I due autori del libro sono due economisti francesi (Augustin Landier e David
Thesmar), giovani e molto bravi, la cui ricerca è tra le più interessanti nel campo della corporate finance. Ma il libro non parla della loro ricerca. Cerca
piuttosto di spiegare come mai in Francia parole come mercato, concorrenza,
finanza siano considerate con scarsa simpatia, al limite dell’ostilità. Nei
sondaggi della World Value Survey,
l’affermazione “la concorrenza stimola gli aspetti peggiori dell’uomo” ha avuto
un’approvazione da parte dei francesi che è passata dal 20% al 30% nel corso
degli anni ’90, mettendo la Francia al quarto posto tra i 60 Paesi in cui il
sondaggio è stato somministrato (dopo Cile, Belgio e Estonia). Solo il 36% dei
francesi pensa che l’economia di mercato e la libera iniziativa impresa siano
il miglior sistema economico possibile, contro il 71% degli americani e il 66%
dei britannici. Le scelte dei governi francesi, di difesa dei campioni
nazionali contro le scalate di imprese straniere riflettono questo desiderio di
bloccare il funzionamento del libero mercato. Ma da dove viene questa ostilità
dei francesi verso il mercato e la concorrenza? Il libro fornisce due tipi di
risposta, uno che viene dalla storia della Francia e l’altro che si basa sugli
incentivi.
Iniziamo da quello storico. La parte centrale del libro (dimenticavo: purtroppo non
è stato tradotto e se volete leggerlo dovete conoscere il francese) ripercorre
brevemente la storia economica francese, in particolare quella del ‘900. La
tesi forse più sorprendente è che all’inizio del secolo scorso e fino alla
seconda guerra mondiale in Francia non vi era ostilità al mercato. Anzi, vi era
una generale avversione verso l’intervento pubblico in economia. I piccoli
proprietari terrieri e i grandi gruppi industriali chiedevano solo una bassa
tassazione e una politica monetaria stabile. Gli investimenti in infrastrutture
da parte dello Stato erano scarsi e anche i salvataggi di imprese in difficoltà
erano di carattere eccezionale. Un sistema economico quasi liberale, dunque,
dicono gli autori. Quasi perchè mancava in Francia una dimensione essenziale:
la concorrenza. Un sistema industriale basato sui grandi gruppi e un settore
agricolo molto frammentato chiedevano una sola cosa: protezione dalla
concorrenza esterna. E i governi erano pronti ad esaudire tale richiesta. La
bruciante sconfitta nella seconda guerra mondiale (perchè di sconfitta si
tratta per la Francia: ricordate Hitler a Parigi?) mette in crisi il modello
economico francese. Posto di fronte alla scelta tra il completamento di un
sistema economico veramente liberale, cioè liberando la concorrenza nei
mercati, e l’abbandono di un sistema di scarso intervento statale
nell’economia, De Gaulle non ha esitazioni e sceglie la seconda strada. Viene
introdotta un’autorità per la pianificazione economica anche per mostrare agli
Stati Uniti, i cui prestiti erano fondamentali per l’economia francese, un
disegno credibile di ricostruzione. Nelle intenzioni di De Gaulle questa
centralizzazione delle decisioni economiche dovrebbe essere solo temporanea,
limitata all’emergenza del dopoguerra. Ma le cose non vanno come auspicato dal
Generale per due ragioni. La prima è che la Francia vive quasi trenta anni di
prosperità economica, con tassi di crescita molto elevati. La seconda è che
l’alta burocrazia francese, una volta ottenute le chiavi del potere economico,
non ha alcuna intenzione di privarsene. Nella memoria dei francesi il lungo
periodo di prosperità (i francesi usano l’espressione “les Trente Glorieuses” per indicare il periodo 1945-1975) viene
legato al dirigismo economico. Prova ne è che la reazione della società
francese alla crisi economica della fine degli anni ’70 è l’elezione di
Mitterand, il cui programma prevedeva la nazionalizzazione delle banche e dei
principali gruppi industriali. L’avversione al mercato dei francesi sarebbe
dunque un “regalo avvelenato” (un cadeau
empoisonné) dei 30 anni di gloria del dirigismo economico.
La seconda spiegazione si basa invece su aspetti più legati all’attualità.
La chiave interpretativa individuata dagli autori si basa sul sistema pensionistico
francese che è basato sul sistema del pay
as you go, cioè in cui i giovani pagano le pensioni dei vecchi. La crisi di
tale sistema crea una forte incertezza nelle generazioni più giovani -che sono
oggi attive nel mercato del lavoro- riguardo i loro redditi futuri. Dovendo già
fronteggiare questo tipo di incertezza, i lavoratori francesi preferiscono
investire la loro ricchezza in attività a basso rischio (la febbre del mattone
è forte anche in Francia). Pochi francesi investono in azioni e, come
risultato, le grandi imprese francesi si finanziano in modo significativo nei
mercati finanziari internazionali. Gli obiettivi di famiglie e imprese sono
quindi divaricati: alle famiglie interessa più la stabilità delle imprese che
la loro crescita. Di fronte a OPA di imprese straniere la reazione dei francesi
è quella di pensare che esse andranno a beneficiare gli azionisti stranieri e a
danneggiare i lavoratori francesi. I governi francesi, sensibili ai desideri
dell’elettorato si adeguano e difendono i campioni nazionali da “attacchi”
esterni.
Quali soluzioni propongono gli autori per uscire da questa impasse? La loro
ricetta è quella di un passaggio ad un sistema pensionistico a capitalizzazione,
associato alla creazione di fondi pensione che dovrebbero investire i soldi dei
lavoratori (anche) in azioni francesi. In questo modo i lavoratori
diventerebbero anche piccoli azionisti e sarebbero più in linea con gli
obiettivi delle imprese. Si tratta, in altre parole, di creare una ownership society, sulle orme
dell’esperienza thathceriana.
Il libro ci fornisce una chiave interpretativa per le prossime elezioni
presidenziali francesi. (Almeno) uno dei due autori è consulente di Sarkozy. La
scommessa di Sarkozy, come mostra anche il suo recente incontro con Blair, è
quella di indicare nella Gran Bretagna un modello da seguire anche per i
francesi. Un’economia più liberale, più orientata al mercato, meno dirigista,
come invocato nel libro. Una scommessa rischiosa, che può regalare alcuni
elettori di moderati al Front National. Da parte di Ségolène c’è invece una
maggiore ambiguità sui temi economici, probabilmente una certa cautela a staccarsi dal modello
economico francese attuale. A maggio vedremo chi avrà avuto ragione.
Posto che è riduttivo ragionare per etichette, se dobbiamo puntare su Sarkozy per sperare che in una Francia ci sia un'impostazione più liberale, non siamo messi troppo bene...