In questi giorni ho letto un libro sulla politica doganale francese nella prima metà del XIX secolo (David Todd, L’identite economique de la France, Parigi 2008). Le élites intellettuali di Parigi, gli esportatori di seterie di Lione ed i mercanti di Bordeaux erano liberisti. Tutti gli altri, e cioè la maggioranza della popolazione, erano decisamente protezionisti. Alla fine il liberismo, la riforma “giusta” del tempo, fu imposto da Napoleone III. Non si capisce bene perché. Era divenuto liberista durante l’esilio in GB? Voleva ingraziarsi gli inglesi? Era stato plagiato dal suo consigliere economico, liberista (Chevalier)? In ogni caso, ci rimise moltissimo in popolarità e perse la poltrona dopo la sconfitta con la Prussia nella guerra del 1870.
Il libro mi ha ispirato alcune riflessioni non proprio ottimistiche sulle prospettive del nostro paese. Per fortuna, la politica doganale è decisa a livello europeo, ma l’Italia avrebbe bisogno urgentemente di riforme “giuste” per evitare la decadenza. Tutti i lettori del blog (o quasi) potrebbero recitare a memoria la lista -liberalizzazioni, riforme della pubblica amministrazione, giustizia, scuola, investimenti in infrastrutture utili (non il ponte di Messina – magari carrozze ferroviarie per pendolari) e così via. Il problema è che i lettori del blog e gli altri maledetti intellettuali riformisti contano poco. Nessun partito sostiene con un minimo di coerenza un programma di riforme minimamente incisivo. Al massimo ciascun partito è disposto a fare qualche provvedimento minore che riduca (poco) i privilegi dei gruppi presumibilmente elettori dello schieramento opposto (cf. le lenzuolate di Bersani, o qualche provvedimento anti-fannulloni di Brunetta).
L’atteggiamento dei politici è perfettamente coerente con le pulsioni dell’elettorato. Tutti, a parole, vorrebbero un’Italia più efficiente, a patto che questo non implichi alcun sacrificio dei privilegi propri e dei propri congiunti. I più acculturati chiedono con eloquenza riforme urgenti per attrarre l’attenzione del governo ed essere poi compensati con qualche piattino di lenticchie (un atteggiamento storicamente tipico della Confindustria). Ovviamente, tutti i pretesi progetti di riforma iniziano con la richiesta di un grande aumento delle risorse disponibili - un sistema ideale per non essere presi sul serio. La maggioranza degli italiani si limita al mugugno o all’invettiva generica contro la “casta”, i “fannulloni” ed altre entità astratte. Grillo è un ottimo esempio, tanto più sgradevole in quanto ci fa i soldi.
E’ facile trovare antecedenti storici a tale atteggiamento. Volendo ritornare indietro nei secoli, si potrebbe citare Guicciardini ed il suo “particulare”. Coerentemente, si possono anche interpretare le svolte epocali, che pure ci furono, come risultato dell’opera di piccole élites o addirittura di singoli individui. L’Unificazione fu opera di una minoranza esigua delle classi dirigenti – o forse solo di di Vittorio Emanuele II, Cavour e Garibaldi. Più recentemente la decisione di partecipare ai negoziati per la costituzione del mercato comune (dopo la II Guerra Mondiale) fu imposta da La Malfa e da pochi democristiani illuminati, contro il parere di Confindustria, del PCI e nell’indifferenza del paese.
Sarebbe interessante capire in quale misura questo atteggiamento sia prodotto della storia (le lunghe dominazioni straniere, le divisioni politiche che hanno impedito lo sviluppo di una coscienza nazionale) o la storia sia stata essa stessa prodotta dalle caratteristiche “genetiche” del popolo italiano (sempre pronto a chiamare stranieri per farsi dominare, a dividersi in fazioni etc). Solo che non saprei come fare per capirlo – e quindi mi limito al presente.
Sicuramente il rifiuto del riformismo può essere razionale nel breve periodo. Un individuo può essere disposto a perdere un privilegio solo se è convinto che il processo di riforma alla fine lo compenserà o magari garantirà un futuro migliore ai propri figli. In sostanza, se cedendo un uovo oggi si può avere una gallina domani e se tutti (o quasi) sono costretti a cedere le proprie uova. Ma tale convinzione si può formare solo se la classe politica può garantire che lo scambio avvenga davvero e che tutti contribuiscano. Nel complesso, la classe politica italiana non può garantirlo perché non è credibile.
Per un breve periodo, Berlusconi lo è stato, grazie alla sua storia personale, opportunamente amplificata dai media (suoi). Tuttora riesce a proiettare, almeno in parte dell’opinione pubblica, l’immagine dell’uomo del fare in contrapposizione ai politici inconcludenti. Se non altro perché può confrontarsi con predecessori/avversari politici terribilmente inconcludenti. Il caso della spazzatura di Napoli è emblematico. In pratica, però, Berlusconi ha fatto pochissimo, usando il suo potere per fini personali, sia in senso stretto per salvarsi dai guai giudiziari, sia in senso più ampio. Infatti il suo obiettivo è stato quello di creare e mantenere il consenso, ed a tal fine ha coerentemente sacrificato ogni riforma liberale vera.
Né mi sembra ci sia molto da aspettarsi dal PD. E’ possibile, con un po’ di ottimismo, interpretare la strategia veltroniana dell’ “andare da soli” come un tentativo di creare un partito riformista, attraendo elettori dalla destra e dal centro, senza perdere a sinistra. Sappiamo come è andata a finire: ha svuotato i partiti della sinistra radicale ed ha perso al centro. Ora il PD è tornato alla politica prodiana delle alleanze, che è sicura garanzia di immobilismo anche in caso di vittoria. Ho già sentito Ferrero (Rifondazione) dire che parteciperanno volentieri alla coalizione ma non al governo. Così prendono i seggi, non si sporcano le mani e possono ricattare il governo.
A questo punto mi pongo una domanda: cosa può fare la minoranza illuminata e riformista? Ammettere di essere una minoranza ed emigrare in massa (in parte, sembra che questo sia gia' avvenuto, a giudicare da questo blog!)? Aspettare che il popolo si ricreda e veda la luce, magari quando la decadenza economica avrà ridotto l’Italia al livello della Moldavia? Invocare il tiranno illuminato à la Napoleone III (magari PierSilvio I)? Prendere le briciole di riforma che i partiti elargiscono quando ne hanno voglia, perché poco è meglio di niente?
Ammetto di non avere chiara una risposta alle mie stesse domande, ma sembrano domande ragionevoli da porsi a fronte del protratto totale immobilismo pur a fronte di una crisi di dimensioni mai viste prima.
Mi viene in mente il raffronto tra 'classe dirigente' ed un gruppo di passanti. Al di là delle sue considerazioni, temo ci si debba porre la domanda se la cosiddetta classe dirigente nel suo complesso sia in possesso del retrpterra culturale necessario ad immaginare le riforme 'giuste' e se sia in grado di proiettarne gli effetti in una visione complessiva. Il dubbio si accresce quando il governo è sostenuto da una maggioranza talmente ampia da superare gran parte delle resistenze al cambiamento.