L'argomento in questione, dopo aver snocciolato i fatti di cui sopra, continua così: quindi la globalizzazione non solo comporta dei costi di rilocalizzazione delle risorse (il lavoratore Fiat che deve imparare a fare l'idraulico) ma i suoi vantaggi collettivi vengono conseguiti a scapito dello "sfruttamento" di lavoratori residenti altrove. Questo è un punto interessante, e ritengo che una buona dose di dibattito pubblico dovrebbe concentrarsi sulla discussione di queste tematiche.
La premessa di chi solleva il problema dei diritti umani (il termine è un po' esagerato, ma così si capisce meglio) è: "se è possibile, nel XXI secolo garantire certi diritti qui in Italia, perché non è possibile altrove?" Sessant'anni fa i diritti del lavoratore, le condizioni di lavoro, e così via erano poco, o meno, rispettati, anche qui da noi. Ma oggi la frontiera tecnologica permette a una parte dell'umanità il lusso di lavorare per 40 anni in un arco vitale di 80, a 40 ore circa la settimana, in condizioni ritenute accettabili secondo la nostra personale definizione occidentale di accettabilità. Perché non deve essere così altrove?
Il vizio evidente di questa argomentazione è che si possano facilmente replicare nei paesi in via di sviluppo le condizioni tecnologiche, sociali, istituzionali dei paesi industrializzati. Che questo non sia possibile mi pare evidente, altrimenti il nostro pianeta si chiamerebbe Svezia, o USA, o Canada, a seconda delle preferenze. Ma se non siete convinti, provate a copiare la ricetta del piatto preferito fatto da vostra mamma: nel 90% dei casi non è altrettanto buono. La tecnologia non è esportabile istantaneamente, e lo sono ancora meno le istituzioni e le società efficienti (date un'occhiata al dibattito sulla riforma della legge elettorale in Italia degli ultimi 25 anni, o a quello sulla questione meridionale). La ragione, alla fine, è banale: perché l'indonesiano medio possa lavorare e consumare come il lombardo medio è necessario che egli possieda lo stesso capitale umano (non solo un titolo di studio, ma conoscenze effettive), che gli impianti dove va a lavorare siano gli stessi, che i trasporti e i servizi pubblici pure lo siano, eccetera, eccetera, eccetera. Tutto questo si può fare? Certo! Ma chiedetevi: quanti decenni ha impiegato l'Italia a costruirle queste cose (che anche il capitale umano si "costruisce", piaccia o meno il termine)? Bene, perché mai ciò che in Italia o Francia ha tardato moltissimi decenni dovrebbe compiersi in pochi anni in Indonesia, Messico o Cina?
L'argomento più sottile è che si possa aumentare i diritti umani altrove in modo incrementale. E non è detto che questo non stia succedendo: i diritti umani sono un bene costoso, che si può "acquistare" crescendo economicamente. Lo abbiamo fatto anche noi, dopo tutto, e incrementalmente. Ci possiamo permettere di lavorare solo 8 ore al giorno e fare un mese di ferie perché quando lavoriamo siamo molto produttivi. In altri luoghi del globo invece i genitori di un bambino di 12 anni devono scegliere fra patire la fame o mandarlo a produrre scarpe per una multinazionale. La prima banale osservazione è che questa brutta alternativa permette pur sempre la scelta fra una condizione di vita marginalmente migliore e una peggiore, possibilità che verrebbe negata se questa scelta non ci fosse.
Ma, obiettano alcuni scettici, perché non è possibile usare una parte dei guadagni collettivi derivanti dalla globalizzazione per fare stare (un po') meglio i lavoratori nei paesi in via di sviluppo, almeno per evitare queste odiose scelte fra alternative pessime? Non sarebbe meglio pagare le magliette a un euro in più e far lavorare Zheng un'ora in meno e far studiare Gautam un anno in più? Ovviamente nessuno vieta a Mario di staccare un assegno verso Zheng per permettergli di fare vacanza la domenica. Ma possiamo farlo in modo collettivo? Certo che sì, basta dire al capo del governo che lo rieleggiamo se, calcolati i guadagni collettivi derivanti dalla rilocalizzazione della Fiat in Serbia, una parte la devolviamo a riqualificare i poveri torinesi perché imparino a fare gli idraulici e gli infermieri, e il resto lo spendiamo in un'assicurazione per gli infortuni sul lavoro dei lavoratori serbi.
Battute a parte (ma non tanto, queste cose si sono fatte e si fanno con donazioni individuali e prestiti/aiuti governativi) il tema non è semplice perché si tratta di imporre a un'altra nazione il rispetto di standards che noi stessi non garantivamo fino a pochi decenni fa (e la cui assenza ha aiutato la nostra crescita, cosa da non dimenticare). Perché ogni azione su questo fronte richiede un coordinamento politico internazionale. Perché la questione va trattata diversamente nei confronti di regimi democratici e autoritari: avrà pur diritto una stato democratico, come, per esempio, l'India, di decidere se i propri cittadini possano lavorare a 12 piuttosto che a 16 anni. Pensare di imporre i nostri standards a un paese democratico in via di sviluppo mi pare una nuova pericolosa forma di colonialismo culturale.
Mi preoccupa di più il caso del regime autoritario che impone ai propri cittadini di vivere in condizioni di semi-schiavitù (o a una parte di essi, come nel caso dell'apartheid sudafricano). Che possiamo fare per il lavoratore cinese costretto a lavorare 70 ore la settimana? Proteggere questo lavoratore (ammesso fosse possibile) significa non solo cercare di capire quali preferenze abbia nell'allocazione delle proprie risorse fra consumo e tempo libero, ma anche capire come il suo benessere vada valutato nei confronti del benessere di suo figlio, che certamente beneficierà (in termini di reddito, diritti umani, tempo libero) del lavoro del padre. E poi, come gli episodi dei mesi recenti provano, persino in dittature come la Cina dopo un po' i lavoratori si organizzano e chiedono, e ottengono, sostanziali aumenti salariali. Ed anche questo fa riflettere.
Colgo infine l'occasione per ribadire un altro punto spesso poco chiaro quando si parla di globalizzazione e sfuttamento del lavoro: le dannate "multinazionali" che sfruttano i poveri esistono davvero, e possono sfruttare i lavoratori perché operano in condizioni di sostanziale monopsonio sui mercati del lavoro locali. Il problema dunque, ancora una volta, non è tanto dovuto al "mercato" in quanto tale, ma all'assenza di un mercato concorrenziale a livello internazionale e di una protezione antitrust che agisca globalmente. In questi casi, non vedo altra soluzione che un coordinamento globale di politiche del lavoro che metta alcuni chiari paletti nel rispetto delle scelte di politica sociale locali.
Si noti inoltre che anche senza l'intervento dei governi nazionali e sovranazionali, i mercati (tanto bistrattati oggigiorno) funzionano piuttosto bene come aggregatori delle preferenze individuali. Quando la spocchiosa middle class americana si è accorta che certe compagnie producevano scarpe e magliette sfruttando il lavoro minorile altrove, la mobilitazione generale dell'opinione pubblica ha fatto sì che queste compagnie riorganizzassero le proprie modalità di produzione, anche con l'istituzione certificazioni e marchi "no child labor". Il tutto, aggiungo, magari a scapito del benessere dei poveri bambini pakistani (e delle loro famiglie), ma certamente a vantaggio della coscienza del consumatore middle-class occidentale.
Come detto, mi piacerebbe che il dibattito si soffermasse su questi aspetti, oltre che sulla protezione dei consumi e la riqualificazione dei lavoratori dislocati nel nostro paese. Ma per farlo in modo produttivo, va chiarito il punto fondamentale: la mobilità delle risorse produttive è un bene, per la collettività, e questo il post di Alberto lo spiega chiaramente.
Multinazionali che delocalizzano in pakistan penso che riescano a rendere profittevole il basso costo della mano d'opera senza dover cadere nello sfruttamento, poi che si lavori in una età un pò più bassa è anche normale visto anche che mediamente hanno una aspettativa di vita molto più bassa.
E' comunque corretto iniziare a pensare che il nostro stile di vita non sia un riferimento per decidere a che età e quanto ore debbano lavorare gli altri, anche le modalità di sicurezza che sono non poco importanti sono relative a quanto sopravvivi non lavorando (es. non avendo risorse anche per pagarti le cure mediche).
Per quanto riguarda anche il benessere delle famiglie pakistane penso che se i genitori lavorassero e fossero meglio pagati magari si potrebbero anche permettere di dare maggiore cultura ai propri figli portandoli a lavorare ad una età più accettabile.
Soluzioni o regole equilibrate (la via di mezzo sembra ormai che sia quella più difficile da raggiungere) secondo me non fanno male, anche nel regolare il mercato internazionale (è possibile pensare di essere liberisti e fare tali affermazioni?).
Io ormai vedo anche un maggiore squilibrio tra i soldi che le aziende investono per il marketing rispetto a quelli spesi per la qualità , i miei post nel precedente articolo a riguardo delle Nike erano infatti indirizzati non alla azienda che li produce che può fare quello che vuole (quello che vogliamo noi cmq.), ma a noi che ormai pensiamo più alla forma che alla sostanza.
E' certamente possibile, l'idea che liberismo equivalga ad assenza di regole e' dura da smontare, ma ci stiamo provando.