Quando è desiderabile per un gruppo di paesi costituirsi in unione monetaria e/o in unione fiscale? Quando è addirittura desiderabile una unione politica, magari federale?
Naturalmente queste sono questioni complesse con risposte complesse, cioé rappresentabili in una lunga lista di condizioni e distinguo. Tali condizioni nella letteratura teorica sono necessariamente incomplete nel senso che tendono a privilegiare variabili economiche meglio misurabili su quelle sociali e culturali che costituiscono le identita’ nazionali che, la storia ci insegna, sono determinanti nella formazione degli stati nazionali. Chi volesse approfondire l'argomento trovera’ in fondo al post brevi suggerimenti bibliografici riguardanti le ottime aree valuarie, coordinamento delle politiche fiscale, e l'ottima dimensione dei paesi.
In questo post mi limito invece a discutere una questione più limitata ma direttamente importante per il futuro dell'Unione europea. Si dice da più parti (quasi tutte, come vedremo): data l’esistenza di una unione monetaria, una unione fiscale è necessaria - o quantomeno fondamentale al buon funzionamento della prima.
L’argomento che una unione fiscale sia condizione pressoché necessaria per il buon funzionamento di una unione monetaria, e’ il seguente. Consideriamo due (gruppi di) paesi all’interno di una unione monetaria (quindi con una singola valuta) che operino politiche fiscali divergenti. Tali politiche non sono sostenibili senza un eventuale deprezzamento della valuta di quei paesi che operino politiche relativamente piu’ espansive. Un deprezzamento infatti permette ai paesi in crisi di bilancio di ripagare il debito con una valuta svalutata, cioe’ di ripagarlo solo in parte. Ma poiché in una unione monetaria l’esistenza di una singola valuta impedisce ogni forma di svalutazione competitiva, bisogna che le politiche fiscali dei paesi nella stessa unione monetaria siano coordinate (e quindi convergenti). Questo argomento è chiaramente espresso, con riferimento alla presente crisi, da un articolo di Lucrezia Reichlin sul Corriere dell'altro giorno:
La Bce non può comprare debito greco, cosa peraltro impedita dal Trattato dell' Unione europea concepito così proprio per evitare che la Banca centrale fosse costretta a cedere alle pressioni di governi in difficoltà esponendo tutti i Paesi al rischio di inflazione. Il problema è che questo principio, in assenza di un meccanismo che permetta un trasferimento fiscale alla Grecia, ci espone a speculazioni dei mercati sulla possibilità del «default» dei vari governi. L' architettura della zona euro è quindi incompleta. Se vogliamo preservare la moneta unica e il suo governo dobbiamo mettere la questione dell' integrazione fiscale europea al centro del dibattito.
Questa posizione e questa sua spiegazione sono comuni nel dibattito economico in Europa. Non provo nemmeno una rassegna esaustiva. Ma ne parlano tutti, ma proprio tutti, in questi giorni: Mario Deaglio, Marta Dassu', Adriana Cerretelli,... Ma non è da oggi, naturalmente che se ne parla. A questo proposito mi limito a citare Mario Monti (recentemente la sua posizione appare più cauta, limitandosi a proporre una politica finanziaria comune, attraverso l'emissione di Eurobonds), Paul De Grauwe, Wolfgang Munchau e Peter Mandelson, il Commissario dell'Unione Europea sul commercio estero.
L'argomento è convincente ma se analizzato in dettaglio risulta in sé scorretto. Mi rendo conto che qui stiamo parlando di editoriali, non di scienza, ma da un punto di vista di logica stretta l'argomento è un non-sequitur.
Una unione fiscale non è affatto necessaria (né fondamentale), anche in presenza di una unione monetaria.
Innanzitutto, una svalutazione non è che un default parziale: implica ripagare il debito con una valuta svalutata. Infatti, in previsione di una svalutazione i tassi dei titoli pubblici aumentano. Se una unione monetaria impedisce la svalutazione di un paese dell'unione, non impedisce certo un default parziale. Infatti, questo è quello che sta succedendo alla Grecia. L'instabilità finanziaria di questi giorni ci dice quindi che sarebbe opportuno definire meccanismi per meglio controllare default parziali, ed evitare così lo spettacolo e l'incertezza associate a riunioni politiche di emergenza dei ministri del tesoro dei paesi dell'unione monetaria, invece che non di rilanciare e raddoppiarte con una unione fiscale.
Inoltre, è proprio la la mancanza di un chiaro ed esplicito meccanismo di controllo di default parziali di uno stato membro ad essere alla radice della divergenza delle politiche fiscali tra i paesi dell'Europa. Da una parte infatti, i mercati hanno assunto che l'Unione europea avrebbe garantito il debito dei paesi membri, finanziandoli a spread quasi nulli per anni, fino alle incertezze della politica recente (da parte tedesca soprattutto). Dall'altra parte, gli stati hanno sfruttato i bassi spread per finanziare nuovo debito o evitare di ridurre quello esistente (ovviamente alcuni stati, quelli con sistemi politici più inefficienti, più di altri). In queste condizioni i parametri di Maastricht, il cui obiettivo era di limitare ex-ante la divergenza delle politiche fiscali tra stati membri, non potevano che essere disattesi, perché nessun meccanismo di default era in piedi per rendere gli stati divergenti responsabili di fronte ai propri elettori delle proprie politiche.
Una unione fiscale non è nemmeno sufficiente (né fondamentale), a garantire la convergenza delle politiche fiscali dei paesi membri.
Una unione fiscale prevede necessariamente meccanismi di sussidiarietà, che trasferiscano risorse dai paesi membri più ricchi a quelli più poveri. Questi meccanismi tendono a generare dipendenza (dei poveri dai ricchi) e inibiscono la convergenza nei tassi di crescita e anche nei tassi di spesa pubblica. Basti guardare all'Italia, che è una unione fiscale (e monetaria) ma le cui regioni, in mancanza di un meccanismo che le renda responsabili davanti agli elettori, hanno mantenuto per decenni e continuano a mantenere tassi di crescita e spesa pubblica divergenti.
Una unione fiscale limita invece l'efficienza della finanza pubblica.
Innanzitutto, una unione fiscale, trasferendo le decisioni di finanza pubblica al centro dell'unione, riduce la responsabilità rispetto agli elettori dei centri di spesa locale, rendendoli più inefficienti. Inoltre, la competizione fiscale tra stati membri opera per l'efficienza come la competizione tra imprese: se anche la mobilità dei cittadini fosse limitata (ma non lo è per il capitale umano), le imprese scelgono liberamente paesi con sistemi fiscali favorevoli, imponendo agli altri una riduzione di tasse e di inefficienze di spesa che le tasse finanziano. In altre parole, è il federalismo fiscale, piuttosto che l'unione, a garantire maggiore efficienza.
In conclusione, lascio a Francesco Caselli il giudizio sulla classe politica europea che ad ogni disfatta rilancia e raddoppia
La lezione che ci si chiede oggi di apprendere è che non si può avere unione monetaria senza unificazione (coordinamento, se la parola unificazione vi allarma) delle finanze pubbliche. Non è difficile immaginare la lezione che ci verrà proposta domani: che non ha senso avere un ministro delle Finanze europeo senza un primo ministro europeo. E così via, inesorabilmente, verso la piena unificazione politica.
C'è da sperare che l'opinione pubblica europea abbia esaurito la sua pazienza verso questo modo di costruire l'Europa unita: fare un piccolo passo, che crea dei problemi che devono essere risolti da un ulteriore passo, e così via. Sarebbe l'ora di avere una discussione trasparente e onesto in cui l'esito finale di questo processo è chiaramente delineato.
Il Sole24Ore titola il suo articolo, "Solo l'unione fiscale può salvare l'Europa"; forse si son scordati il punto di domanda.
'<h' . (('2') + 1) . '>'Bibliografia (in inglese):'</h' . (('2') + 1) . '>'
Francesco Paolo Mongelli, “New views” on optimal currecy area theory: What the EMU is telling us, ECB Working Paper, April 2002 - http://www.ecb.int/pub/pdf/scpwps/ecbwp138.pdf
V.V. Chari and Pat Kehoe, On the need for fiscal constraints in a monetary union, Mnpls Fed, 1998.
V.V. Chari and Pat Kehoe, International coordination of fiscal policy in a limiting economy, JPE 1990.
Alberto Alesina and Enrico Spolaore, The Size of Nations, MIT Press, 2003.
Mi hai preceduto :-) Mi limiterò quindi a scrivere, prima o poi, un post dal titolo "L'Europa ha bisogno del federalismo fiscale. Davvero?" in cui sosterrò che anche il default non servirebbe nel lungo periodo. I cittadini dei paesi periferici non sono disposti a ridurre il loro tenore di vita - tu che non vivi in Italia forse non ti rendi conto dell'assoluta e totale riluttanza a rinunciare ad ogni piccolo privilegio e della fortissima ostilità a qualsiasi riforma. Lo stato (o magari le banche) ricomincerebe ad indebitarsi il giorno dopo il default, solo che a tassi più alti. Quindi il debito sull'estero ricomincerebbe ad accumularsi, più rapidamente, fino al default successivo. E non credo neppure a clausole costituzionali. O sono folli (tipo il divieto assoluto di accendere nuovi debiti) o sono facilmente aggirabili (tipo l'art. 81 della costituzione)
Giovanni, ma dopo un default (e anche prima se la procedura di default e' chiara e definita) ci pensano i mercati a non prestare a chi non ripaga. E' il mercato bellezza. E funzionerebbe... Come diceva Nanni Moretti: "son pronto a scommeterci una palla. due no, ma una si"
Alberto, bellissimo post. Ci voleva, e anch'io ho avuto la stessa reazione leggendo il titolo sul Sole: si sono dimenticati l'interrogativo.
A Giovanni, sono convinto anch'io riguardo il lungo periodo. Basta guardare che dal "default parziale" (svalutazione) del 1992 dureremo fino al 2012. Aspetteremo la quarta repubblica nel 2032.
Piuttosto sarebbe interessante anche paragonare questa voglia di centralismo europeo (perche' alla fin fine emettere debito europeo e' una centralizzazione fiscale) con l'esperienza americana di 200 e passa anni fa. Se non ricordo male lo scontro politico tra Jefferson e Hamilton, durante le presidenze di Washington e Adams, era proprio questo. E sul debito pubblico mi pare la spunto' Hamilton.