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Per quelli che, ragionevolmente, non han tempo da buttar via leggendo un pistolotto lungo lungo.
Dal tardo 2008 un mito si aggira per il mondo: che quella serie di eventi che chiamiamo “crisi” sia stata il frutto puro, duro e nocivo dei mercati lasciati a se stessi e della concorrenza economica esercitata in totale libertà, senza regolatore, senza governi, senza banche centrali, senza (dis)incentivi fiscali, insomma senza lo "stato" nelle sue molteplici articolazioni.
Il fatto che la crisi economica abbia rappresentato una manifestazione della crisi dell'economia di mercato e sia dovuta alle profonde contraddizioni della medesima (economia di mercato) è ormai considerata verità auto-evidente.
In realtà è una balla. Ma è una balla che piace a molti perché li assolve d’ogni responsabilità. Ovviamente è una balla particolarmente gradita ai politici perché, oltre ad assolverli, chiede loro d’assumere nelle proprie mani ancora piu poteri, reddito e vite umane di quanto già non facciano. Non a caso questa storiella la raccontano, con identiche parole, Sarkozy e Zapatero, Tremonti e Bersani, Obama e Putin. Che la realtà sia ben diversa l'abbiamo documentato, sia noi che svariati altri, così tante volte che non è nemmeno il caso di ripetersi. Il mito tale è: comodo ai politici, falso nei fatti, dannoso all'umanità che vive nell'illusione che esso crea.
Da questo “mito fondazionale” seguono una svariata quanto sgangherata serie di proposizioni. Eccone alcune:
- che dalla crisi si possa uscire solamente con molto più stato e, soprattutto, con molta più spesa pubblica;
- che la crescita economica venga da un continuo aumento della domanda pubblica, quindi della spesa;
- che detta spesa si possa finanziare con ripetute emissioni di debito pubblico perché questo nel lungo periodo si “autofinanzia”;
- che il rifiuto degli investitori di continuare ad acquistare debito (pubblico, ma anche privato) alle medesime condizioni del passato sia dovuto alla “cattiva speculazione” o a qualche fallimento del mercato e non a motivazioni economiche legittime e ad azioni di politica economica;
- che l'instabilità finanziaria si risolva a colpi di proibizioni, chiusura dei mercati, emissione di moneta a go-go da parte delle banche centrali, restrizioni al commercio con l'estero, eccetera;
- che, infine, l'Europa tutta ricomincerebbe a crescere ed uscirebbe dalla crisi se solo la Germania si indebitasse di più e l'Europa, nel suo complesso, si "ri-statalizzasse". Insomma, un po' di "socialismo vecchio stile condito da tanta spesa pubblica" è la miglior medicina disponibile.
Boiate.
Boiate pazzesche che però, in Italia, ricevono il supporto di tutto un sottobosco di economisti prodighi di argomentazioni non sostanziate e di una retorica alquanto barricadera, sbugiardata da tutti tranne che dall'accademia italiana. La prima reazione è stata di non curarsi di loro, ma poi non ci siamo riusciti. Dopotutto sono 100 (cento), hanno scritto una "Lettera degli economisti", con adesioni da "Università ed Enti di ricerca nazionali ed esteri" e la stampa nazionale ha dato loro grande rilievo. Insomma, c'è il rischio che chi sta in Italia si convinca che l'unica scelta possibile sia quella fra le politiche di Giulio Tremonti e quelle dei 100 economisti. Non è così ed è il caso di dirlo.
E poi ci divertiamo da sempre a sbertucciare Quelli che...
Quindi, se v'incuriosisce sapere perché sono boiate, leggetevi il pistolotto completo, dove procediamo ad una disamina il più accurata possibile del testo in questione. Altrimenti, non vi resta che fidarvi.
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La lunga lettera, come dicevamo, è firmata da 100 professori italiani, è stata pubblicata dal Sole 24Ore e pubblicizzata da svariati altri giornali. Essa costituisce una sintesi anche coraggiosa della sequenza di proposizioni che abbiamo appena definito boiate. È coraggiosa perché per tenerle tutte assieme (si fa per dire) gli estensori della lettera hanno dovuto resuscitare nientepopodimeno che la teoria del sottoconsumo (anche detta della sovrapproduzione, due lati della stessa medaglia), uno zombie teorico del paleomarxismo. Codesta teoria è così logicamente incoerente ed ortogonale ai fatti che ci sarebbe da divertirsi se non temessimo per la sanità intellettuale dei discenti di questi docenti.
Cominciamo dal titolo, "Lettera degli economisti". Si noti, "degli economisti ", senza aggettivi. Non degli economisti bravi, degli economisti blu, degli economisti anti-ortodossi, degli economisti post-marxisti, no, no, ... no, degli economisti tout court. E non è che gli è venuto così, per caso. Buona parte dei firmatari (erano 50 allora) ha anche firmato nel Giugno 2006 un "Appello degli economisti", pieno delle stesse idee e proposte, di cui parleremo anche per altre ragioni.
Passiamo alla sostanza. La tesi di fondo della lettera è di natura politica ed è la seguente:
l’attuale instabilità della Unione monetaria non rappresenta il mero frutto di trucchi contabili o di spese facili. Essa in realtà costituisce l’esito di un intreccio ben più profondo tra la crisi economica globale e una serie di squilibri in seno alla zona euro, che derivano principalmente dall’insostenibile profilo liberista del Trattato dell’Unione e dall’orientamento di politica economica restrittiva dei Paesi membri caratterizzati da un sistematico avanzo con l’estero. [neretto nel testo originale]
Le affermazioni qui sono due: (1) il Trattato dell’Unione (gli estensori confondono allegramente Unione Europea ed area Euro ...) è “liberista” e, (2) la crisi (non sappiamo se quella del debito pubblico in Europa o del debito privato negli USA o se la recessione e l’assenza di crescita in molti paesi avanzati, o tutto questo assieme) è dovuta a tale “liberismo” in cooperazione con le politiche economiche “restrittive” di quei paesi membri dell’Unione che hanno un surplus della loro bilancia commerciale.
Su cosa si fondino questo affermazioni è complicato intendere e richiede una disamina paziente dei vari articolati della lettera stessa. Per non appensantire ulteriormente la lettura limiteremo il più possibile le citazioni dal loro testo; invitiamo il lettore ad esaminare questo post e la lettera dei 100, in parallelo.
Prima di entrare nel dettaglio di argomentazioni anche un po' astruse, ci piacerebbe che il lettore considerasse però con attenzione il cuore generale della tesi degli estensori della lettera: la crisi globale è dovuta a stagnante o addirittura declinante capacità di consumo dei "lavoratori". Ora, noi non sappiamo bene a chi si riferiscano con quest'ultimo termine gli estensori della lettera ma, se come è ragionevole pensare si riferiscono ai percettori di reddito da lavoro, ossia al 95% circa delle famiglie, l'affermazione ha dell'incredibile.
Provate a ripeterla ad alta voce, giusto per sentire l'effetto che fa. E se vi viene da ridere, nessuna ragione di trattenersi: lo sanno anche i polli che per anni americani ed europei si sono comprati tutto quello che potevano comprare, ipotecandosi le mutande, altro che sottoconsumo. Gli americani lo hanno fatto direttamente, mentre gli europei, più timorati di Dio, lo hanno fatto fare ai propri governi.
Ma prendiamo le argomentazioni della "lettera" sul serio. Da dove cominciare? Innanzitutto con la logica. E poi coi dati.
Sulla (mancanza di) logica della teoria del sottoconsumo (o della sovrapproduzione, che fa lo stesso).
Gli estensori della lettera, senza esplicitamente ammetterlo, attingono ad antiche teorie marxistoidi note come “crisi da sovrapproduzione”. Queste sono il vero cuore del modello teorico su cui buona parte delle affermazioni della lettera si posa. Ecco un esempio:
Come è stato riconosciuto da più parti, questa crisi vede tra le sue principali spiegazioni un allargamento del divario mondiale tra una crescente produttività del lavoro e una stagnante o addirittura declinante capacità di consumo degli stessi lavoratori.
[...]
Siamo insomma di fronte alla drammatica realtà di un sistema economico mondiale senza una fonte primaria di domanda, senza una "spugna" in grado di assorbire la produzione.
L’idea di queste teorie è tanto banale quanto incoerente. Proviamo a riassumerla. Il cattivo sistema capitalistico diventa sempre più efficiente - come? Non si sa ... - quindi sempre più produttivo: produce, o sarebbe capace di produrre, sempre più merci. Però, siccome è cattivo, paga i suoi lavoratori sempre meno, aumentando i profitti. I lavoratori non possono quindi comprare le merci prodotte, che rimangono invendute. Al quel punto il sistema capitalista, o il capitalista finanziario in persona che è normalmente un grasso ed untuoso signorotto con il sigaro in bocca, presta soldi ai lavoratori perché essi acquistino l’invenduto. Questi però, poiché il loro reddito mai cresce come da ipotesi, non possono ripagare tali debiti, da cui la crisi finanziaria.
L'incoerenza logica è nota, e nemmeno tanto nascosta. I capitalisti con i loro crescenti profitti potrebbero comprarsele le merci, o no? L’anno in cui si produce 130 invece di 100 ed i lavoratori guadagnano sempre 50, i lavoratori si comprano 50 ed i capitalisti 80, che fa 130: nessuna crisi di sovrapproduzione! Apparentemente questo non succede. O forse i capitalisti non hanno voglia di consumare, che sono grassi, hanno già tutto, sei iPad e tre Ferrari, senza parlare di tutti gli avana che possono fumarsi. Ma allora buttano quello che hanno fatto produrre ai lavoratori? Se buttano parte della produzione, non ci guadagnano nulla, quindi il valore della produzione quell'anno non è 130, ma meno! Perché valga 130, la produzione, devi averi ricavato 130 dalla sua vendita!
Qui occorre ricordarsi di una banalità che i teorici del sottoconsumo invece scordano: il valore della produzione si misura solo DOPO averla venduta ed è uguale a prezzi per quantità! Se non vendi è come se tu non avessi prodotto nulla. Quindi, nel caso che i teorici del sottoconsumo hanno in mente, se hai prodotto "troppo" rispetto alla domanda osservata, non sarà che conviene abbassare i prezzi e svendere ai lavoratori quello che già hanno prodotto, che per due euro se lo comprerebbero l'iPad? Eh no, che i prezzi non hanno ragione di esistere nelle teorie economiche cui si fa riferimento qui. Marx li trasforma in quantità di lavoro e Keynes li elimina che sennò non riesce a spiegare la disoccupazione involontaria. E Sraffa,... beh Sraffa proprio coi prezzi non andava d'accordo.
Ma allora, se i capitalisti quasi non comprano beni ed i prezzi non esistono (e quindi nulla possono a bilanciare quantità domandate ed offerte) i capitalisti che fanno? Siccome sono cattivi ma anche un po’ scemi fanno la seguente cosa. Anzitutto si sdoppiano in capitalista industriale e finanziario; in secondo luogo danno al secondo il controllo di una parte crescente dei profitti (facciamo 20, 30, 40, 50 ...) che vengono prestati ai lavoratori perché consumino. Ed i lavoratori consumano, felici, un ammontare crescente di beni: 70, 80, 90, 100: nessuna sovrapproduzione/sottoconsumo. Poi, perché non possono ripagare, i lavoratori fanno default sul debito, lasciando i capitalisti finanziari con le pive nel sacco.
Ma allora, dice chiunque sia in grado di fare due più due, questo sistema capitalista alla fin fine non è così male per i lavoratori, se non altro perché i capitalisti son stupidi. È vero che pagano poco i lavoratori, però poi prestano soldi a vanvera perché il loro consumo aumenti comunque, quindi ... quindi una pacchia infinita, no? In questo mondo qui noi, potessimo scegliere, faremmo i lavoratori, altro che balle.
Come, a fronte di redditi in declino, il sistema finanziario possa magicamente far lievitare i valori finanziari prestando alle famiglie pur nella consapevolezza che queste non hanno e non avranno redditi per ripagare, lo sanno solo gli estensori della lettera (ed altri sofisticati teorici a cui sembra si ispirino).
Lo sappiamo, trattasi di una storia sepolta dalla logica circa un secolo fa, ma tale è la spiegazione della crisi che gli “economisti” firmatari della lettera vorrebbero farci credere. Non siamo riusciti a esporla, la storiella, senza fare ironia (e ci abbiamo provato, oh se ci abbiamo provato). Non riusciamo a non riderne. Ma non dovremmo perché, la storiella così incoerente da essere demenziale che qui abbiamo narrato, non popola solamente le menti degli economisti che si credono "gli economisti", ma percola anche nelle menti confuse di ogni luogo. Avrà anche il nostro lettore ben sentito gli alti lamenti che si alzano di là dell'Atlantico da parte di coloro che domandano compassione ed aiuto per i consumatori che sono stati costretti a comprare case che non si potevano permettere con mutui a tasso zero - maledetti banchieri! Quale può essere il sostegno teorico a questi lamenti? Beh, lo avete appena visto, se di sostegno e di teoria si può parlare in questo caso. Andiamo avanti.
Sulla evidenza empirica, non già a riguardo della teoria del sottoconsumo, che è logicamente incoerente e quindi necessariamente sconnessa da qualunque fatto, ma riguardo a produttività e consumi.
Se, tanto per dire, il valore delle merci prodotte cresce di anno in anno da 100 a 110 a 120 a 130 a ... ed il reddito pagato al lavoratore rimane fisso a, diciamo, 50, i profitti diventeranno 50, 60, 70, 80 ... e di questo dovrebbe esserci evidenza nei dati. Ma nei dati la quota di reddito da capitale cresce in certi periodi e cala in altri senza alcun trend preciso. Verissimo, gli ultimi dieci anni hanno visto una crescita, in alcuni paesi non in tutti, ma altri decenni hanno visto una riduzione. Insomma, un trend di lungo periodo non c’è proprio, è una fantasia di questi economisti italiani che, evidentemente, grande familiarità con la contabilità nazionale ed i fatti non devono avere. Basterebbe questa osservazione per tirare tutto alle ortiche, ma andiamo avanti.
È per giunta falso che la produttività del lavoro sia cresciuta molto di piu di quanto siano cresciuti i redditi dei lavoratori. Questo è falso per i paesi UE e per gli USA dove produttività del, e redditi da, lavoro crescono fondamentalmente in parallelo, paese per paese, dall’immediato secondo dopoguerra [qui i dati dal 1979 al 2008: andate a pagina 6 e studiate la Table B; se troviamo il tempo magari nei commenti mettiamo anche quelli per gli anni precedenti al 1979 e per il 2009]. In alcuni paesi, come la Germania o gli USA, la produttività è cresciuta maggiormente e maggiormente sono cresciuti i salari per ora lavorata, per altri (come Italia e Spagna) la produttività è cresciuta pochissimo e pochissimo son cresciuti i salari. Ma la divergenza tanto conclamata nella lettera è completamente assente nei dati.
Riguardo ai consumi, o al sottoconsumo, occhio al trucco: nella "Lettera" si parla di “capacità di consumo”, termine ambiguo che potrebbe riferirsi al reddito disponibile dei lavoratori. Quest’ultimo è, in prima approssimazione, uguale al reddito lordo da lavoro meno tasse, contributi ed altri pubblici balzelli. Poiché sia tasse che contributi sono certamente cresciuti più del reddito stesso e certamente vero che il reddito disponibile delle famiglie è cresciuto meno della produttività del lavoro. Questo è particolarmente vero in Italia dove lo stato-piovra viene erodendo il reddito disponibile del settori privato da vent’anni a questa parte. Ma è lo stato che erode, non il mercato. E più stato, come vedremo in seguito, è ciò che gli estensori della "Lettera degli economisti" vogliono.
Dal sottoconsumo alla Germania che non balla la danza della spesa.
Ma perché menarsela con la pappardella teorica sul sottoconsumo col rischio che qualche vecchio economista liberista-fu-marxista come noi li sbertucci? Perché la pappardella serve a preparare l'asso, che infatti i nostri estensori calano subito dopo: responsabili dei problemi economici dell'Europa tutta sono i cattivi tedeschi.
[..] la Germania, da tempo orientata al contenimento dei salari in rapporto alla produttività, della domanda e delle importazioni, e alla penetrazione nei mercati esteri al fine di accrescere le quote di mercato delle imprese tedesche in Europa. Attraverso tali politiche i paesi in sistematico avanzo non contribuiscono allo sviluppo dell’area euro ma paradossalmente si muovono al traino dei paesi più deboli. La Germania, in particolare, accumula consistenti avanzi commerciali verso l’estero, mentre la Grecia, il Portogallo, la Spagna e la stessa Francia tendono a indebitarsi.
I tedeschi, come i capitalisti della storiella del sottoconsumo, diventano sempre più produttivi, ma non acquistano beni e servizi per un valore pari a cio’ che producono; evidentemente amano “tesaurizzare”, come direbbero costoro, ossia nascondere i soldi sotto il materasso. In altre parole, i tedeschi (a differenza di praticamente tutti gli europei) sono come Paperon de Paperoni ed accumulano denaro per il piacere del denaro. Sia chiaro: DENARO deve essere, insulsi pezzi di carta, anzi insulse cariche elettriche in un frammento di silicio, perché se fossero beni e servizi di qualsiasi tipo il ragionamento cascherebbe subito. Son fatti così, i tedeschi, lavorano e non consumano. Schnell. Kaputt.
Insomma, la crescita economica tedesca da un lato avviene per magia – mai ci viene detto come sia che quei mangiapatate producono sempre più beni e servizi lavorando sempre meno ore, ossia diventando sempre più produttivi – e dall’altro si risolve in una Germania che vende a credito al resto d’Europa i propri beni, in cambio di scariche elettriche. Si', perché qualunque cretino che è in grado di fare due più due capisce che, se è la domanda del resto d’Europa che assorbe la sovrapproduzione tedesca e se il resto d’Europa acquista più di quanto produce, allora questo eccesso di acquisti deve avvenire a credito. Insomma, i tedeschi in tutti questi anni hanno lavorato tanto e son diventati più produttivi per far consumare di più il resto degli europei che (di nuovo per ragioni che i nostri eroi non sanno spiegarci) non riescono ad essere maggiormente produttivi però son ben contenti di indebitarsi, nelle più molteplici forme, con le formiche tedesche.
Le analogie tedeschi=capitalisti vs altrieuropei=lavoratori giocano un ruolo chiave nella retorica populistica che sottende la "Lettera". Ma perché tutto questo generi compassione ideologica post-marxista nei confronti del lavoratore italiano (che non lavora, o lo fa in modo improduttivo, ma mangia a sbafo) e invece disprezzo ideologico post-marxista nei confronti del lavoratore tedesco (che lavora e fa la fame per far mangiare l'italiano) non lo capiamo. Ma non lo capiamo davvero. L'ideologia post-marxista ha i suoi problemi, ma qui non si tratta nemmeno di logica: perché la difesa dei lavoratori non contempli quelli tedeschi, che oltretutto lavorano per gli altri, davvero pare incomprensibile. Notate, per esempio, la chiusa degna d’un Victor Hugo (o d’un Pascoli) sulla grande proletaria che forse non s’è mossa ma certo consuma quello che non potrebbe:
Persino l’Italia, nonostante una crescita modestissima del reddito nazionale, si ritrova ad acquistare dalla Germania più di quanto vende, accumulando per questa via debiti crescenti.
Struggente, no? La povera e proletaria Italia, che per qualche cattiveria liberista mondiale ha una produttività del lavoro che non cresce da un decennio, sempre meno gente che lavora e sempre più gente assistita, un settore pubblico inefficiente e costosissimo, delle tasse che fanno passare la voglia di lavorare anche a Giobbe, la povera e proletaria Italia, anche lei poverina finisce per farsi prestare i soldi dalla terribile Germania pur di consumare un po’ di più di quanto potrebbe! Chi se ne frega che la suddetta Italia abbia un rapporto fra ricchezza e reddito prodotto che è quasi un record mondiale e che l’indebitamento italiano sia dovuto tutto alla spesa pubblica!
Onde per cui dovrebbe risultare anche chiara la conclusione a cui il ragionamento del sottoconsumo conduce: la crisi del debito sovrano è dovuta al fatto che i paesi europei, indebitati con i tedeschi, ora non sanno o non vogliono ripagare. E quindi? Fuck the Germans! In realta', che sia fondamentalmente con i tedeschi che i governi europei si sono indebitati è platealmente falso. Ma se anche così fosse, cosa c’entrano liberismo e mercati con il fatto che i tedeschi son diventati più produttivi e ci hanno fatto consumare a credito i loro beni, a noi che più produttivi non siamo riusciti o non abbiamo voluto diventarlo? Mistero della fede. Perché indubbiamente di fede si tratta.
Sui movimenti di capitale ed altre diavolerie del capitalismo finanziario e dei mercati efficienti.
Arriviamo al volo pindarico più affascinante, forse, dell’intero documento. Tutto questo indebitarsi di tutta l’Europa per far contenti i tedeschi (e gli svedesi ed altri nordici, a dire il vero, ma quelli non vengono menzionati perché come fai a vendere la culla del sogno socialista come una maledetta nemica dell’umanità?) avviene perché c’è libertà di movimento dei capitali. In effetti è vero: se non ci fosse libertà di farsi prestiti uno con l’altro nessuno si indebiterebbe, no? Forse quello è il mondo che “gli economisti” preferiscono. Ma, aspetta, forse che prima del 1986-1999 (durante questo periodo si sono liberalizzati i mercati finanziari europei ed introdotto l’euro) non c’erano deficit commerciali, paesi che accumulavano debito ed altri che accumulavano surplus? Deve essere stato così perché la loro teoria implica che solo quando la maledetta libertà di movimento dei capitali viene introdotta si realizzino gli “squilibri”. Ma suvvia!
E poi cosa c’entra la presunta efficienza dei mercati finanziari con l’Italia che si indebita e la Germania che presta? Nulla, che i prestiti si fanno indipendentemente dall’efficienza teorica o meno dei mercati finanziari, ma tutto fa brodo: la retorica è sempre utile ad aizzare le masse. Peccato crolli davanti a fatti banalissimi.
E comunque, al solito, nelle affermazioni sulla Germania e il suo debito non siamo solo di fronte all'incoerenza logica ma al non fatto. Come abbiamo visto il surplus tedesco sarebbe la fonte del debito degli altri paesi europei. Ancora, uno non sa se ridere o se piangere. Perché, da un lato, il governo tedesco è quasi tanto indebitato quanto il resto d’Europa e questo lo sanno anche i sassi (quindi niente link ai dati, che anche il nostro tempo vale qualcosa). E, dall’altro, la grandezza dell’indebitamento pubblico in paesi come l’Italia (o il Giappone, che ha il 200% di debito pubblico su PIL, eppure esporta come una bestia) è incommensurabile al minuscolo surplus commerciale della Germania con l’Italia! Insomma, le due cose non hanno tra di loro relazione alcuna. Cosa abbia determinato l’indebitamento pubblico di Italia, Grecia, Portogallo, Spagna, Francia, UK ... Germania lo sappiamo tutti. La spesa pubblica, quella che "gli economisti" vorrebbero maggiore. Siamo sempre lì. A strizzarla troppo la salsiccia, si finisce per rompere il budello ed esce la carne. Torniamo alla salsiccia, oops, alla teoria.
In realtà, i 100 economisti avrebbero potuto, a questo punto, fare un’osservazione che, ancorché corretta, forse ha implicazioni sgradevoli per la loro ideologia. L’osservazione è la seguente: prima dell’euro l’indebitarsi eccessivo dell’Italia con la Germania provocava una svalutazione della lira rispetto al marco. Questa comportava inflazione in Italia, erosione del potere d’acquisto dei salari italiani, riduzione sia della domanda interna italiana che dei costi (prezzi) dei beni italiani espressi in marchi ed un ribilanciamento dei deficit commerciali. Notate la cosa importante, e sgradevole per i 100, di questa classica storiella: nel mondo precedente all’euro la “soluzione” del problema consisteva nell’impoverimento dei lavoratori (italiani) via inflazione. Questa è l'usuale "soluzione keynesiana”: inflazionare affinché i salari nominali, che non si aggiustano rapidamente, vedano ridotto il loro potere reale di acquisto. I rivoluzionari estensori della lettera, che combattono contro il "profilo liberista del Trattato dell’Unione" per conto della classe dei lavoratori, cosa dicono? Si guardano bene dal menzionarla la "soluzione keynesiana”, nella Lettera degli economisti. E allora lasciatelo dire a noi che l’introduzione dell’euro, evitando l’inflazione e la svalutazione delle monete di paesi che, come l’Italia, sono governati da una classe dirigente populista ed incompetente, ha in realtà difeso il potere d’acquisto delle famiglie costringendo le classi dirigenti medesime a confrontarsi con i due problemi, strettamente correlati, di un eccesso di spesa pubblica da un lato e di una mancanza di crescita della produttività dall’altro.
Sull'indebitamento pubblico, la speculazione finanziaria e le vendite allo scoperto
A questo punto l’analisi si fa confusa. Perché da un lato ci sono le “contraddizioni reali” (come chiamano nella "Lettera" le invenzioni fattuali testé descritte) e dall’altra ci sono gli speculatori che stanno cercando di far “deflagrare” l’euro solo perché ci credono. Self-fulfilling prophecies, come si chiamano. [Ignorate, dopo aver sorriso, la pappardella finto-teorica finale: gli equilibri basati su sunspots (che sono ciò che "gli economisti" hanno confusamente in mente) non richiedono nessuna asimmetria informativa o potere di monopolio per essere possibili.] Qui interessa la logica di questi “speculatori”. Essi vogliono far "deflagrare l’euro" che consiste in (prendiamo il caso italiano): uscita dell’Italia dall’euro, ritorno alla lira, inflazione interna e/o default sul debito pubblico. Bene, chi ci guadagna se succede una cosa del genere? Evidentemente gli indebitati i quali o non pagano il debito contratto o lo fanno con moneta nazionale inflazionata. Ma chi è indebitato? Nel caso dell’Italia il governo italiano, innanzitutto! E con chi? Per buona parte con i propri cittadini che, via il sistema bancario, detengono il debito pubblico italiano, ma anche con i cittadini tedeschi, francesi, inglesi e financo cinesi che in questi anni hanno acquistato tale debito. Questi sono coloro che ci perderebbero e, guarda caso, sono questi (via le loro banche ed i loro gestori di fondi) che in questi mesi sono sempre piu riluttanti a continuare a prestare denaro a Italia (Grecia, Spagna, eccetera) ai bassi tassi d’un tempo. Gli speculatori cattivi, quindi, quelli che vogliono far deflagrare l'euro sono contemporaneamente coloro che da tale evento (la deflagrazione dell'euro) subirebbero sostanziali perdite! Non c’è che dire: i cattivi speculatori son tutti anche scemi. Avete presente Tafazzi? Ma chi gliela dà la bottiglia? Sarà come la corda di leninista memoria?
Ma è mai possibile che questi speculatori siano davvero scemi come Tafazzi? Dovrà pur esserci una maniera perché ci guadagnino! E qui sta una fondamentale confusione che, a discolpa dei nostri "economisti", non sono certo gli unici a fare. È da quando è iniziata la crisi due anni fa che tutti in coro ripetono che i derivati sono cose diaboliche e incomprensibili, che nemmeno gli speculatori che li usano capiscono bene cosa siano (e dagli con gli speculatori stupidi). Basterebbe fermarsi un minuto a ragionare per capire che i dettagli saranno anche complessi (ma avete mai provato a leggere il contratto di leasing della vostra auto o di affitto del vostro appartamento?) ma, alla base, il meccanismo della speculazione finanziaria ed i mercati dei derivati sono cosa semplice. Infatti, ci vuole un altro minuto per capire che una scommessa è la posizione opposta di una assicurazione, che ogni volta che ci assicuriamo la società di assicurazione fa una scommessa contro di noi. Le operazioni speculative (e i contratti derivati con cui si portano a termine) sono esattamente questo, uno scommette e l'altro assicura. Quindi, necessariamente, se uno perde l'altro vince. Quindi, da tutta questa speculazione contro l'euro e i poveri greci, metà degli speculatori ci guadagnano e metà ci perdono (metà in valore, non in teste; a voler essere precisi).
Tra gli speculatori, in questo momento, metà vendono allo scoperto debito pubblico di paesi che essi si aspettano fare default, in un modo o nell’altro. Vendere allo scoperto vuol dire promettere ad un altro che gli si consegnerà la cosa X in una data futura, stabilendo ora il prezzo della medesima. Chi vende allo scoperto ci guadagna se, tra ora e la data futura stabilita, il prezzo della cosa X cala il che gli permette di comprarla ad un prezzo inferiore allo stabilito, realizzando un profitto. Ci sono mille varianti di queste scommesse (le chiamano derivati) ma la sostanza è sempre la stessa. Se metà vendono allo scoperto, metà comprano. Se gli uni guadagnano, gli altri perdono, e viceversa. Per vendere X allo scoperto al prezzo P occorre che qualcun altro compri X al prezzo P sapendo che non ce l’hai! Ossia, quel qualcuno deve sia sapere che stai facendo una scommessa sia sperare che quella scommessa la perdi, ossia deve essere disposto a scommettere l’opposto di quello che scommetti tu! Anche costui, cari nostri, è uno speculatore. Non comprendere questo dà forma a tutto un coacervo di affermazioni semi-etiche sugli speculatori cattivi, a tutta la confusione di fondo di cui la "Lettera" così come i giornali sono pieni. Comprendere questo da parte de "gli economisti" eviterebbe loro di dover, a rigor di logica, distinguere tra speculatori “buoni” e “cattivi”! Figurarsi, i marxisti ora saprebbero anche distinguere fra grassi e sudati buoni e grassi e sudati cattivi!
Eccoli dunque i maledetti speculatori, li abbiamo smascherati finalmente! Può essere così semplice? Si', è proprio così semplice. Ma nessuno glielo ha spiegato alla nostra Angela Merkel? Se lo avessero fatto, avrebbe capito che proibire le vendite allo scoperto, come ha tentato di fare alcune settimane fa, sarebbe stato inutile e avrebbe creato lo scompiglio che infatti ha creato. Essere tedeschi evidentemente non esime dal cadere negli stessi patetici errori in cui cadono i professori italiani.
Spesa pubblica, debito, risparmio, consumo, moltiplicatore e crescita
A questo punto del manifesto rivoluzionario le cose cominciano ad annebbiarsi ancor più. Le politiche tanto odiate (ossia: i tagli alla spesa pubblica) diventano semplicemente politiche “depressive”, il che ovviamente è una pessima cosa: nessuno vuole essere fonte di depressione. Peccato che i cattivi maestri che le hanno smascherate non abbiano la pazienza di spiegarci perché tagliare la spesa pubblica sia una politica depressiva. Prima di farlo noi, vale la pena sottolineare due cosuccie. La relazione fra le politiche in questione e le famigerate “teorie liberiste” è per lo meno tenue, ma i nostri trovano in tali espressioni vuote una grande soddisfazione. È il loro contributo al dibattito scientifico, per così dire: come i bambini, dividere il mondo in indiani e cow-boy. In secondo luogo, cosa c’entra il taglio della spesa pubblica con la “desertificazione produttiva” e la “deflazione da debiti”? Nulla, che noi si riesca a capire, ma a loro deve suonare bene, ed allora via, che il rigore logico l'abbiamo perso da tempo.
Ma ridurre la spesa pubblica, in date circostanze, potrebbe o meno avere effetti recessivi? Certo. La ragione è banale: nel breve periodo ridurre la spesa pubblica elimina componenti di domanda per imprese in essere che devono quindi trovare qualcos’altro da fare o altri acquirenti per i propri beni e servizi. Nel frattempo, potrebbero dover ridurre la produzione. Il tutto, ovviamente, è un puro effetto di breve periodo che richiede un riaggiustamento di prezzi relativi ed allocazione delle risorse e che, di per sé, non ha alcun effetto sulla crescita di lungo periodo. Per i dettagli rinviamo ad un post che (come sarà mai?) utilizza terribili argomenti “liberisti” per argomentare che i tagli di spesa debbono essere sia più grandi che più sistematici che, soprattutto, accompagnati da riduzioni parallele della pressione fiscale.
Cerchiamo però di essere chiari: i tagli di spesa pubblica vanno fatti, in Italia e altrove, non per ridurre il deficit e il debito, ma perché sono risorse mal occupate e mal investite.
Questo è un punto ovvio a chiunque, tranne a coloro che alla fine degli anni '70 si siano rinchiusi in una biblioteca a studiare Keynes, Marx, e Sraffa, uscendone solo per far politica universitaria (coi meravigliosi effetti sotto gli occhi di tutti). Infatti, per ragioni storiche di evoluzione del pensiero economico, Keynes, Marx, e Sraffa lavoravano con modelli aggregati che poco spazio lasciavano a questioni di political economy (purtroppo, in questo i tre in questione si distaccavano dagli illustri padri della tradizione inglese). Il fatto che poi i loro modelli non avessero prezzi, o li avessero "sbagliati", non li ha aiutati a connettere political economy e l'inefficiente allocazione delle risorse. Non è il caso di entrare in dettaglio, qui, ma è importante notare che il letterone mai spende una parola ad argomentare questioni di allocazione delle risorse. Con tanto cianciare di contraddizioni logiche ed incompletezza del modello di equilibrio economico generale (la loro vera bestia nera, che proprio non lo capiscono!) costoro si sono rimbesuiti e hanno rimbesuito i propri studenti. [Nota di colore: uno di noi ricorda come fosse oggi l'imbarazzo di uno degli estensori, Giorgio Lunghini, anni fa quando insegnava Sraffa in Bocconi, alla menzione da parte di uno studente del fatto che il modello sraffiano fosse un caso particolare del modello di equilibrio generale.]
Detto questo, quali saranno, dunque, le ragioni dei nostri eroi per chiedere più spesa, più spesa, più spesa? La ragione per cui i 100 ritengono che qualsiasi aumento di spesa pubblica abbia effetti espansivi in una recessione è la stessa per cui essi ritenevano che qualsiasi riduzione della spesa pubblica avesse effetti recessivi in una fase di crescita (degli altri, perché noi di crescita, ne abbiamo vista ben poca negli ultimi 15 anni). Come il paziente lettore potrà verificare, gli argomenti dell' "Appello degli economisti" del 2006 sono gli stessi della "Lettera degli economisti" di adesso: i rimedi di politica economica dei nostri sono invarianti alle circostanze concrete in cui si devono applicare. Recessione, crescita, crisi finanziaria, tutto fa brodo, nulla cambia, panta rei, .... la soluzione è sempre spendere, spendere. Perché?
Perché non avendo i nostri alcun modello capace di spiegare la crescita economica e tutto il resto sono ridotti a ripetere ossessivamente le solite panzane: la capacità produttiva cade dal cielo, essa esiste ed è sempre sottoutilizzata. In particolare, c’è sempre disoccupazione strutturale che si potrebbe occupare in opere utili e profittevoli se solo ci fosse la domanda. Ma la domanda privata non c’è (per le misteriose ragioni spiegate all’inizio secondo cui i “padroni” i profitti non li spendono ma nascondono sotto il materasso) quindi va sostituita con quella pubblica. Lo stato deve continuare ad indebitarsi e ad imprimere moneta, per spendere e spandere.
Ma come si finanzia la spesa? Lo capiscono i nostri che dopo aver speso bisogna ripagare i debiti? Si' e no. La spesa si autofinanzia fiscalmente ... dicono, basta che ci sia il moltiplicatore giusto. O meglio, lo fanno intendere:
le politiche di “austerità” abbattono ulteriormente la domanda, deprimono i redditi e quindi deteriorano ulteriormente la capacità di rimborso dei prestiti da parte dei debitori, pubblici e privati.
Ma è cosa a cui tengono, perché appare anche nel precedente "Appello":
[se si tagliasse la spesa pubblica] da un lato, si avrebbe una ulteriore compressione della domanda aggregata e quindi dei livelli di attività economica, con riflessi negativi sullo stesso bilancio pubblico.
Che il tutto sia incoerente - come fa ad esserci il moltiplicatore giusto se, una volta che la spesa pubblica entra nel mercato si genera sottoconsumo? Non si contraddicono sottoconsumo e moltiplicatore? Questo è il bello dei modelli incoerenti, ci si inventa un numero per il moltiplicatore, anche se il numero fa a pugni con il resto della storia. Basta nascondere la funzione del moltiplicatore nella storiella sul sottoconsumo, et voilà tout se tien.
Ma non è finita qui, qualcuno l'ha già sentita questa storia della spesa che si autofinanzia? Pensateci bene! È una versione al contrario della curva di Laffer, quella supply-side economics reaganiana che i nostri senza dubbio considerano una delle più grandi abiezioni dell'economia liberista. L'idea di Laffer è che abbassando le tasse si crea tale e tanto prodotto che le finanze pubbliche ne guadagnano (essendoci una tassa inferiore su una base imponibile maggiore). Lo stesso qui, dove invece di abbassare le tasse si aumenta la spesa. Le affermazioni di Laffer, sono campate per aria - cioé non sostanziate dai dati - ma sono un pelo meglio della versione al contrario "degli economisti", perché abbassando le tasse si tolgono inefficienze e distorsioni mentre aumentando la spesa si aggiungono. Ma bando alle sottigliezze, non di Laffer vogliamo parlare (lo abbiamo già fatto, rimandiamo al post). Ci piaceva sottolineare l'ironia: i nostri post-marxisti che vanno supply-side reaganiana senza accorgersene. A quando l'edonismo?
Infine, l'angolino un po' più serio e dottrinale: l'idea secondo cui è un aumento della domanda/spesa per consumi che produce la crescita è contraddetta sia dalla logica che dai dati. Della logica abbiamo già detto però ci preme osservare che nemmeno nei casi speciali del modello di equilibrio economico generale cari agli estensori della lettera succede quanto da loro sostenuto. Infatti, nella versione semplificata di Von Neumann che Sraffa utilizza non c'è crescita. Come non c'è crescita in Keynes, che nel lungo periodo siamo tutti morti salvo quando siamo vivi. Nelle versioni più sofisticate di tali modelli - prodotte soprattutto da Luigi Pasinetti, che però non firma questa lettera - la crescita c'è ma, guarda caso, è esogena! Insomma, si cresce perché si cresce e non è certo il moltiplicatore che ci fa crescere. Idem, ovviamente, nel modello marxista in cui la crescita avviene perché i capitalisti vogliono aumentare i profitti, investono in nuovi prodotti ed in nuovo capitale, eccetera. Insomma, costoro continuano a parlare di crescita senza avere a disposizione nemmeno uno straccio di modello teorico che possa permetterci di cominciare a riflettere su cosa determina la crescita economica!
Nonostante questa povertà teorica i nostri ripetono, con una faccia tosta davvero incredibile, che la crescita viene dall'aumento del consumo via un qualche meccanismo del tipo moltiplicatore. Ed anche qui l'evidenza storica e statistica è schiacciante e li schiaccia. Nel lungo periodo crescono di più i paesi che risparmiano ed investono di più, fine! Basta guardare a casa propria per rendersene conto: l'Italia cresceva quando il tasso di risparmio era alto, ora che è basso non cresce. Il Giappone dal 1993, quando ha smesso di crescere, ad oggi ha visto il proprio tasso di risparmio diminuire dal 16% all'attuale 3% circa. Cina, India e Turchia, che crescono come scheggie, hanno tassi di risparmio impresionanti (superiore al 30% le prime due, quasi 20% la terza). E così andando, sino agli USA che dopo una decada e mezza di sollazzi consumistici si son trovati nella soluzione che tutti conosciamo. Ora, finalmente, anche le famiglie americane stan provando a risparmiare un pelino di più ...
Sulle proposte di politica economica alternativa basate sui fondamenti di tanta teoria.
Le proposte contenute nella seconda parte della "Lettera", nonostante le tante parole ed i tanti proclami che le accompagnano, si riducono a poco di nuovo e niente di buono: stampare moneta (la BCE deve comprare tutto il debito pubblico che ci sia in giro, senza sterilizzarlo, ossia la BCE deve diventare la stampante dei governi europei perdendo qualsiasi livello di autonomia!), emettere maggior debito per finanziare maggior spesa, fare marcia indietro con le privatizzazioni ricostruendo l’intervento pubblico diretto in economia, impedire ai fondi pensione d’accedere ai mercati finanziari, restringere il movimento di capitali, merci e persone.
Niente di nuovo perché sono le stesse proposte contenute nell'"Appello" al governo Prodi. Proposte che non per niente paesi come la Grecia (uno a caso) hanno seguito. Facevano i gradassi, allora i nostri "economisti". Spendete, spendete, dicevano, tanto i mercati se anche impazziscono lo fanno a caso, non vanno contro quei paesi che hanno le finanze più in disordine (perché dovrebbero? Gli speculatori cattivi se la possono prendere con chiunque! Magia delle self-fulfilling prophecies e della cattiveria). La loro incomprensione del funzionamento dei mercati finanziari, che speculerebbero sui bilanci pubblici indipendentemente dalle condizioni dei bilanci pubblici stessi, li aveva già portati a questo (ma chi se lo ricorda, avranno pensato? O forse non se lo ricordano nemmeno loro. Ma noi siamo cattivi):
[...] l’unificazione monetaria europea e la presenza di un mercato finanziario integrato hanno fortemente ridimensionato i differenziali tra i tassi d’interesse dei paesi membri, e non sussiste alcun motivo tecnicamente plausibile per attendersi incrementi significativi e duraturi di tali differenziali [neretto nostro, AB&MB]. Qualsiasi riferimento ad eventuali reazioni avverse da parte dei mercati andrebbe pertanto seriamente argomentato sul piano tecnico-scientifico, anziché essere semplicisticamente evocato.
Mica male come predizione fallita, no? Che sfiga, invece, proprio con la Grecia se la sono presa i mercati finanziari!
E poi aggiungevano i nostri 100 economisti (letto adesso sembra proprio parlassero ai Greci): e chi se ne frega dei vincoli europei, lo sanno tutti che sono fasulli,
[..] è opportuno ricordare che il Trattato dell’Unione non prevede sanzioni rispetto al vincolo del debito pubblico al 60%, e che le sanzioni previste per i paesi il cui deficit superasse il limite del 3% non sono finora mai state applicate, nonostante le significative e ripetute violazioni.
[...]
L’eventuale esigenza di ulteriori riduzioni del rapporto tra deficit e Pil [...] andrebbe comunque esaminata tenendo conto della mancata applicazione di sanzioni nei confronti di quei paesi membri che negli anni passati presentavano “disavanzi eccessivi”.
Poco di buono perché le proposte sono come La Corazzata Potemkin nella celebre sintesi fantozziana ... Non ce n'è una che stia in piedi. In breve, che non ce la facciamo più (immaginiamoci voi):
- Stampare moneta ci porta alle bolle degli anni scorsi, all'inflazione anni '70, agli assegnini - ve li ricordate gli assegnini? Per cui meglio che BCE continui a sterilizzare invece d'innondare il continente di biglietti inutili.
- Emettere maggior debito per finanziare maggior spesa ci porta alla Grecia - dritti dritti.
- Fare marcia indietro con le privatizzazioni ricostruendo l’intervento pubblico diretto in economia ci porta all'IRI, all'Argentina, all'inefficienza generalizzata e statalizzata. A questo ci sta pensando già Giulio Tremonti, perché volete dargli una mano?
- Impedire ai fondi pensione d’accedere ai mercati finanziari ci porta alla vendita dei bond Cirio e Parmalat (per non parlare di quelli argentini) alle vecchine.
- Restringere il movimento di capitali, merci e persone ci porta .... dove ci porta, boh, fate voi, non in un bel posto. Diciamo che il protezionismo è la ciliegina finale ...
Gesù. Non finisce più!
Gracias companeros.