I finanziamenti alla Ricerca in Italia.
Non c'è dubbio alcuno che l'Italia stanzi per la ricerca molti meno fondi di quanto non dovrebbe. Gli ultimi dati EUROSTAT risalgono al 2005/6 e sono presentati in figura 1. L'Italia dedica ogni anno poco più dell'1% del proprio PIL in ricerca, circa la metà della media europea (EU-15: 1.91%; EU-27: 1.86%). Tra le EU-15 solo Portogallo e Grecia investono meno di noi, con una crescita annua però maggiore della nostra (Figura 2). L'Italia ha incrementato il proprio budget in ricerca del 10% in 10 anni. La Turchia (prima della classe di questa categoria e la cui percentuale di laureati nella forza lavoro ha recentemente raggiunto la italiana), del 75%. Spagna e Portogallo sono oltre il 40%. Questi dati di crescita diventano particolarmente interessanti letti nell'ottica degli accordi presi a Lisbona che auspicano che nel 2010 la media dei paesi europei si attesti ai livelli nordamericani, passando dal 1.9% al 3%. Per dare l'idea dello sforzo che è stato fatto in Italia dal 2000, data di firma del protocollo, ad ora: se dovessimo mantenere questi ritmi di crescita raggiungeremmo l'obiettivo Lisbona nella seconda metà del secolo prossimo (2163). La Spagna d'altro canto, che pure nel 1996 spendeva meno di noi, lo raggiungerebbe fra circa 12 anni. Ovviamente questo non può essere un pronostico di ciò che accadrà ma rende l'idea della serietà con cui il protocollo di Lisbona sia stato recepito dai nostri governanti. Un fatto che va sottolineato è che le cifre finora discusse si riferiscono agli investimenti in R&S nel complesso, cioé andando ben oltre i meri finanziamenti accademici. Sono quindi soldi che lo Stato fa uscire non solo dal MIUR ma anche in parte dal Ministero per le Attività Produttive (ed altri). Di nuovo, per dare un'idea delle priorità, sarà interessante sapere che proprio da questi due ministeri venivano i 90 milioni regalati ai camionisti e i 300 regalati ad Alitalia.
Come al solito, però, certe zone d'Italia sembrano far bene nonostante lo Stato. È il caso della Lombardia che secondo le ultime rivelazioni comunitarie è la regione Europea (e EFTA) con più alta densità di lavoratori specializzati nelle medie e alte tecnologie. Attenzione però che alta tecnologia non significa necessariamente ricerca e anzi senza innovazione ciò che è ad alta tecnologia oggi è già destinato a diventare obsoleto.
Figura 1. Spesa dei maggiori paesi mondiali e tutti quelli Europei in ricerca nel 2006/5. Valori espressi in % del PIL. Fonte EUROSTAT. Sigle dei paesi come da convenzione.
Figura 2. Crescita relativa dei paesi europei che nel 1996 investivano meno dell' 1% del PIL in ricerca. Elaborazione dati EUROSTAT.
Esiste un ampio consenso sul fatto che un aumento dei finanziamenti nella ricerca non potrebbe che far bene al sistema paese; esistono voci discordanti sul modo in cui distribuire i finanziamenti ma sembra che ci sia unanimità almeno sulla prospettiva che i soldi debbano essere usati innanzitutto per aumentare l'impiego di professionisti della ricerca, avvicinando il numero degli stessi per milione di abitanti agli standard degli altri paesi (al momento siamo grosso modo al 50% della media europea).
In realtà è importante sottolineare che esiste una quota molto consistente di giovani impegnati nell'attività di ricerca che semplicemente al momento non viene retribuita – quando si dice lavorare per la gloria! Circa il 40% dei dottorandi è senza borsa, ad esempio, e poi c'è un numero imprecisato di cosiddetti cultori della materia, solitamente neolaureati in fila per un concorso da dottorando. Ora, il dottorato senza borsa è un potente strumento per promuovere intrecci tra la ricerca accademica e i privati, siano essi associazioni filantropiche o piccole e grandi aziende interessate ad instaurare collaborazioni con l'università. In Italia però purtroppo il numero di senza borsa è spropositamente grande rispetto alla quota di partecipazioni private e il risultato finale è semplicemente stravolto: miglialia di giovani che in alcuni casi aspettano anche 3 o 4 anni senza vedere il becco di un quattrino o che vengono pagati coi contratti più disparati che vanno dal COCOCO fatto di 11 mesi di salario più 1 mese di licenziamento fittizio (di modo da venire riassunti al 13esimo mese con lo stesso contratto) alla paga a cottimo (ho amici che prendono un tot a lavoro scientifico scritto, dove ovviamente - sono ironico - il tot varia con l'importanza della rivista). In breve è considerato normale il fatto che si lavori principalmente per il prestigio (!) e se i soldi arrivano tanto di guadagnato, filosofia questa inesistente negli altri paesi. Ho già scritto altrove che costoro devono avere la priorità, dove priorità – attenzione! - non significa meritare il famigerato posto fisso (su cui tornerò più avanti) ma almeno essere pagati per il lavoro svolto e non sfruttati per la loro passione (qualche cinico potrebbe sostenere che costoro pagano così la loro scelta di stare vicino a mamma' ma per solidarietà non lo dirò io, anche perché è un discorso semplificatore che ci porta un po' troppo lontano).
Infine, un appunto importante. Sebbene sia palese che all'Italia non potrebbe che giovare un aumento nei finanziamenti, è interessante considerare come altri fattori, anche meno ovvi, potrebbero comportare miglioramenti anche più incisivi. Prendiamo ad esempio la conoscenza della lingua inglese. Qualcuno stima che “se la Francia riuscisse ad aumentare la proficienza nella lingua inglese del 10%, raggiungendo così i livelli dell'Olanda, la produttività scientifica francese aumenterebbe sul lungo termine del 25%”.
Prospettive di carriera.
Mi preme iniziare questo paragrafo chiarendo che il problema delle prospettive di carriera nella Scienza non è un problema solo italiano. È un problema tutto sommato universale che però in Italia tocca sfumature particolari nei numeri e nelle aspettative. Iniziamo da un dato di fatto: il mercato del lavoro nella ricerca è soltanto un altro esempio di mercato del lavoro e dovrebbe obbedire alle stesse leggi. Esiste un mito per cui la ricerca, non avendo la stessa produttività degli altri settori, sarebbe soggetta a regole distinte. In realtà qualsiasi tipo di ricerca è produttiva, sia quella applicata sia quella di base e tutto sta nel misurare questa produttività con il giusto metro: che siano i profitti generati da un nuovo farmaco per una ditta o il numero e la qualità di pubblicazioni prodotte ogni anno per una università. Detto questo, vediamo come le regole del mercato del lavoro si applicano alla ricerca.
Per fortuna sono tanti i giovani che sognano di fare lo scienziato. Di fatto sono talmente tanti da essere molti di più dei posti di lavoro disponibili, negli USA come in Italia. Secondo i dati del MIUR in Italia nel 2007 il numero di accademici in tenure track (ricercatori, associati e ordinari) è pari a poco più di 60000 unità. Il numero di studenti di dottorato si aggira intorno alle 40000 unità (fonti ADI), a cui va aggiunto un numero di poco inferiore di borsisti e assegnisti. Il rapporto tra pre-tenures e tenures quindi è stimato essere intorno a 1.0, assolutamente comparabile (al limite inferiore) a quello degli USA. Perché quindi negli USA non esiste una domanda di posto fisso così insistente? La risposta è da cercarsi soprattutto nella flessibilità e nella mobilità che è a livelli nemmeno lontanamente comparabili. Intanto gli Stati Uniti (e la Svizzera e la Germania) hanno un substrato di ricerca privata che poco ha da invidiare quella pubblica per diffusione e successo. Vuol dire che in un qualsiasi momento chi fa ricerca ha pur sempre la scelta di buttarsi nel campo privato, facendo ciò che più ama in maniera sostanzialmente simile ma guadagnando, tra l'altro, molto di più. Negli USA il salario di un PhD al primo anno di esperienza è nel privato circa 2 o 3 volte superiore a quello che pagano le università (con variazioni che dipendono dalla disciplina – gli economisti sono tra i più ricchi, i biologi tra i più porelli). In Italia questo sbocco praticamente non esiste essendo pochissime le ditte private che fanno ricerca. Questo ovviamente crea una strozzatura sia negli sbocchi di carriera, sia nei salari.
Oltre alla mancanza di prospettive alternative all'accademia, anche all'interno del mondo universitario la mobilità in Italia è una barzelletta. Si prenda in esame un dato significativo, quello che in gergo si chiama inbreeding e cioé la mobilità di chi fa ricerca all'interno dello stesso paese. Secondo stime del 2001 in Italia circa 80 professori su 100 occupano una cattedra nello stesso ateneo in cui hanno iniziato la propria carriera (Figura 3).
Figura 3. Livello di inbreeding (misura inversa di mobilità) all'interno di 55 atenei europei.
Dati da: “Scientific
Research and inbreeding at European Universities”. Il numero in
cima indica le dimensioni del campione.
In Inghilterra il rapporto è 5 a 100; in Germania addiritura 1 a 100. Con tutta onestà, sento di sbilanciarmi e sostenere che le stime italiane sono probabilmente addiritura al ribasso e scommetterei che il trend non sia certo cambiato dal 2001 ad adesso.
Non stupirà sapere che maggiore è il livello di inbreeding, minore il livello di produttività scientifica e viceversa. Ovviamente non è un caso che Germania, UK e USA abbiano livelli di mobilità così alta ma è il risultato di una strategia attiva e mirata il cui scopo è proprio quello di ottenere il minor livello possibile di inbreeding. Ci sono infatti regole che disincentivano la permanenza e incentivano la mobilità.
Ad esempio nell'assegnazione di quasi tutte le borse di finanziamento (fellowships) il candidato che vuole cambiare nazione di residenza e oggetto di studio parte avvantaggiato e chi invece chiede soldi per rimanere all'interno dello stesso laboratorio o ateneo spesso non è nemmeno preso in considerazione, a priori.
Questi sistemi andrebbero adottati anche in Italia sia dallo Stato che dai finanziatori privati (iniziando dai grandi enti come AIRC, Telethon, etc). Rimescolare tutte le carte in gioco è il modo più semplice e più efficace per ridurre i trucchetti al mazzo. Come conseguenza ovvia di tale comportamento il merito passerebbe in primo piano come criterio di valutazione e ovviamente la competitività aumenterebbe. Se c'è una cosa che i giovani precari devono chiedere con insistenza è proprio questa: facile da attuare e sicuramente efficace. Il punto è: sono tutti disposti a mettersi in ballo con queste nuove regole? Inoltre, mobilitare il mercato dal basso avrebbe l'ovvia conseguenza di scuotere anche le gerarchie nella parte alta della piramide. Una grandissima parte di ricercatori, professori associati e ordinari semplicemente non merita la posizione che possiede e dovrebbe essere giudicata a periodi regolari e eventualmente sbattuta fuori, lasciando così il posto a chi ha più chance di meritarlo.
Distribuzione dei finanziamenti.
Qui sarò breve. Semplicemente non vedo come una riforma sulla distribuzione dei finanziamenti possa prescindere dai provvedimenti di cui abbiamo parlato nella sezione precedente. A ben vedere, infatti, stiamo parlando della stessa cosa. Finanziamento non vuol dire solo “soldi per la ricerca” ma anche “salario a fine mese”. Chi non produce dovrebbe lasciare il posto a chi produce, semplicemente. Probabilmente sarebbe anche sensato riformare la carriera universitaria prevedendo l'esistenza di due figure professionali: chi fa ricerca e chi insegna; fare entrambi allo stesso tempo in alcuni casi potrebbe addiritura essere scoraggiato per aumentare la produttività in uno o nell'altro campo (dipende dal campo in cui si lavora).
Su un fatto però voglio soffermarmi e cioé che, al di là del merito individuale che dovremmo prendere per punto davvero imprenscindibile, la distribuzione dei finanziamenti deve seguire una strategia nazionale di sviluppo. Gli USA, ad esempio, dedicano al momento circa un mezzo di tutte le risorse scientifiche alle Scienze biomediche. Lo fanno da anni come scelta strategica (così come fu scelta strategica quelle di andare sulla luna) perché è un campo in cui vanno forte e in cui gli investimenti creano ritorno a vari livelli. Fino a che punto l'Italia dovrebbe mettersi a competere con gli USA in questo campo in questo momento? Nel 2003 è stato creato in Italia the Italian Institute of Technology o IIT. Il budget per l'istituto, che si occupa soprattutto di robotica e intelligenza artificiale, era di 100 milioni all'anno per 10 anni, una cifra enorme se confrontata a quanto speso per la ricerca nel complesso. Lo stato delle cose al 2005 era accennato in questo articolo de lavoce.info e non sembrava rassicurante. Un'idea di come le vadano le cose al momento me la sono fatta ma non essendo un esperto di robotica preferisco astenermi dall'esporla. Magari lo farà qualcuno più qualificato nei commenti.
Quale sarebbe un scelta sensata per gli investimenti della ricerca in Italia? In questa sede sosterrò (un po' provocatoriamente) che molto più peso dovrebbe essere dato, in proporzione, alle scienze che più hanno probabilità di creare un ritorno sul territorio. In Italia queste sono le scienze povere: la Storia, l'Archeologia, la Letteratura etc. A prima vista potrebbe apparire come una scelta anacronistica ma vista la situazione del paese credo proprio che non lo sia (e lo dico senza conflitto di interessi, credetemi). Intanto perché sono campi in cui si riuscirebbe ad ottenere incrementi sul piano scientifico notevoli a fronte di investimenti modesti semplicemente perché costano incredibilmente di meno. Secondo, postulo che tutto ciò che pone l'accento sul patrimonio artistico e storico del paese aumenta le possibilità che questo patrimonio venga sfruttato in un modo o nell'altro.
Per chi non ha accesso a Nature, si trova anche qui .
La risposta di Marino invece la trovate qui .
E per gli sfigati che non hanno neppure l'abbonamento a Science, ecco l'articolo A Plea for Transparent Funding (MS word format)
e la lettera aperta alla signora Levi-Montalcini la trovate qui