Senza l’ambizione di voler fornire una descrizione easustiva di quanto è avvenuto e sta avvenendo a Dubai (sarebbe troppo lungo per un post), in particolare nella gestione del debito di Dubai World una società posseduta dal governo dell’Emirato, provo a fornire qualche spiegazione in forma di FAQ. Data la delicatezza della situazione sui mercati, ci tengo a sottolineare che esprimo considerazioni assolutamente personali e che sono a conoscenza solo di informazioni già rese ampiamente pubbliche.
Cos’è esattamente Dubai? E cosa sono gli Emirati Arabi Uniti?
Dubai è un emirato (un regno) che fa parte (insieme ad Abu Dhabi ed altri cinque emirati meno noti) di una federazione chiamata Emirati Arabi Uniti (EAU). Gli EAU sono uno stato sovrano (ma non lo è Dubai) con un assetto istituzionale unico: è una specie di repubblica monarchica, in quanto il presidente è il re (sceicco) di Abu Dhabi (il maggiore e più ricco dei 7 emirati), il primo ministro (nonché capo delle Forze Armate e di solito primo ministro) è il re (sceicco) di Dubai e gli altri sceicchi hanno ruoli più o meno prominenti a livello federale, ma sono (in vario modo) autonomi sulla conduzione degli affari locali. In sostanza a livello federale gli EAU conducono la politica estera, i rapporti commerciali internazionali, la difesa, la politica monetaria e poco altro. Il grosso del bilancio federale è coperto da Abu Dhabi che ha enormi riserve petrolifere e cospicue risorse accumulate ad esempio nel fondo sovrano ADIA i cui attivi si stimano in circa mezzo trilione di dollari. Gli altri emirati non dispongono di grandi ricchezze dal sottosuolo.
Come mai Dubai è cresciuta in modo così impetuoso?
Dubai ha quasi esaurito le proprie riserve di petrolio. Per prepararsi in tempo all’esaurimento della rendita petrolifera il governo di Dubai e la famiglia regnante hanno da più di una decina d’anni impresso un enorme impulso alla crescita economica. Il primo passo è iniziato con la costruzione di grandi infrastrutture (autostrade, centrali elettriche, aeroporto, porto, impianti di desalinazione ecc.). In un paese con una popolazione di circa 150 mila persone ciò ha comportato un’immigrazione di centinaia di migliaia di lavoratori e professionisti da ogni angolo del globo (a Dubai sono rappresentate circa 180 nazionalità). Per questi nuovi immigrati si è reso necessario costruire case, strade, centrali, negozi ecc. Insomma si è innescato un effetto moltiplicatore (come lo chiamiamo noi economisti) senza precedenti, forse solo Manhattan alla fine del diciannovesimo secolo o Shanghai negli ultimi due decenni possono reggere il paragone.
E’ nato un nuovo tessuto urbano gigantesco con kilometri quadrati di nuovi quartieri e autostrade a otto o sei corsie dove fino a pochi anni prima c’erano solo dune e radi cespugli. In tutto questo si è privilegiata l’edilizia di lusso, gli alberghi con un numero di stelle non inferiore a 5 e un’offerta per un segmento di mercato top, visto che in questa parte del mondo i milionari (e i miliardari) non mancano.
Cosa ha fatto deragliare questo processo?
Nel Medio Oriente non esistono mercati del debito a lungo termine. Le scadenze più lunghe erano intorno a cinque anni anche per società e istituzioni solide (solo il governo del Qatar recentemente ha emesso titoli con scadenze fino a 30 anni). Per questo motivo i piani di sviluppo di Dubai sono stati finanziati con debiti a scadenza breve relativamente alla durata dei progetti. In altri termini il basso grado di sviluppo e sofisticazione dei mercati del debito (unito a una certa riluttanza ad adottare una governance trasparente nella gestione delle imprese) ha introdotto un rischio di rifinanziamento che si è materializzato pochi mesi dopo la bancarotta di Lehman. Adesso i nodi maggiori sono venuti al pettine perché Nakheel, la controllata di Dubai World che sta gestendo i progetti più faraonici (Dubailand, un parco divertimenti tre volte più grande di Manhattan; Dubai Waterfront, una penisola artificiale delle dimensioni di Hong Kong; Palm Deira, un isola artificiale per più di un milione di persone; e altre cosucce minori che comunque lascerebbero a bocca aperta un Caltagirone) avrebbe bisogno di crediti a lungo termine per completare queste opere che non produrranno cash flow per diversi anni ancora. Ma il mercato di questi tempi è piuttosto riluttante. Da qui la richiesta di moratoria di sei mesi sul ripagamento di un sukuk (un titolo di credito islamico) da 4,1 miliardi di dollari che scadeva il 14 dicembre.
Come andrà a finire?
Ieri il governo di Abu Dhabi ha messo fine all’incertezza sul ripagamento del sukuk, aprendo il forziere e prestando 10 miliardi di dollari a quello di Dubai per far fronte alle necessità impellenti. Quindi i mercati internazionali si sono tranquillizzati (quelli locali hanno fatto un balzo storico) e per il momento la situazione è sotto controllo.
Ma Abu Dhabi ha concesso solo un prestito. Nel lungo periodo la questione essenziale può essere posta in questi termini: Nakheel è in una situazione di illiquidità o di insolvenza? Detto in altri termini, i mega progetti di Nakheel posso produrre redditi sufficienti a ripagare i debiti? Su questo le opinioni divergono sostanzialmente perché i ritorni economici verranno prodotti nella migliore delle ipotesi in tempi lunghi e quindi gli esercizi di previsione sono legati ad un’alea imponderabile (un economista direbbe che l’intervallo di confidenza è molto ampio). Come in tutte le vicende di questo tipo le soluzioni sono due: o arriva qualcuno che crede nei progetti di Nakheel e li compra ad un prezzo che copre i debiti presenti (e ha le spalle larghe per finanziarne il completamento) oppure quelli che hanno finanziato finora Nakheel (gli azionisti, cioè il governo di Dubai, e i creditori, cioè le banche) dovranno accollarsi le perdite in tutto o in parte. In questa seconda ipotesi bisognerà trovare un accordo sull’entità delle perdite e la ripartizione tra i vari soggetti. (Qualcuno ha provato a suggerire ai mercati un’altra perla del repertorio partenopeo “chi ha avuto ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato ha dato, scurdammece o passato ....” ma l’esibizione non ha entusiasmato il pubblico).
Ovviamente esistono combinazioni (più o meno lineari) di queste due soluzioni: ad esempio qualcuno potrebbe essere interessato ad acquisire uno solo dei progetti di Nakheel e quindi le perdite si ridurrebbero di conseguenza. Insomma per farla breve, è una partita complicata che si gioca su più fronti e il cui esito si dipanerà nel corso dei prossimi mesi. La ristrutturazione dello stock di debito pari a 26 miliardi di dollari non è ancora conclusa e per di più anche i fornitori vantano crediti che dovranno essere onorati per evitare fallimenti a catena.
Qual è l’impatto di questa vicenda sul resto dell’economia di Dubai? Per il momento la grande saggezza distillata nella canzone napoletana dell’immediato dopoguerra supplisce alla mancanza di profonde analisi economiche: basta ch’a ce sta o sole, ch’a c’è rimasto o mare ..... Semplificando un po’ la questione possiamo dire che esistono due settori a Dubai. Uno che comprende turismo, logistica, piccole manifatture, alluminio, raffinazione, commercio, servizi alle imprese, sanità, poggia su basi solide perché non ha debiti insostenibili e comunque genera profitti abbastanza stabili. Il secondo che comprende le costruzioni e alcune grandi infrastrutture ha forti esposizioni e non è in grado di servire il debito con gli introiti presenti. Il primo potrebbe subire il contagio dal secondo soprattutto in termini di ridotto accesso al credito. Al momento questa eventualità è stata scongiurata e quindi le imprese sane sono in grado di affrontare la crisi (non fosse altro perché hanno macinato profitti cospicui negli anni del boom). Ma il percorso di uscita non è ancora finito.
Ci dobbiamo preoccupare di nuovi smottamenti che potrebbero coinvolgere l’Italia?
A mio avviso no. L’onda d’urto che ha investito i mercati in seguito all’annuncio della moratoria sul debito di Dubai World il 25 novembre si è propagata in un momento di incertezza generale sulle exit strategies dalle varie politiche "straordinarie" delle banche centrali ed è coincisa con il week end di Thanksgiving in America (come dire Ferragosto in Italia) quando la liquidità era scarsa. Ora come ora, la calma è tornata nel Golfo e ci sarà tempo per ristrutturare il debito in modo ordinato. Quindi se fossi Tremonti mi preoccuperei piuttosto della situazione in Grecia. Ma questa, come si diceva nelle fiabe, è un'altra storia.
Una domanda Fabio: tu menzioni che i mercati dei capitali in quell'area del mondo non permettono indebitamento a lunga scadenza. Mi pare strano, per progetti di quelle dimensioni penserei normale l'accesso ai mercati mondiali. Oppure c'è qualche vincolo addizionale, tipo che si desidera usare unicamente strumenti di finanza islamica? Se è così, puoi descrivere brevemente quali vincoli sulla struttura finanziaria questi impongono?
Solo le grandi societa' solide, gestite in modo trasparente e con una lunga storia alle spalle hanno accesso al mercato internazionale del credito a lungo termine. Le societa' del Golfo quasi mai hanno queste caratteristiche (non fosse altro perche' sono nate da poco) e quindi anche quando si rivolgono ai mercati internazionali (i loro titoli sono effettivamente quotati quasi sempre anche a Londra) le scadenze raramente superano i cinque anni perche' gli investitori richiederebbero un premio di rischio troppo alto. Oppure una garanzia pubblica (che molti presumono essere implicita, ma in alcuni casi tipo Nakheel, sbagliano).
Oltretutto nel Golfo i governi hanno surplus di bilancio, quindi non hanno bisogno (almeno cosi' e' stato fino a poco tempo fa) di emettere debito in quantita' significative. Pertanto non si e' creato un mercato liquido dei titoli a reddito fisso nei paesi del Golfo.
Infine le soceta' private (anche se il confine tra pubblico e privato in Arabia e' alquanto labile) preferiscono i rapporti privilegiati con le banche in modo da non dover fornire troppe informazioni al pubblico (adottando criteri contabili stringenti) e da essere trattate con un occhio di riguardo (per un'analogia pensate alle partecipazioni statali in Italia e alle banche dell'IRI).
La finanza islamica direi che c'entra molto poco. In realta' la finanza islamica e quella convenzionale differiscono poco nel profilo di rischio per l'investitore. Quindi sukuk e obbligazioni presentano differenze di natura squisitamente semantica, almeno agli occhi di un economista.