Questo il fatto. Intendiamoci subito: di per sé questa è una non notizia. Tecnicamente le cose sono andate così. L'IdV ha proposto in Commissione Lavoro al Senato un ordine del giorno che impegna il governo a
definire e programmare, d'intesa e in stretta collaborazione con le parti sociali, entro un anno dalla data di approvazione del disegno di legge in esame, misure concrete volte a conseguire entro il 31 dicembre 2016 il definitivo superamento per ciascun settore lavorativo del divario retributivo tra uomini e donne.
Il testo integrale dell'ordine del giorno si trova sul blog della prima firmataria, la senatrice Giuliana Carlino. Il governo, rappresentato in quella sede da Michel Martone ha risposto qualcosa come "vabbuò" -- aspettare la fine del post per la qualificazione del "vabbuò". Questo ordine del giorno è tanto politicamente corretto (chi può dirsi contrario a alla parità di salario tra uomini a donne?) quanto privo, molto probabilmente, di conseguenze pratiche. Anche se restasse nel testo definitivo che il Parlamento dovrebbe approvare nelle prossime settimane, impegnarsi a "definire e programmare misure concrete" vuol dire impegnarsi a fare niente. Ma siccome l'attività legislativa è cosa seria anche questa non notizia va presa con un po' di serietà -- se non altro perché sui media la notizia sulla "parità di stipendio tra uomini e donne a partire dal 2016" ha avuto una certa risonanza. Come non potrebbe, messa così?
In Italia, come altrove, non si può discriminare in base al sesso, la religione, l'etnia. Lo sappiamo bene, sta scritto nella costituzione. Eppure i dati mostrano che gli uomini guadagnano sul mercato del lavoro più delle donne, in Italia come altrove. Alla mediana della distribuzione dei redditi annuali da lavoro dipendente a tempo pieno (escludendo quindi il tempo parziale, dove le donne sono sovrarappresentate) questo divario è pari a circa il 15% nei paesi OCSE, come mostra la figura qui sotto (cliccare per ingrandire), tratta da questo documento. L'Italia è qualche punto percentuale sotto la media.
In altre parti della distribuzione le cose sono diverse. Per esempio, scorrendo il documento si nota che nella parte alta della distribuzione dei redditi da lavoro (sopra l'ottantesimo percentile) in Italia le donne guadagnano circa il 5% in più rispetto agli uomini. Riporto la figura qui sotto per comodità (cliccare per ingrandire).
Ma restiamo pure nella parte centrale della distribuzione, che è quella più affollata. Perché uomini e donne hanno stipendi diversi nonostante la discriminazione sia vietata? Un'ovvia spiegazione è che, anche a parità di mansione, uomini e donne potrebbero avere caratteristiche diverse o fare scelte diverse. Per esempio, scorrendo lo stesso documento OCSE scopriamo che se invece di guardare ai redditi annuali da lavoro guardiamo al salario orario (il rapporto tra redditi annuali da lavoro e ore lavorate in un anno) il divario salariale in Italia è pressoché nullo. Anche qui riporto la figura sotto per comodità (cliccare per ingrandire). Ossia, le differenze tra i redditi da lavoro annuali di donne e uomini che lavorano a tempo pieno sono spiegate dal fatto che le donne occupate lavorano meno ore degli uomini occupati sullo stesso mercato (speriamo che ora il governo non voglia impegnarsi a decretare che uomini e donne devono lavorare lo stesso numero di ore!).
Questa figura contrasta in modo evidente con quanto riportato nel testo dell'ordine del giorno (mio grassetto):
Il divario retributivo tra i sessi – definito come la differenza media nella retribuzione oraria lorda fra donne e uomini sull'insieme dell'economia – è ancora molto elevato
Forse gli estensori dell'ordine del giorno hanno accesso a dati che considerano migliori di quelli OCSE (nel qual caso ci piacerebbe sapere quali sono e perché sono migliori). O forse sono semplicemente confusi.
Spiegare il divario con la diversa offerta di lavoro non vuol dire che abbiamo trovato la causa, naturalmente. È per esempio possibile che le donne scelgano di lavorare meno ore degli uomini precisamente perché sarebbero pagate di meno per ogni ora di lavoro aggiuntivo. Oppure è plausibile che lo stipendio annuale e le ore annuali di lavoro vengano insieme, in "pacchetti", nel qual caso non c'è flessibilità sulle ore e le differenze di reddito annuale da lavoro non sono il frutto di diverse scelte lavorative fatte da uomini e donne. Prendiamo quindi per buona l'esistenza di un divario salariale residuo da spiegare, anche dopo aver controllato per le caratteristiche individuali osservabili e parità di mansione, e arriviamo al punto. In due passi:
- Come si fa a pagare un uomo più di una donna se i contratti di lavoro pubblici e privati in Italia già impediscono la discriminazione?
- A cosa è dovuta la parte residuale di questa differenza dopo che abbiamo aggiustato per mansione e altre caratteristiche osservabili?
La risposta alla prima domanda è semplice: si possono usare aumenti discrezionali di stipendio o progressioni discrezionali di carriera (non nel pubblico impiego). Un editor di nFA mi chiede, giustamente: "Se le cose stanno così, non si vede veramente cosa potrebbe fare il governo. Mettere le quote rosa per gli aumenti discrezionali? (forse è meglio non far circolare troppo l'idea)." :-). Si noti che stiamo parlando di differenze a parità di mansione. Altrimenti la risposta è ancora più banale: uomini e donne si autoselezionano in mansioni e industrie diverse. Se, per esempio, a parità di istruzione agli uomini non fa troppo schifo raccogliere la spazzatura mentre alle donne sì e preferiscono fare le centraliniste al CUP, i primi guadagnano di più perché fanno un mestiere meno pulito delle seconde, a parità di istruzione.
Per rispondere alla seconda domanda, limitiamoci a confrontare due possibilità. Primo, il divario residuo potrebbe essere dovuto a caratteristiche e processi inosservabili (a chi osserva dall'esterno, ma non alle parti interessate), e quindi giustificato. Per esempio, donne e uomini posso avere preferenze diverse rispetto a percorsi di carriera alternativi anche a parità di mansione. O avere vantaggi comparati diversi che li differenziano anche nell'ambito della stessa mansione. Secondo, potrebbe essere dovuto a pura discriminazione, e quindi ingiustificato. Per pura discriminazione intendo questo: sei una donna in tutto e per tutto (eccetto il genere) indistinguibile da un uomo. Ma io ti pago di meno, solo perché sei donna.
Comunque sia, la commissione lavoro del Senato ha concluso all'unanimità che la risposta giusta è la seconda: se le donne in Italia sono pagate di meno è a causa di pura discriminazione. E il governo è d'accordo. Potrebbe essere così. Se così fosse, commissione lavoro e governo farebbero un grande servizio alla comunità scientifica rendendo pubblica l'evidenza che porta a tale conclusione. Se così non fosse, invece, il governo svantaggerebbe coloro che si propone di aiutare. Poiché infatti le imprese non potranno e non vorranno ridurre il salario degli uomini saranno obbligate dalla legge (se il governo renderà concreto il proprio impegno) a pagare di più le donne. Se il divario salariale fosse per qualunque ragione (a noi ignota) giustificato anziché frutto di pura discriminazione, allora le imprese troverebbero il modo di rifarsi penalizzando le donne in altro modo, se possibile (per esempio riducendo altri benefici o rallentando la carriera, facendo cioè pagare a loro il maggiore salario) oppure assumerebbero meno donne e più uomini. Ciò che l'improvvisata legge fece il mercato disfece.
Una chicca finale. Il "vabbuò" del governo, dicevo sopra:
i relatori hanno dato parere favorevole mentre il viceministro del Welfare, Michel Martone, si è rimesso alla commissione.
Proprio a lui dovevano chiedere un parere? Non sia mai che questo figato fior fiore dell'accademia italiana colga l'occasione per dire qualcosa di intellettualmente, o anche solo scientificamente, rilevante. Un consiglio a Elsa Fornero, che queste cose le capisce: non mandare più Michel quando si parla di cose delicate come questa, vacci tu.
Forse dipende anche dalla qualità dell'istruzione. Nel senso che se le statistiche dicono "le donne laureate prendono meno degli uomini laureati" uno pensa alla discriminazione perché non si specifica in COSA siano laureati. Io mi sono laureato in lettere: lì il 70% degli studenti erano studentesse. Suppongo quindi che il 70% degli studenti di ingegneria fossero uomini. Con tutto il rispetto dei laureati in lettere di cui faccio parte, per quanto io sia stato fortunato rispetto alla media (almeno finora :P), la pagnotta che dà la laurea in lettere è più piccola di quella che dà la laurea in ingegneria. Quindi a parità di istruzione il laureato in lettere avrà un reddito inferiore. Quindi le donne avranno un reddito inferiore agli uomini. In media chiaramente.
... il problema non è tanto e solo la laurea (che in Italia tocca mi pare l'11-12% della forza lavoro 25-65 ma gli altri, che costituiscono quasi il 90%.
1) chi si ferma dopo la scuola dell'obbligo (o addirittura prima) e
2) chi prosegue con gli studi secondari.
E non dico "ora", cioè i dati relativi ai giovani oggi ma lo stock del lavoratori.
Mi pare che OCSE - Education at a glance dia i numeri paese per paese dei livelli di istruzione (primaria, secondaria e terziaria) divisi per genere. Ricordo a naso che quasi il 50% della forza lavoro italiana (25-65) ha solo la terza media.