Al 31 Gennaio 2007, le società
italiane quotate su Borsa Italiana sono 276, con un rapporto
capitalizzazione/GDP pari al 53%. In termini di composizione settoriale del
listino, i titoli industriali rappresentano circa il 28% della capitalizzazione
totale, i servizi il 24%, i titoli finanziari il 46%; il rimanente 2% riguarda
il mercato dei titoli tecnologici (MTAX) e quello riservato ad imprese di
piccole dimensioni con procedure di quotazione meno onerose (EXPANDI).
Per un confronto internazionale sulle
dimensioni dei mercati borsistici, nel 2005 l'Italia era
fanalino di coda insieme alla Germania.
Oltre ad indicare differenze
strutturali nei sistemi di finanziamento delle imprese e nello sviluppo dei
mercati, il rapporto capitalizzazione di borsa/GDP rivela, seppur in modo
indiretto, il peso relativo dell’universo delle imprese non quotate in Italia.
Concentrandosi proprio sulle non
quotate, è interessante quindi chiedersi quali sono gli assetti proprietari e
di controllo di queste imprese, se e come sono cambiati negli ultimi anni e,
per quanto possibile, confrontarli con quelli di altri paesi.
Prima di entrare nei dettagli di
governance però, può essere utile dare un’idea, per quanto veloce e molto
generale, della struttura del sistema produttivo italiano.
Innanzitutto, il peso relativo
dei vari settori di attività è molto simile a quello di altri paesi OECD:
Ci sono somiglianze anche per
quanto riguarda la dinamica delle imprese nei primi anni di vita: nei paesi
OECD, il tasso di natalità e mortalità delle imprese private non agricole è
intorno al 10%, il tasso di sopravvivenza a cinque anni dalla nascita è intorno
al 50% e l’Italia è vicina a queste medie; inoltre, così come in Europa
continentale, anche in Italia l’incremento medio di occupati a due anni dalla
nascita è circa il 25% (si noti che negli Stati Uniti è circa il doppio).
Emergono invece delle differenze
nel lungo periodo: le nostre imprese si "staccano" e, in tutti i
settori, rimangono sottodimensionate rispetto alla media europea. Il grafico
seguente, ad esempio, si riferisce al settore manifatturiero e mostra
chiaramente l’importanza relativa delle piccole e medie imprese in Italia.
Il "ruolo" particolare delle piccole e medie
imprese è confermato dai più recenti dati ISTAT: nel 2003 si contano circa 4.2
milioni di imprese e la media di addetti per impresa è 3.8 (in calo rispetto ai
4.5 del 1991). La distribuzione delle imprese per settore e per classe di addetti
rivela che la maggior parte delle "partite IVA", imprese con il solo
imprenditore, sono nel settore dei servizi e checirca il 95% del totale delle imprese non supera i 10 addetti.
Nell’industria, gli addetti sono
distribuiti in modo uniforme tra le varie classi dimensionali, a parte la
classe 10-19 che "scompare" probabilmente per effetto dell’articolo
18, e circa la metà degli addetti sono impiegati in imprese con meno di 10:
Venendo alla governance delle
imprese italiane, un’interessante visione d’insieme si trova in recente paper
di Marcello Bianchi e Magda Bianco (Novembre 2006), che sintetizza ed aggiorna
l’analisi del volume di Bianchi et al., 2005, "Proprietà e controllo
delle imprese in Italia. Alle radici delle difficoltà competitive della nostra
industria", Il Mulino. Questi lavori riguardano sia le imprese quotate
che non. Come anticipato, ci concentriamo per ora sulle non quotate (un pezzo
sulle quotate è gia in "stampa" per NfA).
L’analisi di Bianchi e coautori
si basa sulle indagini campionarie condotte dalla Banca d’Italia. Per dare
un’idea, la più recente si riferisce al 2005 e interessa un campione di circa
4400 imprese con almeno 20 dipendenti, il 25% delle quali imprese di servizi
non finanziari (commercio, alberghi, ristoranti, trasporti, informatica,...) e
le rimanenti imprese industriali in senso stretto (alimentari, tessili,
chimiche, metalmeccaniche, energetiche,...). Come evidenziato nel grafico
sopra, i dati sugli assetti proprietari e di controllo sono disponibili solo
per le imprese industriali con più di 50 addetti: nel campione del 2005, ad
esempio, ce ne sono circa 2000 e solo l’1.5% di queste è quotato.
In termini di concentrazione
proprietaria, la quota media del primo azionista è pari al 67%, la quota media
dei primi tre azionisti è il 92%, il numero mediano di azionisti è 3. La
concentrazione è quindi elevatissima e per giunta molto stabile: rispetto al
1993, anno in cui fu svolta un’indagine analoga, le cifre sono pressochè
invariate. Si nota inoltre una correlazione positiva, apparentemente
controintuitiva, tra concentrazione proprietaria nell’impresa non quotata e
dimensione dell’impresa: questa riflette la correlazione positiva che esiste
tra dimensione e appartenenza a strutture di gruppo, dove solitamente è
un’altra società non finanziaria oppure una holding a detenere la quasi
totalità del capitale (la quota media del primo azionista in imprese non
quotate appartenenti ad un gruppo sale infatti all’84%).
I dati internazionali sulle
imprese non quotate sono molto pochi. Bianchi e coautori ne citano alcuni e da
questi emerge che anche in altri paesi la concentrazione proprietaria nelle
imprese non quotate è altissima, assolutamente in linea con quella che si
registra in Italia. Un’interessante conferma viene da una recente analisi di
Claessens e Tzioumis (2006): usando un campione di circa 12.000 imprese europee
(non quotate nel 2003 e con un fatturato annuo superiore ai 50 milioni di
dollari) emerge che la percentuale di imprese con un azionista proprietario di
più della metà del capitale è pari all’80% in UK, all’81% in Italia, all’84% in
Germania, all’85% in Spagna e al 95% in Francia.
Tornando all’Italia, in termini di
tipologie di controllanti, nel 2005 così come nel 1993, questi sono persone
fisiche nel 51% dei casi. Pesando i dati per il numero di addetti, il ruolo
delle persone fisiche diminuisce e aumenta quello delle holding e delle imprese
straniere. I dettagli sono riportati nella tabella seguente tratta da Bianchi e Bianco (2006).
1993 | 2005 | |||
valori ponderati | valori ponderati | |||
Persona fisica | 50.9 | 26.5 | 51.0 | 32.9 |
Società straniera | 7.8 | 14.9 | 12.3 | 21.0 |
Stato | 6.9 | 15.5 | 0.7 | 1.9 |
Holding o sub-holding | 20.8 | 32.4 | 24.6 | 34.4 |
Non finanziaria | 13.6 | 10.6 | 9.0 | 8.1 |
Banca, assicurazione | 0 | 0 | 0.01 | 0.01 |
Altra finanziaria | 0 | 0 | 2.0 | 1.7 |
100% | 100% | 100% | 100% |
Il vero elemento di novità
rispetto al 1993 è la drastica riduzione delle partecipazioni statali e la
maggiore presenza di società straniere, con il legittimo sospetto, però, che si tratti
per lo più di arbitraggio fiscale e regolamentare "made in Italy" e
non di vere e proprie iniziative imprenditoriali straniere. Si osserva anche un
lieve incremento del ruolo delle finanziarie non bancarie: in particolare,
aumentano i volumi investiti dai fondi di private equity (100 milioni di euro
nel 1994, 3 miliardi nel 2003) ma la loro diffusione rimane ancora assai
limitata (nel campione del 2005 sono presenti solo in 6 imprese), così come è
limitata sia in Francia che in Germania mentre è molto maggiore in UK, Olanda e
Spagna, per tacere degli Stati Uniti dove la dimensione del mercato è doppia
rispetto all’Europa intera.
Infine, in termini di strumenti di esercizio del
controllo, il principale rimane la concentrazione proprietaria: nel 61% dei
casi, le imprese sono controllate con la maggioranza assoluta del capitale. Rispetto al 1993, si nota una lieve riduzione delle
strutture piramidali: come noto, queste consentono alla capogruppo di detenere
il controllo delle società del gruppo riducendo allo stesso tempo il capitale
impiegato; nel caso delle società non quotate, comunque, le piramidi sembrano
essere una modalità organizzativa dell’attività di gruppo (con una
concentrazione proprietaria, come sottolineato sopra, elevatissima a tutti i
livelli della struttura) più che uno strumento di separazione tra proprietà e
controllo (come avviene nei gruppi di società quotate, dove l’impegno
finanziario della capogruppo è concentrato in cima per diminuire man mano che
si scende verso la base della piramide). Il controllo, garantito essenzialmente
dalla maggioranza del capitale, viene spesso rafforzato e stabilizzato attraverso
clausole statutarie che impongono stringenti vincoli all’alienabilità delle
partecipazioni (il 46% delle imprese in campione ne fa uso) e da patti di
coalizione tra azionisti (disciplinati dalla riforma del diritto societario del
2004 e presenti nel 10% dei casi).
In termini di allocazione del controllo, circa il 3% delle
imprese manifatturiere italiane trasferisce il controllo ogni anno. Circa la
metà di questi trasferimenti avviene all’interno della famiglia e per
"sopraggiunti limiti di età" del controllante: proprio nei prossimi
anni si prevede un’ondata di trasferimenti dato che, tra le imprese famigliari,
il 41% è ancora controllato dal fondatore e l’età media del controllante è 61
anni. Le cessioni a soggetti esterni alla famiglia sono per lo più dovute a
difficoltà economiche e finanziarie e avvengono soprattutto nei primi anni di
vita dell’impresa; in quasi tutti questi casi, però, il trasferimento avviene
attraverso contatti personali ed il nuovo controllante non è affatto nuovo
"di casa".
È chiaro che il modello di proprietà concentrata,
controllo diretto e famigliare può essere efficace nelle prime fasi di vita
dell'impresa ma può diventare limitante nelle fasi successive, quando
l'autofinanziamento ed il debito non sono più sufficienti a sostenere lo
sviluppo tecnologico e dimensionale o quando i discendenti non hanno spiccate
capacità imprenditoriali. Stupisce infatti che, rispetto ad altri paesi con i
quali pure ci sono somiglianze in termini di dinamica dei primi anni di vita e
di concentrazione proprietaria, così poche imprese non quotate italiane arrivino
all’IPO e che in quel caso siano, per fare un esempio, mediamente otto volte
più grandi e sei volte più vecchie delle corrispondenti imprese statunitensi (Pagano
et. al. (1998)).
In conclusione, le società non quotate italiane sono
caratterizzate da una forte chiusura e staticità degli assetti proprietari e di
controllo e le loro dinamiche di finanziamento e crescita ne sono il riflesso;
l’attività legislativa degli ultimi anni, dal Testo Unico della Finanza del
1998 alla Legge sul Risparmio del 2005, non sembra aver indotto mutamenti
sostanziali. Questa breve rassegna non ha certo pretese di completezza ma spero
sia sufficiente a delineare le principali caratteristiche della governance
delle società non quotate e soprattutto a stimolare su NfA un dibattito, che sembra
assolutamente necessario, sulle questioni di politica economica connesse.
Articolo interessante e ben fatto.
Non credo che la governance di un impresa che ha solo tre soci sia difficile. Sono direttamente informati, si conoscono e si possono riunire per decidere direttamente che cosa fare. Tra l'altro sono in numero dispari e questo evita situazioni di stallo :-) . (Ben altra e' la situazione di un'azienda quotata e con migliaia di soci nessuno dei quali maggioritario, nessuno dei quali segue direttamente le cose, che sono lasciate in mano al management. Qui si che si pone un problema di governance).
Piuttosto, il piccolo numero di impiegati e di soci (in parte voluto per aggirare scomode leggi e pesanti imposte) crea due problemi:
(1) Pochi soldi per gli investimenti
(2) L'azienda e' spesso a conduzione familiare, fa carriera chi fa parte della famiglia. Non si crea una classe di managers che operano su basi professionali meritocratiche e che si specializzano nell "amministrazione degli affari". In un'azienda di 10 persone, le decisioni possono essere prese molto sbrigativamente e in base al fiuto.
Grazie.
Concordo: la tutela giuridica dei soci di queste (tante)
imprese non è certo problematica. Proprio come osservi, il vero problema è rappresentato dalle
inefficienze allocative e se queste, anzichè scoraggiate, vengono incentivate
dal sistema attuale. Come cambiarebbero le scelte reali e finanziarie di queste
imprese se la tassazione/evasione fosse molto più contenuta, la legislazione
sui rapporti di lavoro meno asfissiante, la concorrenza più effettiva, la legalità ed il
sistema giudiziario più...? In effetti, sarebbe molto interessante, anche se non
semplice, provare a calcolare gli effetti della rimozione, singolarmente e
congiuntamente, di queste distorsioni.
Rimanendo per ora nell'ambito delle congetture, è probabile
che la concentrazione proprietaria resterebbe molto elevata esattamente come
negli altri paesi sviluppati, la struttura famigliare diffusa, la scelta
"culturale" di produzioni "italiane" frequente. Ma è
altrettanto probabile che vi sarebbe una riallocazione più rapida delle capacità
imprenditoriali, che molte imprese adeguerebbero la scala produttiva
incrementando il numero di addetti ed effettuando maggiori investimenti e a
maggiore intensità tecnologica, che i flussi in ingresso e in uscita dai vari
settori cambierebbero, che i tempi medi per l'IPO sarebbero più brevi e ben
maggiore il numero di imprese quotate.