostra di gradire parecchio questo mix di ascesa economica e consumi possibile con il dirigismo in stile sovietico. Come modello politico non direi che la Cina sia esattamente la terra della libertà, però moltissime persone grazie alle politiche intraprese sono uscite davvero dalla povertà...si dice un numero mai visto prima nella storia. Evidentemente proprio la dimensione sociale pare essere storia di successo, almeno a giudicare degli effetti delle scelte prese, per questa ragione aspetterei un po' prima di ammannire ai cinesi le nostre politiche sociali: sembra che stiano facendo bene anche senza i nostri consigli. Diverso il caso degli altri tipi di diritti quelli negativi puri, rispetto ai quali gradirei che ci fosse più insistenza da parte delle cancellerie occidentali. Siccome però non viviamo nel migliore dei mondi possibili, e anche in considerazione delle ricadute che certe rivendicazioni di principio potrebbero avere nella dura vita pratica, conviene ispirarsi ad una salutare prudenza: la proclamazione di un principio per quanto nobile non esonera dalla valutazione degli effetti prevedibili di certe scelte. 

Ps: alle volte leggo cose assai strane. Dunque: non bisognerebbe fare guerre e se le si fa sulla scorta di principi aulici, tutto puzza di benzina e petrolio, per cui meglio sarebbe astenersi da falsi umanitarismi. Irak, Afghanistan e Kossovo, ci dicono i realisti specie di sinistra, erano solo guerre per il petrolio e i diritti umani erano la foglia di fico delle peggiori nefandezze imperialiste. Gino Strada, Giulietto Chiesa, e gli altri pensatori della sinistra nostrana irridono al falso umanitarismo che talvolta si mostrerebbe nelle parole degli imperialisti: ci spiegano giustamente che la storia non è un pranzo di gala, che i diritti umani sono solo relativi, che non abbiamo nessun diritto a imporre le libertà tipiche del mondo libero e così via. Quando però si parla di diritti sociali, come nel caso dei lavoratori cinesi, eccoli diventare assertivi: i diritti umani fondamentali esistono eccome e bisogna smetterla di tergiversare o di far fare affari al Sistema Integrato delle Multinazionali (come dicevano le BR) delle quali i governi non sono che comitati d'affari. Secondo me questi strabismi non aiutano molto, come non aiuta, in generale, la posizione di quanti si facciano guidare nella loro condotta da principi generalissimi, e meritevoli di chiarificazione, come i diritti umani, dei quali c'è tutta una retorica.

 

Sistema Integrato delle Multinazionali (come dicevano le BR)

Sei giovane... il SIM era lo Stato Imperialista delle Multinazionali

 

Secondo me questi strabismi non aiutano molto, come non aiuta, in generale, la posizione di quanti si facciano guidare nella loro condotta da principi generalissimi, e meritevoli di chiarificazione, come i diritti umani, dei quali c'è tutta una retorica.

 

A volte il gioco e' abbastanza scoperto: per esempio, in questa lettera a FT un lettore invita al boicottaggio economico della Cina inviando cola' sindacalisti. Che deve essere una strategia rimarchevolmente efficiente, vista la situazione dell'Italia...

Per quanto riguarda questo post, e dunque la rilevanza dei cosiddetti diritti sociali, ecco penso che siano proprio quelli più labili da difendere. Quindi direi diritti umani fondamentali ok (libertà di parola, di opinione e di associazione e via con diritti negativi classici) quanto ai diritti sociali è preferibile appunto guardare alle condizioni sociali nelle quali  ci si trova. [...] il relativismo c'è in merito ai diritti sociali, su quelli fondamentali non si discute.


Ci credi davvero? L'uomo ha vissuto per migliaia di anni senza sentire il bisogno di rivendicare diritti di libertà individuale, tranne che negli ultimi tre secoli. Quelli che chiami diritti umani fondamentali sono diventati tali solo dopo che la borghesia liberale li ha chiamati così. Sono teorizzazioni che nascono da un'ideologia (sarei tentato di dire sovrastruttura) ed era lo strumento che legittimava le rivendicazioni della nuova classe. Un potere che non trovava giustificazione nella tradizione, come per i nobili e l'aristocrazia, nè nel divino, come per il clero.

 

"Ma, obiettano alcuni scettici, perché non è possibile usare una parte dei guadagni collettivi derivanti dalla globalizzazione per fare stare (un po') meglio i lavoratori nei paesi in via di sviluppo, almeno per evitare queste odiose scelte fra alternative pessime? Non sarebbe meglio pagare le magliette a un euro in più e far lavorare Zheng un'ora in meno e far studiare Gautam un anno in più? Ovviamente nessuno vieta a Mario di staccare un assegno verso Zheng  per permettergli di fare vacanza la domenica. Ma possiamo farlo in modo collettivo? Certo che sì, basta dire al capo del governo che lo rieleggiamo se, calcolati i guadagni collettivi derivanti dalla rilocalizzazione della Fiat in Serbia, una parte la devolviamo a riqualificare i poveri torinesi perché imparino a fare gli idraulici e gli infermieri, e il resto lo spendiamo in un'assicurazione per gli infortuni sul lavoro dei lavoratori serbi."

 

Se una multinazionale come Nike va a produrre in Indonesia e riduce quindi drasticamente i propri costi (diciamo che su un paio di scarpe da 100$, 1$ dollaro viene speso in Indonesia) allora dovrebbe aumentare drasticamente i propri profitti (Nike lo ha proprio fatto). Ecco una nuova fonte che potrebbe essere usata in parte per migliorare le condizioni di vita senza puntare tutto su Mario e sul governo. Come? forse con una trattativa tra multinazionale e paese ospitante in modo da prendere in considerazione al massimo le necessità di sviluppo di quel paese. 

 

"avrà pur diritto una stato democratico, come, per esempio, l'India, di decidere se i propri cittadini possano lavorare a 12 piuttosto che a 16 anni. Pensare di imporre i nostri standards a un paese democratico in via di sviluppo mi pare una nuova pericolosa forma di colonialismo culturale."

 

Senza imporre alcuno standard occidentale, siamo sicuri che la democrazia indiana sia un valido aggregatore delle preferenze individuali? Come rilevi tu stesso fortunatamente le persone con l'aumentare della ricchezza si organizzano pretendendo dei diritti. Allora mi chiedo, quale può essere il rapporto costi benefici di una politica di miglioramento marginale dei diritti magari finanziata come proposto al punto precedente? (senza stravolgere il costo per l'azienda è sicuramente possibile incrementare il capitale umano, magari per esempio promuovendo il sapere in campo di igiene/prevenzione).

Mi permetto infine di consigliare il seguente libro (http://www.apogeonline.com/libri/9788850324842/scheda) per una bella lettura estiva. E' scritto da una prof di economia che ha scosso la testa di fronte ai suoi studenti no global (seattle se non ricordo male). Ci sono diverse belle recensioni su internet.

 

 

forse con una trattativa tra multinazionale e paese ospitante

Certo, il problema che sollevavo nel post era la "concorrenza" fra possibili paesi ospitanti. 

siamo sicuri che la democrazia indiana sia un valido aggregatore delle preferenze individuali

Valido per chi? Dobbiamo deciderlo assieme cosa sia valido, sempre che vogliamo fare qualcosa... suggerivo solo che sia più valido della dittatura cinese.