Il manifesto auspica riforme strutturali, concorrenza e liberalizzazioni, da attuare anche attraverso riforme a costo zero: il superamento degli ordini professionali, l’abolizione del valore legale del titolo di studio universitario, la riduzione a 7 giorni del tempo necessario ad aprire un'impresa. Infine, si propone di salvare quanto di buono si trova nella legge Biagi, e cioe' garantire la flessibilita' del mercato del lavoro, ma attuando meccanismi di protezione dei lavoratori attraverso ammortizzatori sociali piu' efficaci, con sussidi di disoccupazione e meccanismi "welfare-to-work". Tra i primi firmatari alcuni economisti accademici che ben conosciamo.
Come sottolineava giustamente il blogger Wobegon in un suo commento, l'appello (anche questa volta) non fa nomi e cognomi, mantenendosi su linee generali e vaghe. Certo, rappresenta un passo avanti, seppur piccolo, nella definizione di quelle che sono le riforme di cui il nostro Paese necessiterebbe; ma non basta. Occorrerebbe anche definire meglio il campo d'azione. Siamo in condizioni tali per cui qualsiasi riforma seria e significativa comporterebbe automaticamente dei costi dal punto di vista sociale, anche perche` intaccherebbe privilegi ai quali nessuno e` disposto a rinunciare.
Quale classe politica avra` mai il coraggio di compiere il primo passo? Non per tornare sul discorso del referendum, ormai archiviato, ma continuo ad essere del parere che per attuare riforme economiche serie bisognerebbe rivedere drasticamente i meccanismi che regolano la vita politica italiana e lo sviluppo del processo decisionale, per disincentivare i comportamenti scorretti ed i teatrini quotidiani ai quali siamo purtroppo abituati.