Dai primi giorni di agosto i rendimenti dei nostri titoli di Stato hanno subito una rapida impennata, dapprima sul mercato secondario e poi nelle aste che il Ministero del Tesoro periodicamente opera sia per rinnovare il debito in scadenza (il roll-over) sia per finanziare il fabbisogno corrente. La differenza di rendimento tra i nostri titoli e quelli tedeschi (il cosiddetto “spread”) ha così invaso i salotti degli italiani e riempito le prime pagine dei quotidiani negli ultimi tre mesi. L’opinione pubblica è stata impegnata in una discussione sulle colpe e le responsabilità: si va dalle spiegazioni più affrettate e meno convincenti - come “la speculazione internazionale” - a quella che probabilmente è più plausibile: la crescente avversione al rischio sui mercati finanziari, provati da quattro anni di tensioni, ha preso coscienza della rischiosità del sentiero di sostenibilità delle nostre finanze pubbliche, e pertanto ha cominciato a richiedere un “premio al rischio” più elevato per la sottoscrizione dei nostri titoli di Stato. E’ opinione diffusa che la debolezza politica del Governo, l’incapacità di incidere realmente sulla situazione economica, e un diffuso crollo della credibilità complessiva del Paese sullo scenario internazionale abbiano contribuito in misura non trascurabile al peggioramento della situazione.
L’attenzione mediatica si è concentrata sugli spread, e quindi sugli effetti dell’andamento delle ultime aste sul costo medio del debito. In realtà, pur essendo lo spread un importante segnale della fiducia dei mercati verso il paese, la composizione per maturità del debito italiano è tale per cui i recenti aumenti dei tassi di interesse hanno un impatto relativamente limitato nel breve periodo, come ha ben spiegato Aldo lanfranconi su questo sito. Lanfranconi ha inoltre giustamente attirato l'attenzione sull'importanza di considerare anche altre variabili, oltre ai tassi di interesse, nel valutare la sostenibilità del debito. In particolare, un ruolo importante è giocato dal tasso di crescita reale dell'economia. Qui la domanda importante è: come viene influenzato il tasso di crescita non solo dalla quantità, ma dalla qualità dell’aggiustamento fiscale in atto? In altre parole, cosa succede al cammino italiano verso il pareggio di bilancio se la crescita non è quella ipotizzata dal governo?
Analizzando l’ultimo documento di finanza pubblica disponibile (la Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza 2011), e integrandolo con le più recenti evoluzioni del quadro macroeconomico, possiamo provare a fornire una risposta indicativa.
Il governo dichiara che le manovre estive (il dl.98 di luglio e il dl.138 di agosto) porteranno al conseguimento dell’obiettivo di pareggio di bilancio nel 2013, attraverso i seguenti passi:
- Una correzione “in corso d’opera” di 2,84 miliardi di euro nel corso del 2011.
- Due correzioni più sostanziali, pari a 25,4 miliardi nel 2012 e di successivi 26 miliardi nel 2013.
È importante sottolineare che l’obiettivo di deficit zero nel 2013 verrebbe comunque accompagnato da un rapporto debito/PIL ancora notevolmente elevato (116.4%).
Ammettiamo che la correzione 2011, che rappresenta poco meno di due decimali di Pil, vada a buon fine. La maggior parte del rispetto dell’obiettivo di pareggio di bilancio risiede nelle due consistenti manovre del 2012 e del 2013, pari a un punto e mezzo di Pil ciascuna. Ma qual è lo scenario macroeconomico sotto il quale queste manovre – se fossero effettivamente realizzate – raggiungerebbero gli obiettivi di finanza pubblica?
Come si sa, le tre variabili fondamentali per giudicare l’efficacia di un percorso di risanamento delle finanze pubbliche sono il tasso di inflazione, il costo medio del debito e il tasso di crescita del Pil nominale. Ipotizziamo che la dinamica dell’inflazione prevista dal governo (1.9% nel 2012 e 1.8% nel 2013) sia rispettata. L’articolo di Lanfranconi fornisce ottime rassicurazioni sulla tenuta del costo medio del debito da qui al 2014, nonostante il forte rialzo dei rendimenti dei titoli in offerta nelle aste dei titoli di Stato degli ultimi mesi. Prendiamo quindi per buona la stima del governo, che ipotizza un tasso di interesse medio sul debito pari al 4.44% del Pil nel 2012 e al 4.73% nel 2013 (otteniamo questo dato dividendo l’incidenza del servizio sul debito sul reddito nazionale per il rapporto debito/Pil, per ciascuno dei due anni). La variabile fondamentale per valutare l’efficacia del percorso di risanamento della finanza pubblica italiana diventa, quindi, il tasso di crescita del Pil reale.
Per quanto riguarda il 2012, il governo ipotizza una crescita reale pari allo 0.6%. Sotto queste condizioni, la realizzazione di un surplus primario pari al 3.7% del Pil - attraverso l’aggiustamento di 25,4 miliardi - dovrebbe consentire il raggiungimento del primo passo verso il pareggio di bilancio: la riduzione dell’indebitamento netto dal 3.9% del 2011 all’1.6% del 2012. In realtà, se utilizziamo l’aritmetica del debito pubblico, scopriamo che per raggiungere quest’obiettivo non è necessario un surplus primario del 3.7, ma “solo” del 3.3. Come mai allora il governo prevede una correzione superiore di circa 6,5 miliardi a quanto sarebbe necessario per raggiungere l’obiettivo dichiarato? L’unica spiegazione possibile è che la stima di crescita del Pil reale sia ritenuta eccessiva dallo stesso governo, probabilmente conscio degli effetti recessivi dell’aggiustamento sul saldo primario. Tutti gli osservatori internazionali, infatti, collocano le stime di crescita dell’economia italiana per il 2012 tra lo 0.2% (dati: Fitch) e lo 0.3% (dati: Fondo Monetario Internazionale). E in effetti, rifacendo i conti, si scopre che il surplus primario del 3,7% è esattamente quello che sarebbe necessario qualora la crescita del Pil reale si collochi allo 0.2% (invece dello 0.6% annunciato nelle stime ufficiali). Sembra quindi che il governo sappia che la già asfittica crescita del Paese sarà ulteriormente influenzata al ribasso dalla contrazione della domanda aggregata dovuta al primo step del cammino verso il pareggio di bilancio; quindi, ipotizza una manovra che già internalizza quest’effetto recessivo, senza avere tuttavia la trasparenza di ammetterlo nelle stime ufficiali.
L’apparente eccessiva prudenza del 2012 si trasforma, nel 2013, in conti che non tornano più. Prendendo per buono il fatto che l’economia italiana passi da un tasso di crescita dello 0.2% nel 2012 allo 0.8% del 2013, il saldo primario che serve per raggiungere gli obiettivi di finanza pubblica (pareggio di bilancio e debito pari al 116.5% del Pil) non è il 5,4% annunciato dal governo nella Nota di Aggiornamento, bensì il 5.6% (quindi superiore di 3,3 miliardi). Se poi ipotizziamo che la crescita reale sia la stessa del 2012, il surplus necessario è del 6,33%, pari a circa 15,5 miliardi in più di quanto previsto. Volendo ipotizzare una crescita reale dello 0.4%, significa comunque che la correzione del 2013 è inferiore di 11,5 miliardi a quanto in realtà è necessario per raggiungere gli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea.
In conclusione, il cammino verso il pareggio di bilancio è composto di due tappe principali: la manovra 2012 (un miglioramento del saldo primario di 25,4 miliardi) e quella 2013 (ulteriori 26). Il primo passo ci rivela una verità imbarazzante: il governo è conscio degli effetti recessivi della tipologia di aggiustamento fiscale scelta (basata per la maggior parte su maggiori entrate), ma non ha il coraggio di ammetterlo nei documenti ufficiali. Probabilmente perché non è disposto ad avere a che fare con le conseguenze di ammettere una crescita reale nel 2012 prossima allo zero. Nel 2013, anche se l’ipotesi ottimistica del governo dovesse verificarsi (crescita reale dello 0,8%), la correzione ipotizzata è comunque inferiore di più di 3 miliardi a quella necessaria. In presenza di ipotesi più realistiche, in ogni caso nel 2013 serviranno dagli 11,5 ai 15,5 miliardi di euro in più di quelli annunciati dal governo. Se poi ricordiamo che quasi il 40% della correzione complessiva prevista dal governo nel biennio 2012-2013 (20 miliardi su 51.4) si basa sulla “riforma del sistema fiscale ed assistenziale” – i cui caratteri sono ancora completamente oscuri – possiamo comprendere come le prospettive della nostra finanza pubblica siano più serie di quanto appaiono. E possiamo capire meglio i motivi per cui i mercati non siano più disponibili a finanziare il nostro debito pubblico. Rendono, infine, non ulteriormente rinviabile il momento dell’agire, concretamente e in fretta. Prima che sia troppo tardi.
Ricordando, come dice Aldo Lanfranconi, che "il default avviene non perchè l'interesse delle emissioni raggiunge un dato livello ma perchè nessuno le sottoscrive", segnalo il titolo della call di RGE che si svolgerà più tardi:
"RGE Client Conference Call:
Italy Now at Risk of Debt Restructuring
On Thursday, November 10, at 9:30 a.m. EST / 2:30 p.m. GMT, join Nouriel Roubini and the RGE Market Strategy and Economic Research teams for a conference call to review the urgent state of Italian debt and the asset class implications. Topics of discussion will include the following:
A future exit from the eurozone cannot be ruled out."
RGE e Roubini sono ovviamente liberi di fare le analisi che preferiscono, ma i mercati in questo momento la vedono in modo alquanto diverso. Il rischio di insolvenza o ristrutturazione esiste, soprattutto nel breve termine (un anno o due), ma non è poi così alto. Se non ricordo male RGE e Roubini sono un po' dei permabear che hanno azzeccato la crisi finanziaria del 2008, ma le loro previsioni sul dopo sono andate fuori strada.