La questione immigrazione è sempre più al centro dell'attenzione del governo e le ultime decisioni prese - il pacchetto sicurezza, il reato di immigrazione clandestina, la sanatoria per le badanti, il giro di vite sulla cittadinanza ed altro - hanno offerto molti spunti di riflessione e critica, ai quali anche nFA non si è sottrattta.
In questo post parlerò di una questione - purtroppo alquanto tecnica - della quale pochi tra i non addetti ai lavori si sono accorti e che è passata sotto l'usuale complice silenzio dei mezzi di informazione. Mi riferisco all'aggravante di clandestinità, introdotta nel nostro ordinamento dal primo decreto-sicurezza del governo Berlusconi, diventato legge nel luglio dell'anno scorso (la n. 125/2008). Prima di proseguire, è bene però dare una spiegazione per tutti coloro che non hanno conoscenze di diritto.
Come noto, la legge individua i fatti che costuiscono reato e per i quali si può essere puniti. Rappresenta principio di civiltà per il nostro ordinamento, la circostanza per la quale ad essere puniti sono solo i fatti, le azioni, commesse dal reo e non i suoi pensieri, nè, tanto meno, il suo modo di essere. La legge, dunque, individua il fatto-reato e stabilisce una pena - fissata in un minimo ed un massimo - che può poi essere aumentata o diminuita sino ad un terzo, in presenza di circostanze che aggravano o attenuano il reato. In particolare, l'art. 61 del codice penale individua le circostanze aggravanti comuni - circostanze, cioè, che si applicano a qualsiasi tipo di reato, sia esso colposo, doloso e comunque sanzionato:
Aggravano il reato quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali le circostanze seguenti:
1. l'avere agito per motivi abietti o futili;
2. l'aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato;
3. l'avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell'evento;
5. l'avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa;
6. l'avere il colpevole commesso il reato durante il tempo, in cui si è sottratto volontariamente alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione spedito per un precedente reato;
7. l'avere, nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità;
8. l'avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso;
9. l'avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto;
10. l'avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio o rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell'atto o a causa dell'adempimento delle funzioni o del servizio;
11. l'avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d'opera, di coabitazione, o di ospitalità;
11-bis. l'avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale
Il numero 11-bis è il figlio del governo Berlusconi. Come si può vedere, l'11-bis costituisce una anomalia rispetto alle altre ipotesi fissate dall'art. 61. Le aggravanti tradizionali, con l'eccezione del n. 6 su cui si tornerà, sono tutte relative a circostanze di fatto e/o azioni strettamente connesse al fatto che a sua volta costituisce il reato: l'avere usato sevizie, l'aver previsto l'evento (l'ubriaco che si mette al volante), l'aver causato un danno grave al patrimonio e così via, oppure, ancora, costituiscono le motivazioni che hanno spinto al compimento del fatto, come l'aver agito per motivi abietti o futili.
Al contrario, l'aggravante di clandestinità è del tutto slegata dal reato che aggrava, ma si dovrebbe applicare per il solo fatto che a violare la legge è un clandestino. Per darvi un'idea di come dovrebbe funzionare la norma facciamo una ipotesi concreta: l'italiano Mario con il suo complice moldavo e clandestino Romul, fanno irruzione in una villa e la ripuliscono di beni di valore, ma sono sfortunati ed appena girato l'angolo vengono arrestati da una pattuglia di Carabinieri: ebbene, a parità di fatto-reato, la pena di Romul potrebbe essere sino ad un terzo maggiore di quella di Mario, in virtù dell'aggravante di clandestinità.
Insomma, a causa di questa aggravante, qualsiasi reato commesso da un clandestino (straniero illegalmente presente in Italia) è oggi considerato più grave, rispetto al medesimo reato, commesso:
a) da un cittadino italiano;
b) da uno straniero legalmente soggiornante in Italia, ossia da cittadini comunitari o extracominitari con permesso di soggiorno.
A chi scrive la nuova ipotesi è sembrata sospetta assai di incostituzionalità e, facendo un po' di ricerche in rete per scrivere queste note, ho scoperto di essere in buona, anzi ottima, compagnia, dato che dubbi in proposito sono stati formulati, già durante i lavori preparatori alla legge, dall'Associazione Nazionale Magistrati, dalle Camere Penali, dal CSM e dagli studiosi di diritto costituzionale, come l'ex Presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida, per il quale l'aggravante
"opera una vera e propria discriminazione fra persone in ragione dell’origine nazionale e di condizioni personali, vietata dagli articoli 2 e 7 della Dichiarazione universale, dall’articolo 14 della CEDU e dall’articolo 26 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, oltre che dall’articolo 3 della Costituzione”.
Per di più lo stesso decreto sicurezza ha anche modificato l’art. 656, comma 9, lett. a) c.p.p. (Codice Procedura Penale), che nel testo oggi modificato (e con ogni probabilità anch'esso incostituzionale) stabilisce che "nei confronti dei condannati per i delitti in cui ricorre l’aggravante dell’art. 61 n. 11 bis c.p.” non può essere disposta la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva fino a tre anni (fino a sei quando si tratti di pena inflitta per reati commessi in relazione a uno stato di tossicodipendenza), anche se residua di maggior pena, volta a consentire la presentazione di istanza di ammissione a una misura alternativa alla detenzione, con la conseguenza che il clandestino, per poter accedere alle misure alternative, deve necessariamente passare prima dal carcere.
Come era prevedibile, la questione è stata portata all'attenzione della Corte Costituzionale da numerosi Tribunali e nei prossimi mesi, se non addirittura giorni, la Corte prenderà la sua decisione.
Le norme costituzionali che si assumo violate sono innanzi tutto quelle già evidenziate da Onida, ossia le convenzioni internazionali sui diritti dell'uomo e l'art. 3 cost. per il quale
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione; di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
A scanso di equivoci segnalo che per costante interpretazione, il sostantivo "cittadini" viene inteso come "persona umana", come del resto riconosciuto anche dalla dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Oltre a questo, però, vanno anche considerati gli articoli seguenti: 25 Cost. secondo comma
Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
e 27 Cost. primo comma,
La responsabilità penale è personale.
Essi sanciscono i principi della offensività e della responsabilità per "fatto proprio colpevole", ossia la responsabilità per un fatto personalmente commesso e non per il modo di essere dell'autore.
In realtà, la norma in questione, a parere del sottoscritto, delinea una ipotesi di vera e propria colpa d'autore, riagganciandosi ad un filone dottrinario che ebbe una discreta fortuna nella Gemania nazista. Nella dottrina tedesca, al principio degli anni '40, si delineò infatti, accanto alla comune concezione di colpa per commissione di un fatto, anche la cosiddetta colpa d’autore o colpa per il modo d’essere (Taterschuld). Tale concezione si basa sull’idea che è soggetto a punizione non tanto il fatto commesso, sia pure contrario a norme penali, quanto piuttosto il modo d’essere dell’agente: insomma, è come se la legge dicesse "ti punisco non per ciò che hai fatto, ma per quello che sei".
Come deciderà la corte costituzionale?
È difficile a dirsi. In primo luogo bisogna considerare i termini per i quali i Tribunali hanno rimesso la questione alla Corte, dato che questi delimitano anche la "materia del contendere" e quindi la possibile decisione.
In secondo luogo bisogna considerare che la Corte è tendenzialmente conservatrice. Quindi potrebbe lavarsene le mani affermando che, trattandosi di una aggravante, la stessa non è di immediata ed automatica applicazione, ma soggetta al giudizio di comparazione, da parte del giudice di merito, con le eventuali circostanze attenuanti.
La Corte, infine, ha sempre riconosciuto al legislatore un'ampia discrezionalità nella configurazione delle fattispecie criminose, estendendola anche alla scelta delle modalità di protezione penale dei singoli beni o interessi e facendo rientrare in questa sfera di discrezionalità anche l'opzione per forme di tutela avanzata, che colpiscano l'aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché l'individuazione della soglia di pericolosità, alla quale riconnettere la risposta punitiva. Il fatto, quindi, che il legislatore abbia voluto proteggere la collettività individuando un potenziale pericolo connesso alla presenza di clandestini sul territorio, potrebbe non essere, in astratto, incostituzionale in sè.
A me piace credere, invece, che la Corte abrogherà la norma e ciò proprio alla luce della precedente giurisprudenza costituzionale. Questo perché, in merito alla discrezionalità riconosciuta dalla Corte al legislatore nella configurazione di fattispecie criminose, essa ha però stabilito che tali soluzioni debbono misurarsi,
con l'esigenza di rispetto del principio di necessaria offensività del reato: principio desumibile, in specie, dall'art. 25 cost., in una lettura sistematica cui fa da sfondo «l'insieme dei valori connessi alla dignità umana»
(sentenza n. 263/2000).
La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito in qual modo si atteggi, a tale riguardo, la ripartizione di competenze tra giudice costituzionale e giudice ordinario (sentenze n. 265 del 2005, n. 263 e n. 519 del 2000, n. 360 del 1995). Spetta, in specie, alla Corte - tramite lo strumento del sindacato di costituzionalità - procedere alla verifica dell'offensività «in astratto», acclarando se la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo; esigenza che, nell'ipotesi del ricorso al modello del reato di pericolo, presuppone che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all'id quod plerumque accidit (tra le altre, sentenza n. 333/1991).
Ove tale condizione risulti soddisfatta, il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato al giudice ordinario, nell'esercizio del proprio potere ermeneutico (offensività «in concreto»). Esso - rimanendo impegnato ad una lettura "teleologicamente orientata" degli elementi di fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule verbali impiegate dal legislatore appaiano, in sé, anodine o polisense - dovrà segnatamente evitare che l'area di operatività dell'incriminazione si espanda a condotte prive di un'apprezzabile potenzialità lesiva.
(sentenza n. 225 del 2008)
Distillando il linguaggio un po' criptico dei giudici costituzionali, occorre in pratica verificare se la norma penale sanzioni un reale contenuto offensivo, in un modo che non sia nè irrazionale, nè arbitrario.
Avendo in mente questi principi, appare evidente che l'aggravante di clandestinità non regge al principio di offensività, dato che si fa discendere un aggravamento di pena da una condizione - la clandestinità - che al momento dell'approvazione delle legge non era neanche reato, ma semplice illecito amministrativo e che oggi, pur essendo diventata reato, viene sanzionata con una semplice ammenda sino €. 10.000,00. Insomma, se lo status di clandestino è talmente poco pericoloso da richiedere una semplice ammenda, non trova giustificazione razionale che questo stesso status possa comportare un aumento di pena sino ad un terzo.
Peraltro, la stessa corte (sentenza n. 22/2007) ha escluso che la condizione di straniero irregolare, in quanto tale, possa associarsi ad una presunzione di pericolosità. Decidendo in materia di indebito trattenimento sul territorio nazionale dello straniero espulso, infatti, la Corte ha affermato che si è in presenza di una semplice condotta di inosservanza dell'ordine di allontanamento dato dal questore e non di una accertata o presunta pericolosità dei soggetti responsabili.
Per comprendere come operano diversamente le norme, prendiamo l'altra aggravante che guarda allo status soggettivo del reo, vale a dire il n. 6 dell'art. 61 c.p.
l'avere il colpevole commesso il reato durante il tempo, in cui si è sottratto volontariamente alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione spedito per un precedente reato
Anche in questo caso l'aggravante è sganciata dal fatto-reato e sembra guardare al modo di essere del reo e, tuttavia, la scelta del legislatore di affidare ad una sanzione penale la protezione contro il latitante, regge alla prova di razionalità, arbitrarietà ed offensività, dato che qui la pericolosità sociale è concreta e rilevante, posto che il reo si sta sottraendo ad un mandato di cattura e/o di carcerazione e, soprattutto, è conclamata e valutata nel merito, per essere passata attraverso il vaglio del magistrato.
In definitiva: se dovessi scommettere i mei due cents, direi che la Corte abrogherà la norma. Ciò facendo darà una gran bella picconata all'impianto normativo anti-clandestini, che è essenzialmente ideologico e, quindi, assai poco tecnico ed assai poco utile.
Sono d'accordo con la tua impostazione e spero anche io che la norma sia dichiarata incostituzionale. Vorrei tuttavia fare un po' l'avvocato del diavolo. Ora che esiste il reato di clandestinità (non so pero' se la norma è già operativa) lo status di "clandestino" potrebbe essere certificato da un magistrato (che emetterà la multa da 5 a 10 mila euro) e quindi avremmo una parificazione all'esempio che tu facevi con il latitante (che è un'aggravante). Avremmo quindi un "fatto" e non un modo di essere. Concretamente per applicare l'aggravante il giudice dovrebbe prima verificare se lo status di clandestino è già stato sanzionato. Non potrebbe applicare l'aggravante senza alcuna precedente sanzione, a meno che non sia il PM stesso, nell'ambito del procedimento (es: per rapina) a inserire anche l'imputazione per il reato di clandestinità. Non so se pero' le cose possono procedere parallelamente o se il processo per clandestinità va celebrato prima separatamente e deve essere una sentenza definitiva.
Ciao,
Francesco
Non è stata ancora firmata dal Capo dello Stato, nè, tantomeno pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, trattandosi di un DDL e non di un Decreto Legge. Quindi, ad oggi, il reato di clandestinità non esiste.
Si deve vedere se, quando la Corte deciderà, il reato di clandestinità sia stato introdotto nel nostro ordinamento.
Ma anche in quel caso ci sono dei problemi, data la non retroattività della legge basta che io dichiari di essere presente in Italia già prima della data di entrata in vigore della legge (consiglio vivamente a tutti i clandestini che ci leggono di conservarsi gli scontrini del bar, vanno bene già quelli) e non sono passibile del reato di immigrazione clandestina.
Beh, se volevano distruggere l'ordinamento giudiziario in Italia, ovvero l'Amministrazione della Giustizia, questo è un bel passo avanti.
Comunque, anche secondo me, la Corte cancellerà quest'articolo.