Questi sono giorni in cui gli economisti cercano di parlare poco con gli estranei. Il meglio che ci possa capitare, ad ammettere la nostra professione, è di assere assediati da domande: ma non si poteva prevedere la crisi? Di chi è la colpa? Cosa succederà adesso?
Vediamo se la letteratura accademica ci puo' aiutare a capire. Premetto che la scelta dei riferimenti bibliografici contenuti nel post non vuole essere esaustiva. È invece una lista molto soggettiva: questo è quello che io mi sono andato a rivedere in questi giorni. In particolare esiste una quantità di letteratura economica sul contagio. Non ne parlo perché non mi venuta nessuna voglia di andarmela a rivedere; a buon intenditor poche parole.
Si poteva prevedere? Crisi finanziarie cicliche implicano che a predirne una prima o poi si indovina. Uno dei primi economisti a studiare e comprendere gli effetti di una crisi del mercato immobiliare è stato Robert Shiller (Yale), che però ha iniziato a predire crisi dall’inizio degli anni ’90.Tra coloro che hanno previsto più lucidamente la crisi finanziaria di questi giorni ci sono anche Nouriel Roubini (NYU, ma scrive su RGE) e Paul Krugman (Princeton, scrive sul New York Times). Entrambi hanno previsto però anche una gravissima crisi economica, previsione che non si è, al momento, ancora verificata.
Come economisti non ci interessa tanto fare previsioni quanto fare analisi, capire cosa è successo per evitare che succeda ancora. Priviamoci a farlo in un solo paragrafo. La Fed ha inondato i mercati di liquidità. Le banche hanno fatto enorme uso della leva finanziaria. Hanno finanziato un boom dei valori immobiliari dal2001 distribuendo il rischio nei mercati finanziari in forma di cartolarizzazioni. Titoli derivati sulle cartolarizzazioni (ad esempio CDS - Credit Default Swaps) hanno generato una complessa catena di posizioni finanziarie legate ai valori degli immobili su cui i mutui sono stati accesi. Il crollo dei valori immobiliari negli Stati Uniti ha ingenerato il crollo di valore di tutti questi titoli. Per fatti e interpretazioni utili consiglio i recentissimi paper di Gary Gorton e di Kristopher Gerardi, Andreas Lehnert, Shane M. Sherlund, and Paul Willen.
Ma come si è arrivati sin qui? Come è possibile una esposizione dei mercati finanziari al rischio immobiliare tale da generare questa crisi? Una questione fondamentale, a questo proposito, è quella della struttura degli incentivi impliciti nella compensazione del management. Questi incentivi infatti, se insufficienti, possono aver indotto il sistema finanziario a una eccessiva esposizione al rischio immobiliare. Lucian Bebchuk (Harvard) da tempo sostiene la tesi secondo cui i manager godono di enormi rendite, da cui ricavano compensazioni eccessivamente elevate. Ma ciò che determina gli incentivi all’esposizione al rischio non è tanto il livello quanto la sensitività della compensazione dei manager al valore della società. È importante che i manager guadagnino quando la loro società acquista valore e perdano quando ne perde. Gli aneddoti di questi giorni a questo proposito sono interessanti: i) si stimano in ben oltre 4 miliardi di dollari le perdite in quest’ultimo anno dei 16 maggiori manager del mondo finanziario americano (da un articolo del NYTimes la settimana scorsa che non trovo più); ii) si riporta che i manager di Lehman si stiano vendendo quadri e case. (La reazione, "chissà quanti gliene rimangono di case e quadri" è poco rilevante e molto populista: non stiamo cercando di suscitare pena per i ricchi manager, ma stiamo argomentando che hanno perso parecchio, e stiamo speculando che ne avrebbero fatto volentieri a meno). Più rilevante è che molte sono le analisi empiriche riguardanti ogni aspetto dei sistemi di compensazione dei manager: dai primi lavori di Michael Jensen e Kevin J. Murphy (USC) a quelli recenti di Xavier Gabaix e Augustin Landier (NYU) e di Gian Luca Clementi (NYU). Per quanto la discussione sia aperta (questo ad esempio fa le scarpe a Gabaix-Landier), questi studi tendono a documentare, a mio parere convincentemente, una sensitività della compensazione dei manager in linea con quanto richiesto ad indurre una esposizione al rischio non eccessiva.
Come si spiegano allora concentrazioni di rischio tali da generare il timore del crollo sistemico? Una possibile spiegazione sta nell’orizzonte temporale degli incentivi. Incentivi troppo a breve termine possono avere infatti effetti perversi: i) innanzitutto, possono indurre i manager a trascurare i rischi futuri, soprattutto i rischi sistemici nel medio periodo, appunto; si veda ad esempio Patrick Bolton, José Scheinkman e Wei Xiong (il primo a Columbia e gli altri due Princeton); e ii) possono anche indurli a manipolazioni del valore dell’impresa, attraverso pratiche contabili poco trasparenti; si veda as esempio Lin Peng e Ailsa Roell. Incentivi a breve termine possono essere anche il risultato di deviazioni comportamentali (psicologiche) dei manager; se veda al proposito la rassegna di Nick Barberis e Dick Thaler (ho già detto qui quello che penso di questa letteratura).
E la bolla immobiliare? Questa crisi finanziaria non si può comprendere appieno senza una spiegazione della dinamica dei prezzi immobiliari, della probabile bolla speculativa che li ha fatti crescere e poi crollare. Le bolle speculative sono difficili da ottenere teoricamente e da identificare empiricamente (si veda su questo Manuel Santos e Mike Woodford): ancora si discute se fosse una bolla quella dei titoli tecnologici del 1999-2000 al NASDAQ. Recenti analisi, ad esempio quelle di Patrick Bolton, José Scheinkman, e Wei Xionge di Dilip Abreu e Markus Brunnermeier (Princeton), collegano le bolle speculative a comportamenti inefficienti dei principali attori nei mercati finanziari; comportamenti dovuti in parte proprio a quegli incentivi di breve periodo che li inducono a cercare rischi eccessivi e a manipolare i bilanci. Non è facile stimare quanto questi incentivi perversi abbiano influito sulla “bolla immobiliare” e quindi sulla crisi finanziaria.Ma è chiaro che è su di essi principalmente che l’analisi economica suggerisce di agire con nuove forme di regolamentazione dei mercati e di trasparenza contabile.
In buona sostanza molte banche e istituzioni finanziarie detengono ora attività il cui valore è crollato. Ma soprattutto, la catena di posizioni finanziarie è così vasta e complessa che nessuno realmente conosce il valore delle proprie attività e tantomeno di quelle detenute da altri soggetti finanziari. Pradeep Dubey, John Geanakoplos e Martin Shubik (il primo a Stony Brook e gli altri a Yale) hanno iniziato a studiare questi problemi una quindicina di anni fa (John Geanakoplos unisce all’attivita’ di accademico quella di operatore a Wall Street; guarda caso nel mercato di mortgage backed securities).In queste condizioni il mercato del credito si congela: nessuno si fida a prestare danaro a nessun altro per timore che quest’ultimo sia particolarmente esposto, alla fine della catena, al rischio dei rendimenti sui mutui.
Che fare?Il congelamento del mercato del credito è il legame principale tra la crisi finanziaria e una possibile crisi reale. Come tagliare il legame? È necessario ristabilire quella trasparenza delle posizioni finanziare di banche e altre istituzioni finanziarie che permetta al mercato del credito di tornare a operare efficientemente. Solo dopo che abbiano realizzato le proprie perdite in modo trasparente le banche potranno ricapitalizzarsi e tornare a investire nell’economia reale.
In un certo senso, questo è l’obiettivo del piano del Tesoro e della Fed all’analisi del Congresso: comprare buona parte delle cartolarizzazioni sui mutui e dei titoli derivati ad essi legati in portafoglio alle banche così da renderne trasparenti i bilanci. Non solo, ma il Tesoro, non dovendo rispondere agli azionisti a breve termine,guadagnerebbe da una eventuale ripresa del mercato immobiliare nel medio periodo.
Sembra una grande idea. Ma ci sono due ordini di problemi. Il primo è il prezzo a cui questi strumenti finanziari saranno acquistati. Il piano originario prevedeva che fossero comprati a prezzi superiori a quelli di oggi di mercato, considerati frutto del panico e lontani dai loro “valori reali”. Questo sarebbe un diretto sussidio alle banche a spese dei contribuenti, una ricapitalizzazione a fondo perduto. È invece bene distinguere l’operazione di salvataggio immediata dal processo di ricapitalizzazione delle banche,così da incentivare le banche stesse a ristrutturarsi per meglio operare la ricapitalizzazione sul mercato. Il secondo problema che il Tesoro si troverà ad affrontare è che le banche conoscono meglio del Tesoro stesso il valore dei titoli in proprio possesso. Avranno incentivo quindi a vendere al Tesoro quelli di minor valore e più rischiosi, in modo da poter esse stesse godere del loro futuro incremento di valore una volta che la crisi sia risolta. Questo incentivo potrebbe limitare l’effetto del piano sulla trasparenza dei bilanci delle banche e in principio potrebbe invalidare il meccanismo di salvataggio stesso.
C'entra Tremonti?C'entra sempre Tremonti! Concludo con un commento riguardo al parallelo tra la crisi del ’29 e quella in corso, parallelo sempre più frequente in questi giorni, e spesso abusato dal nostro Ministro dell'Economia. La crisi del ’29 ha un posto fondamentale tra tutte le crisi finanziarie infatti soprattutto per quanto duramente ha colpito l’economia reale, per la “grande depressione” che ha generato. La più convincente analisi della “grande depressione”, ad opera di Hal Cole, Lee Ohanian (a Penn e a UCLA, rispettivamente),e di un gruppo di economisti alla Fed di Minneapolis, evidenzia quanto gli effetti del crollo dei valori azionari e delle banche sulla economia reale siano stati causati da vari provvedimenti di intervento del governo di New Deal; provvedimenti che hanno favorito una limitazione della concorrenza nei mercati dei prodotti e la sindacalizzazione del mercato del lavoro, e hanno sensibilmente aumentato la pressione fiscale. Purtroppo queste sono proprio le politiche di intervento propugnate dal ministro Tremonti: il «ritorno al pubblico» e alle «politiche keynesiane» (Corriere, 18 Settembre). Forse per questo egli ritiene «prudente non tener conto di quello che dicono gli economisti».
Nessun accenno ai lavori di Bernanke-Gertler e al financial accelerator?
That is not to say that Mr. Bernanke would shy away from radical action
in a crash. In an early version of a paper with Professor Gertler that
was eventually published in 1990, they wrote that "under some
circumstance, government 'bailouts' of insolvent debtors may be a
reasonable alternative in periods of extreme financial fragility."http://www.nytimes.com/2005/10/30/business/yourmoney/30econview.html
(NYT 30 Ottobre 2005)
Ho sentito dire che BB e' la persona piu' preparata ad affrotnare una crisi del genere perche' ha passato parte della carriera a studiare queste cose (l'altra lettura della questione e' che ha portato un po' sfiga o ha fatto di tutto per testare il suo modello). Concordi?
No, come dicevo quella letteratura non mi aiuta affatto a capire cosa succede. Ma questo e' mia valutazione soggettiva. Piuttosto allora, collega per collega, preferisco di gran lunga le cose di Douglas Gale e Franklin Allen.
Su BB: meglio di altri (certo meglio di Greenspan, direi) perche' a queste cose ha pensato; pero' e' possibile (probabile) che non riesca a pensare out of the box dei suoi modelli sulla grande depressione - e questo e' male; molto male; anche perche' sulla qualita' dei modelli si puo' discutere a lungo.