Comincerei osservando, anzitutto, che le leggi elettorali dovrebbero essere parte integrante di quel “contratto sociale” che sta idealmente alla base della legittimazione del potere politico e statale. Mi rendo conto che questo sia argomento "teorico" e alquanto idealistico, con poco impatto mediatico in un paese assetato sino allo sfinimento dal "cambiamento al più presto possibile". Nondimeno, siccome non credo al cambiamento per il cambiamento ma credo solo al cambiamento ben fatto, ricorderei questo principio fondamentale. Qualsiasi riforma che riguardi il disegno istituzionale di un paese dovrebbe essere oggetto di un ampio dibattito pubblico ed essere sostenuta da un'ampia maggioranza degli elettori; non dovrebbe essere il frutto di un accordo fra singole forze politiche che rappresentano, alla fine, solo una minoranza qualificata del corpo elettorale.
Che a Silvio Berlusconi questo modus operandi, che antepone l’interesse di pochi a quello di tutti, sia gradito, non sorprende. Ma che questa forma di bonapartismo a mezzadria sia il nuovo che Renzi propone all'Italia non mi sembra una buona idea. Perché, piaccia o meno, l'accordo attuale altro non è che il Porcellum peggiorato con soglie di sbarramento maggiori ed emendato della propria incostituzionalità attraverso la scelta del 37% come soglia per accedere al premio di maggioranza. E se il giustamente vituperato Porcellum faceva schifo, la sua versione peggiorata non può far meno schifo. Per tre ragioni essenziali.
(1) Se il primo obiettivo della legge elettorale é la "governabilita'", ossia assicurare che dopo ogni elezioni vi sia una maggioranza parlamentare ben definita, l'adozione simultanea del premio di maggioranza e di soglie di sbarramento dell’8% o del 12% non serve proprio. Questa combinazione nei paesi democratici non ce l'ha nessuno (Sandro Brusco mi informa che la Grecia ha premio di maggioranza e sbarramento al 3%, io non conosco altri paesi con simili regole). Come argomenterò in quel che segue, questa compresenza non solo non serve a raggiungere l'auspicata "governabilità" ma la danneggia gravemente massacrando, al contempo, la contestabilità elettorale della maggioranza, essenza d'un sistema democratico.
(2) È perfettamente senza senso approvare una riforma elettorale che non sia organicamente collegata ad un nuovo disegno del sistema istituzionale in cui questa opera: questo disegno non c'è come l'assurdo dibattito sul Senato conferma da solo. Ma, soprattutto, non si può adottare una legge elettorale senza risolvere la strisciante questione del "presidenzialismo", l'insoddisfatta domanda di "federalismo", le regole di selezione dell’esecutivo e del Presidente della Repubblica ed i loro rispettivi poteri ...
(3) Il problema della "rappresentatività" degli eletti al parlamento rimane intatto: che i collegi siano più piccoli implica nulla, sono ancora le segreterie dei partiti, composte di pochi unti del signore con il monopolio del potere politico, a decidere chi rappresenta il popolo italiano e chi no. Questo genera un sistema politico monopolizzato e bloccato, esattamente come fece con il Porcellum. Anzi, viste le soglie, ancor più bloccato!
L'Italia ha invece bisogno di un profondo ripensamento del suo assetto istituzionale che si proponga di conseguire almeno quattro obiettivi essenziali:
- ridurre il perimetro del sistema partitocratico, permettendo agli elettori di scegliere i propri rappresentanti e rendendo il mercato politico “contendibile”, ossia aperto all’entrata dei nuovi soggetti politici che si originano nella società civile;
- garantire la governabilità del Paese, permettendo la formazione in Parlamento - sia esso uni- o bi-camerale: una questione, questa, da decidersi secondo altri criteri e su cui tornerò in un altro momento - di maggioranze solide a seguito delle elezioni;
- favorire larappresentatività politica del Parlamento, salvaguardando il diritto delle minoranze a essere rappresentate, esprimersi e offrire all’elettorato un’alternativa ai partiti al potere;
- adottare un'organizzazione federalista dello stato, che operi la contestuale ridefinizione della struttura e dei poteri degli enti locali, rendendoli direttamente responsabili dinanzi ai cittadini delle spese fatte e dei prelievi imposti per finanziarle.
Com'è possibile perseguire simultaneamente questi obiettivi che sono, palesemente, quelli che da almeno trent'anni grande parte dell'opinione pubblica auspica raggiungere? In un paese frammentato socialmente com'è oggi l’Italia, è illusorio pensare di garantire la governabilità con trucchi elettorali che precludano la rappresentanza a fasce significative di popolazione: la soglia di sbarramento dell'8% prevista dall’Italicum corrisponde a circa 4 milioni di elettori, quella del 12% a quasi 6! I “partiti piccoli” devono essere superati mediante processi di reale aggregazione sociale e politica e non con un colpo di mano dei partiti che sono, oggi e forse momentaneamente, “grandi”. E un partito che, potenzialmente, rappresenta 4 milioni di persone è tutto fuorché "piccolo"!
Questo perché, in primo luogo, un’aggregazione surrettizia delle forze in campo, basata sul ricatto della sopravvivenza, porterà molto probabilmente alla creazione di due “partiti-società per azioni”, identici ed opposti. Due contenitori elettorali differenziati ideologicamente ma non programmaticamente, internamente divisi in correnti tenute assieme solo dal collante elettorale. In un simile contesto la “governabilità” sarà nient’altro che ostaggio degli equilibri fra i gruppi di interesse interni ai due contenitori elettorali. Un esempio di questo l'abbiamo avuto nel governo Prodi 2006-2008 e ancor più nel governo Berlusconi 2008-2011: nessuno dei due ha saputo governare il paese.
In secondo luogo, impedire l’accesso al Parlamento delle minoranze “moleste” - oltre a privare di rappresentanza fasce enormi di popolazione - impedisce qualsiasi intervento sulle radici profonde della frammentazione sociale del Paese e, quindi, la sua reale modernizzazione. Solo garantendo rappresentanza alle varie identità sociali e politiche presenti sarà possibile assicurare il dibattito democratico e la sintesi parlamentare occorrenti per l’adozione di politiche che, eliminando alla radice le cause della frammentazione, ricostruiscano aggregazioni socio-politiche ampie ed internamente coese. Affinché possano essere realizzati interventi in grado di superare la disgregazione sociale del Paese, la legge elettorale non deve garantire solo governabilità e rappresentatività, obiettivi che l'Italicum manca. Occorre che l'attività parlamentare e di governo siano anche il frutto di un sistema istituzionale complessivamente coerente, adeguato all'assetto socio-economico del Paese (il nostro non lo è) e capace di selezionare una classe dirigente in grado di governare nell’interesse della grande maggioranza della popolazione. La nostra classe dirigente, platealmente, non possiede tali caratteristiche e, con questo ennesimo sopruso, prova d’essere interessata solo all’acquisizione e al controllo del potere politico fine a se stesso.
Ecco di seguito, in cinque brevi capitoli, gli elementi fondamentali di una proposta di riforma della legge elettorale che permetterebbe un sostanziale passo avanti nella direzione giusta. Mi limito all'elezione della Camera dei Deputati e menziono il Senato per definirne le competenze al solo fine di eliminare l'attuale bicameralismo perfetto. Questo perché stabilire seriamente le competenze e il metodo d'elezione del Senato richiede anzitutto decidere se l'Italia vuole diventare un paese a struttura "federale" o no, e quali siano le entità elementari che si federerebbero in essa. Senza queste scelte il Senato serve a nulla e la miglior riforma è quella più semplice: abolirlo.
I. Eliminazione del bicameralismo perfetto
Il potere legislativo nazionale dovrebbe essere suddiviso fra le due camere in base al principio di specialità. Alla Camera dei Deputati - ridotta a 400 componenti più quelli, che chiamerò D, necessari a garantire il premio di maggioranza quando questo scatti (vedi infra punto c)), eletti su base territoriale in distretti uninominali equipopolati - dovrebbe essere riservata la potestà legislativa nelle materie di competenza esclusiva statale e la concessione della fiducia al Primo Ministro. Il Senato, definito su base regionale o macroregionale, dovrebbe invece essere composto da 100 senatori, avrebbe potestà legislativa nelle sole materie a competenza concorrente stato-(macro)regioni o esclusiva delle (macro)regioni. L’elezione dei rappresentanti alla Camera in collegi uninominali e al Senato su base regionale favorirebbe il rafforzamento del vincolo tra eletti ed elettori, promuovendo il federalismo e garantendo la responsabilità degli eletti verso il corpo elettorale, senza risolverla nella dipendenza dalle strutture di partito insita nell'adozione di liste bloccate.
II. Introduzione fiducia costruttiva
Diversamente da quanto oggi previsto dalla Costituzione (art. 94), che prevede la possibilità che ciascuna Camera possa sfiduciare il Governo ad esito di votazione su una mozione proposta da 1/10 dei propri parlamentari, si introduce l’istituto della fiducia costruttiva. In sostanza, solamente la Camera dei Deputati – cui compete il potere legislativo nelle materie di competenza statale - potrà chiedere al Presidente della Repubblica di revocare il Primo Ministro a patto di avere già designato, a maggioranza assoluta, un suo sostituto. L’istituto della fiducia costruttiva ha la finalità di vincolare i parlamentari, coerentemente con l’art. 67 della Costituzione, al mandato conferitogli dagli elettori. Rendendo più difficile l’esercizio della sfiducia, si eliminano gli incentivi all’esercizio della medesima a fini ricattatori verso il Governo di turno favorendone conseguentemente una maggiore stabilità.
III. Ridefinizione dei poteri del Presidente della Repubblica
Analogamente al sistema istituzionale tedesco, l’istituto della fiducia costruttiva implica anche una modifica dei poteri del Presidente della Repubblica, che non potrebbe più sciogliere le camere di sua iniziativa, dopo aver sentito i rispettivi presidenti, così come ora ammesso dalla Costituzione (art. 88). L'unico caso ammesso di scioglimento delle camere da parte del Presidente della Repubblica, infatti, si avrebbe quando nessun Governo (Primo Ministro) dovesse conseguire la fiducia dalla Camera dei Deputati richiesta in sede di nomina o ad esito della proposizione della relativa questione. Coerentemente, al Presidente della Repubblica non spetta alcun potere personale di scelta del Primo Ministro. A divenire Primo Ministro sarà sempre e comunque il candidato premier designato dalla maggioranza esplicita della Camera dei Deputati. Detto altrimenti: il Presidente della Repubblica nomina o ben il premier designato dalla coalizione vincitrice delle elezioni o ben il nuovo premier designato dalla maggioranza della Camera in caso di sfiducia costruttiva.
IV. Legge elettorale
Si propone l'introduzione di un sistema elettorale maggioritario a doppio turno fondato su collegi uninominali. In un sistema uninominale l'intero territorio nazionale viene suddiviso in tanti collegi quanti sono i seggi dell’assemblea da eleggere. In ciascun collegio ogni partito o coalizione di partiti ("partito" da qui in avanti) presenta il nome di un solo candidato da poter eleggere. Un sistema così caratterizzato, se unito a primarie obbligatorieper ciascun partito che intenda presentare un candidato in un determinato collegio, offre la possibilità agli elettori di esercitare il diritto a scegliere le persone che essi ritengono più adeguate a rappresentarli in Parlamento.
V. Determinazione della maggioranza e attribuzione dei seggi della Camera
a) Per il computo nazionale i voti di un partito sono uguali alla somma dei voti ottenuti dai propri candidati, al primo turno, nei 400 collegi uninominali. Il partito "vincitore" - che riceverà la maggioranza dei seggi alla Camera ed eleggerà il Primo Ministro - si determina: al primo turno se il partito con più voti raggiunge o supera il 45% di quelli utili; al secondo turno, secondo le regole descritte in b), se questo non avviene.
b) Al secondo turno partecipano solo i due partiti meglio classificati nel primo, come per l'elezione dei sindaci. Il secondo turno serve solo per la determinazione del "partito vincitore" a cui attribuire il premio di maggioranza.
c) Una volta stabilito, al primo o al secondo turno, quale sia il partito vincitore a cui va il premio di maggioranza, la composizione della Camera dei Deputati si determina con una variante del metodo "tedesco" (ringrazio Sandro Brusco per avermi segnalato che così è ed Andrea Moro per aver suggerito di semplificare la mia proposta iniziale che era più farraginosa). Questo implica che, quando risulti necessario far scattare il premio di maggioranza la Camera dei Deputati avrà 400 + D componenti, dove D viene determinato, a seconda dei risultati, secondo le regole indicate di seguito.
c1) Se al primo turno il partito vincitore ottiene, su scala nazionale, una percentuale X% maggiore o uguale al 52%, non scatta alcun premio di maggioranza. Questo partito riceve l'X% dei 400 deputati ed ha così una maggioranza sufficiente a governare. I rimanenti 400(1-X%) vengono assegnati agli altri partiti. Le regole riportate in d) e seguenti chiariscono come i 400 deputati vengano selezionati.
c2) Se al primo turno il partito con il maggior numero di suffragi ottiene una percentuale Y% - maggiore o uguale al 45% ma inferiore al 52% dei suffragi utili - scatta il premio di maggioranza e, applicando la variazione italiana alla regola tedesca, il parlamento avrà ora 400 + N membri. Poiché il premio di maggioranza deve garantire a questo partito il 52% dei 400+N membri procediamo così. Chiamiamo M il numero intero uguale (per approssimazione) all'Y% di 400 (200 se, per esempio, Y% = 50%). N sarà tale che (M+N)/(400+N) = .52.
c3) Se il partito vincitore viene determinato al secondo turno, procediamo in modo del tutto analogo, mutatis mutandis, a c2). Il parlamento avrà ora 400 + N' membri. Poiché il premio di maggioranza deve garantire a questo partito il 52% dei 400+N' membri procediamo così. Chiamiamo Z% la percentuale totale di voti ottenuta dal partito vincitore al primo turno (questo è un numero inferiore a .45, ovviamente). Chiamiamo ora M' il numero intero uguale allo Z% di 400 (160 se, per esempio, Z% = 40%). N' sarà tale che (M'+N')/(400+N') = .52.
c4) Ai partiti non vincitori spettano i deputati residui. Questi vengono ripartiti in percentuale dei voti ottenuti da questi partiti, su scala nazionale, durante il primo turno.
d) I 400+D deputati - dove D sarà uguale a zero nel caso c1), uguale a N nel caso c2) ed uguale a N' nel caso c3) - vengono selezionati fra i candidati dei vari partiti secondo le regole seguenti.
d1) Nel caso c1) si inizia con il partito vincitore e con i suoi candidati che hanno vinto nei propri collegi. Se questi sono esattamente lo X% di 400, questi sono gli eletti e si passa al partito secondo classificato (vedesi infra). Se questi sono più dell'X% di 400 vengono eletti i "primi" X%, dove "primi" si determina in base al numero di voti ottenuti. Se sono meno di X% si eleggono tutti i candidati del partito vincitore che sono risultati primi nei propri collegi e poi vengono eletti, sino a raggiungere un totale pari a X% di 400, i candidati del partito vincitore che hanno ottenuto il maggior numero di suffragi. Per gli altri partiti si applica la stessa regola, sequenzialmente, dal partito maggiormente votato sino a quello meno votato.
d2) Nel caso c2) si procede analogamente con il caveat che gli N deputati addizionali, tutti appartenenti al partito vincitore, devono essere scelti sempre secondo l'ordine determinato dal numero di voti da loro ottenuti, viene eletto chi ha ricevuto più voti. Poiché i collegi sono 400 ed ora gli eletti sono 400+N vi saranno N collegi che eleggeranno due deputati. Quesi saranno in collegi, per così dire, in cui il candidato del partito vincitore ha fatto "relativamente bene" pur non vincendo.
d3) Vale la regola descritta in d2), cambia solo il fatto che, in generale, N è ora differente da N'.
La logica che sottende al metodo proposto per l'allocazione dei seggi é un compromesso "ragionevole" (a mio avviso, ovviamente) fra il requisito della governabilità (il partito vincitore deve avere una maggioranza dei deputati), quello del collegio uninominale (gli elettori di un collegio dovrebbero essere rappresentati almeno dal candidato che ha ricevuto in quel collegio il maggior numero di suffragi) e quello della difesa delle minoranze (un partito che arrivi secondo o terzo in ogni collegio ma sommi un numero sufficiente di voti a livello nazionale da meritare almeno un deputato deve aver la propria voce in parlamento).
Per ogni partito, quindi, la selezione dei deputati eletti si effettua su base nazionale secondo l’ordine dato dal numero di voti ottenuto dai candidati al primo turno nel proprio collegio elettorale. Questo genera automaticamente "concorrenza" fra i candidati non solo di diversi partiti in uno stesso collegio ma di uno stesso partito in diversi collegi, e questo é bene. Mi rendo conto (e chiedo scusa anzitutto al lettore e poi a Beppe e Matteo) che il punto d) possa apparire oscuro. Ma è del tutto tecnico e secondario, quindi l'ho scritto sommariamente visto che formulette e simboli già abbondano in questo mio umile consiglio e non vorrei esagerare.
L'intuizione è di far eleggere, per ogni partito, chi ha preso più voti direttamente al primo turno (ricordo che ogni collegio ha più o meno gli stessi elettori potenziali). Ovviamente la regola da me proposta, come ogni regola elettorale, implica qualche "ingiustizia personale": alcuni, ben del partito vincitore ben dei perdenti, non verranno eletti al parlamento (in casi eccezionali) pur avendo ricevuto più voti di altri che, in altro collegio, vengono eletti. Vi sono, insomma, una esternalità positiva ed una negativa: se sei un candidato "schiappa" del partito vincitore potresti essere eletto anche se nel tuo collegio non sei arrivato primo e se sei un candidato eccezionale di un partito del menga può essere che tu rimanga a casa e venga eletto uno del tuo partito che ha preso meno voti di te. Ma nessuna regola è perfetta e non possiamo sempre soddisfare tutti gli assiomi che ci piacerebbe soddisfare ... questo l'abbiamo appreso dal buon Machiavelli per via di Berlin (no, non la città, Isaiah ...).
Ed il resto della riforma istituzionale?
I miei suggerimenti a Beppe Grillo si fermano qui, per oggi, e sono intenzionalmente incompleti. Questo sia perché il mio tempo è scaduto, sia perché la discussione corrente si concentra quasi essenzialmente sulla legge elettorale. Ma, soprattutto, per sottolineare che il problema da affrontare è più complesso e articolato di quanto sia Renzi, che Grillo (per non parlare di Berlusconi e soci) lo fanno. Io (Michele Boldrin non Beppe Grillo) rimango convinto che l'unico approccio serio passi attraverso la convocazione di un'assemblea ri-costituente del nostro disegno istituzionale. Un corpo elettivo con compiti specifici, composta di 100 (200 massimo) persone elette con metodo proporzionale e a tempo determinato (un anno, massimo due). Finito il loro compito vanno a casa, quindi niente conflitti d'interesse o distrazioni. Ma questo è un altro discorso, ancora più difficile da far penetrare nel dibattito politico italiano che la semplice legge elettorale che ho appena descritto.
Nel dibattito italiano si fa dipendere tutto il problema elettorale da quello della governabilità.
Il concetto di governabilità (abilità di governare) è estremamente complesso ed il fatto che venga affrontato in Italia in modo banale e autoritario (attraverso artifici elettorali e coartando il voto democratico con premi, negazione della preferenza e soglie di sbarramento) è un ennesimo indicatore della inadeguadezza della classe politica italiana.
I temi affrontati da Pasquino nel testo che ho linkato sopra sono interessanti (anche se non concordo con tutto) e quello sul sovraccarico (eccesso di domande e inadeguatezza nel dare risposte) mi fa venire in mente che una soluzione al sovraccarico è proprio il federalismo.
Creando tre livelli di sovranità (comune, stato, federazione) si suddividono le domande nei vari livelli di competenza ed ogni sovranità da la risposta locale per quanto compete. Non è un caso, mi pare, che i paesi federali (quelli veri e democratici, non quelli finti come URSS) siano anche mediamente più governabili e stabili. Non è adottando il loro sistema elettorale che possiamo affrontare il nostro problema di governabilità: è la forma dello stato che va riformata.
In pratica con il federalismo il problema della governabilità è suddiviso e risolto per 1/3 localmente in migliaia di comuni, per 1/3 localmente in decine di stati/cantoni/länder e il rimanente terzo è affidato al livello nazionale, che in questo modo puo' dedicarsi pienamente alle risposte da dare, senza essere sovraccaricato di problemi locali. Ogni sovranità pero' è autonoma è responsabile, in pratica uno stato di diritto (una repubblica, pur con poteri limitati da una costituzione federale).
Oggi in Italia tutto invece arriva al centro (la capitale) e da li' partono tutte le decisioni. C'è una certa autonomia locale ma sub judice da parte delle autorità centrali, che possono decidere di aggiungere o togliere tasse locali, cambiare il flusso dei finanziamenti, al volte anche influenzare la composizione dei governi locali etc. Insomma non esiste vera autonomia e responsabilità locale. Questo flusso di domande e risposte verso un centro unificato è naturalmemte funzionale al mantenimento del clientelismo, che diventa poi il sistema per gestire e mantenere il consenso a scapito del bilancio dello Stato. Passare adu un sistema federale significa di fatto una grande perdita di potere clientelare da parte della classe poliitca nazionale e la nascita di una nuova classe politica locale, più vicina ai cittadini e con obblighi di responsabilità e impossibilità di fare scarica barile.
Insomma se io avessi la forza elettorale di Grillo punterei sul federalismo ed anche su una maggiore democrazia diretta (quindi maggiore responsabilizzazione del cittadino).