La ragione, neanche tanto profonda e neanche tanto segreta, sta nella nostra relazione professionale con alcune di queste “scienze”. È vero che, come l’antropologia e la sociologia e tutte quelle aree del sapere umano che sono branche dell’antica filosofia morale, la storia (e l’economia) non ha(nno) raggiunto il grado di precisione delle scienze naturali nelle proprie affermazioni sul mondo, nelle predizioni e nella capacità di analisi. Ma la mancanza di una teoria formalizzata non impedisce, anzi rende ancor piu necessario, allo storico (e all’economista, ma smettiamola con l’analogia ed atteniamoci alla storia) un’estrema cautela nello stabilire nessi causali e nell’attribuire una valenza generale del tipo “legge” a relazioni e correlazioni anche ripetute. La mancanza d’un solido modello formale di riferimento rende necessaria, allo storico, una capacità di inquadrare un documento, un fatto o una ipotesi in un proprio modello “informale ma rigoroso” del passato in modo tale da valutarne in primo luogo la plausibilità e in secondo luogo la rilevanza per la comprensione dei mutamenti storici. Questo modello implicito, che altri chiamerebbero “fiuto”, è, entro certi limiti, una qualità innata ma, molto più frequentemente, deve essere coltivata attraverso la lettura, il lavoro di archivio e anche il dialogo diretto con (e la critica aspra di) altri storici e scienziati sociali. I professionisti, in genere (ma non sempre) professori universitari, hanno quindi un vantaggio comparato notevole sui dilettanti, anche se volenterosi.
Senza intento polemico, ma con il desiderio di separare il grano dal loglio e di chiarire - non una volta per tutte, perché la ricerca progredisce e le nostre conoscenze di questi temi saranno senz’altro diverse fra sei mesi o un anno, ma almeno temporaneamente - che cosa sappiamo e possiamo dare per acquisito, e cosa non sappiamo e non possiamo dare per acquisito, sul tema “unificazione italiana e differenze socio-economiche su scala regionale”, abbiamo dedicato qualche ora serale, durante le ultime due settimane, a stendere questa intervista. È venuta lunga, quindi la pubblichiamo a puntate.
Boldrin. Partiamo da lontano, ossia dalla situazione economica pre-unitaria, dove per datare l’unità useremo il decennio 1860-70. Molti commentatori tendono a valutare le conseguenza e l’opportunità politica e storica dell’unificazione italiana in base al tipo di risposte che si danno al quesito: quanto vaste erano le differenze economiche fra le regioni che entrarono a far parte del Regno d’Italia tra il 1860 ed il 1870? Prima di discutere se quel metodo di valutazione sia sensato, potresti brevemente darci un quadro di quali differenze si considerino “certe” fra i ricercatori di storia economica, quali “probabili”, quali “incerte ma possibili”, quali “improbabili o altamente tali”?
Federico. Di certo ci sono solo la morte e le tasse – e in Italia neanche queste. Anche i dati macro attuali sono discutibili (basti pensare all’economia in nero), figurarsi quelli storici. Sono tutte stime, più o meno attendibili a seconda della disponibilità di fonti e della competenza e dell’accuratezza dell’autore. Feinstein, grande storico economico ora scomparso, e autore della stima storica del reddito inglese, diceva che gli autori avrebbero dovuto mettere una valutazione alle proprie stime da A (ottima e solida) fino ad E (quasi inventata). Solo che nessuno lo fa e tutti nascondono i problemi nella dotta illustrazione della procedura di stima, che nessuno legge mai. In genere gli utenti, compresi tutti gli economisti amici tuoi, prendono i dati come se fossero oro colato.
Boldrin. Lasciamo stare … non “tutti” gli economisti, solo alcuni … ma transeat. Puoi darmi qualche esempio specifico?
Federico. Prendiamo i dati che ci servono per il divario regionale. La misura standard è il cosiddetto reddito nazionale, in questo caso regionale – in termini tecnici il PIL (prodotto interno lordo) a prezzi nominali. È la somma di tutti i beni e servizi prodotti in una nazione (regione) in un dato periodo, che è anche pari alla somma dei redditi di tutte le persone che hanno lavorato, o anche alla somma di consumi, investimenti ed esportazioni meno importazioni. A voler essere rigorosi sarebbe necessario tener conto della possibilità di diversi livelli di prezzo fra le regioni. In genere quelle più povere hanno prezzi minori e quindi lo stesso reddito monetario compra più beni. Le stime finora non hanno tenuto conto di questo effetto, e quindi i dati che ti citerò tendono a sottovalutare (ripeto sottovalutare) il divario fra Nord e Sud. In teoria il PIL potrebbe essere stimato o come somma dei prodotti o come somma dei redditi. Il risultato dovrebbe essere eguale ma non succede mai. Per l’Italia non ci sono dati sufficienti sui redditi e quindi tutte le stime sono dal lato dell’offerta – cioè la somma dei prodotti, in teoria uno per uno.
Boldrin. Un lavoro di una noia mortale, oltre che squisitamente impossibile visto che, sia al tempo che allora, nessuno tiene il registro di tutto quanto produce, giorno per giorno.
Federico. In effetti. Io l’ho fatto per l’agricoltura e posso garantirvi che è un lavoro delicato e ingrato. Prendiamo per esempio la stima della produzione di carne. Bisogna partire dal numero di vacche. In Italia, sono stati tenuti due censimenti del bestiame, nel 1881 e nel 1908. Per tutti gli altri anni bisogna interpolare il numero di animali ed in particolare di vacche. Io l’ho fatto con un piccolo modello tenendo conto dei prezzi relativi, del reddito etc. Ciascuna vacca fa nascere un vitello l’anno: bisogna stimare quanti sopravvivono, per rimpiazzare gli animali vecchi o per essere macellati, e bisogna stimare a quale età vengono macellati. La produzione di carne è pari al numero di animali macellati per il peso medio. In tutti questi passi, l’autore deve fare delle scelte - la struttura del modello per lo stock, i coefficienti di perdita di vitelli, il numero di animali da rimpiazzare (che dipende dalle pratiche di allevamento), l’età alla macellazione, il peso in carne etc. Si può basare su fonti parziali (p.es. la statistica della macellazione del 1906) che però considerava solo le grandi città), sulla letteratura tecnica dell’epoca e su (rari) lavori storici (p.es. su aziende). Ma alla fine è questione di “fiuto”: quanto sono attendibili le fonti ufficiali, di quale autore fidarsi etc. A fidarsi troppo delle fonti si fanno errori clamorosi Per esempio, sull’agricoltura, la vecchia ricostruzione ISTAT della serie del reddito nazionale, su cui si è basato il dibattito storiografico per quaranta anni è palesemente errata. Infatti è stata fatta negli anni Cinquanta da statistici dell’ISTAT che si sono fidati ciecamente di una statistica del 1870-1874 sulla produzione di grano. Peccato che secondo la statistica la provincia di Caserta producesse più grano di tutta la Lombardia. Palesemente assurdo, e infatti alcune fonti successive lo hanno detto.
Boldrin. Commovente, Sherlock Holmes. Ed il risultato di tanto lavoro?
Federico. Per quanto mi riguarda, una stima annuale (provvisoria) della produzione nazionale e quattro stime della produzione agricola per regione nel 1891, 1911, 1938 e 1951. Queste ultime sono poi state incorporate, insieme alle analoghe stime di Fenoaltea, per il settore industriale, e di Felice, per i servizi, in una stima del prodotto interno lordo per regioni in quegli anni (Felice 2007). Si tratta di dati ragionevolmente attendibili, date le fonti – diciamo C nella classificazione di Feinstein - un margine di errore del 10% in più o in meno.
Boldrin. E cosa dicono le stime “ragionevolmente attendibili” per il 1891?
Federico. Facendo 100 l’Italia, il prodotto pro-capite era 115,7 nel triangolo industriale, 91.4 nel Nord-Est (il Veneto era poverissimo), 111,1 nel Centro, 86.4 nel Sud e 93.2 nelle Isole. Un divario fra triangolo industriale e Sud di circa il 33.3%. Nota che il Triveneto era piu “povero” delle isole e neanche il 10% superiore al Sud. Oggi il PIL del triangolo industriale è superiore a quello del Sud del 75%, e nel 1951, al massimo del divario interregionale, era 2.5 volte tanto, ossia era superiore del 150%.
Boldrin. Ma il Centro? Perché era così ricco, relativamente parlando?
Federico. Per “colpa” del Lazio. Sarebbe stata la regione più ricca d’Italia, secondo quei calcoli. Matematicamente perché la percentuale di addetti ai servizi era più alta (il 28% contro il 18%) e la loro produttività era molto più alta (il 50% in più). Credo sia un effetto della concentrazione di impiegati pubblici (relativamente ben pagati) a Roma. Evitiamo battute, please. So benissimo che misurare la "produttività" del funzionario pubblico in base al reddito che percepisce ma non in base al valore “vero” (qualunque esso sia) di quanto produce fa ridere. Ma si fa ancora e infatti continua a dare un Lazio, via Roma, molto piu “produttivo” della media nazionale.
Boldrin. Va bene, mi contengo: tanto hai già detto tu, a me basta sottolinearlo. Ma qui siamo già trent’anni dopo. Non avreste dei numerini affidabili anche per il 1861?
Federico. No e sarà difficilissimo produrli. Nel 1861 le fonti ufficiali sono molto scarse e poco affidabili, si era ancora in pieno caos da unificazione. Alcuni amici miei stanno lavorando a una stima per il 1871, ma si basa più sulle stime del 1891 che su ricerche originali. I risultati preliminari suggeriscono un divario simile, forse lievemente inferiore a quello del 1891. E dal 1861 al 1871 sono successe molte cose. Daniele e Malanima (2007) hanno fatto una stima molto approssimativa per il 1861 - quella che in gergo si chiama “back of the envelope” (sul retro di una busta) e che Feinstein classificherebbe E. Loro sostengono che il divario Nord-Sud era quasi nullo, e che ha iniziato ad comparire alla fine degli anni Sessanta. Alla luce della (più recente) stima della Banca d’Italia per il 1871 direi che si sbagliano, probabilmente perché usano una stima di Fenoaltea della produttività dell’ industria nel 1871 troppo alta. In ogni caso, sono stime molto approssimative. Diciamo che nel 1861 il divario fra triangolo industriale e Sud variava da un minimo di zero ad un massimo del 40%. Il valore più probabile era del 20-25%.
Boldrin. Un bel margine di errore. Cambia molto. Non si potrebbe essere più precisi?
Federico. Non con il PIL, salvo miracoli di Lourdes tipo la scoperta di una inchiesta inedita. Ci sono gli indicatori indiretti di benessere, come l’alfabetismo, l’altezza (che riflette i livelli di nutrizione), la mortalità infantile. Ci sta lavorando Giovanni Vecchi, un economista molto bravo di Tor Vergata. Più o meno sono tutti superiori del Nord Ovest, ed in alcuni casi anche di molto. Per esempio, il tasso di alfabetizzazione era del 46.3 in Lombardia e dell’11,4 in Sicilia.
Boldrin. Sappiamo tutti che l’analfabetismo italiano era notevole e quello del Regno delle Due Sicilie particolarmente tale, ma davvero così bassi? Peggio che in Afghanistan ora.
Federico. La spesa per istruzione primaria era decisa a livello comunale, e i latifondisti siciliani non avevano alcuna voglia di pagare tasse per istruire i figli dei contadini, che poi magari chiedevano un aumento di salario. Devi anche considerare che l’Italia era un paese poverissimo.
Boldrin. Quanto povero?
Federico. Le stime (provvisorie) della Banca d’Italia implicano un PIL procapite attorno ai 1.500 euro attuali nel 1861. Nell’ipotesi “media” sarebbero, nel 1871, 1600 euro nel Sud e poco più di 2000 nel Nord-Ovest. Prima di lamentarsi dei mali dello sviluppo capitalistico, forse sarebbe meglio pensare a come facevano a vivere i nostri antenati. Siamo arrivati a 6600 euro – cioè ad un reddito mensile pro capite superiore all’attuale pensione minima - solo nel 1959. Per trovare oggi valori comparabili a quelli italiani del 1860-70 dobbiamo andare in Senegal o in Laos. Era povera, l’Italia risorgimentale.
Boldrin. Già. Ma ritorniamo al divario all’unità. Tu citi il triangolo industriale, non il Nord. Quindi la tradizionale distinzione “orientale ed occidentale” conta? Tu capisci la rilevanza oggi, per due ragioni. Da un lato i furori politici sembrano concentrarsi più sul Nord-Est. Dall’altro l’esperienza di quest’ultimo, che è riuscito apparentemente a passare da molto povero a molto ricco in mezzo secolo contiene forse delle lezioni rilevanti su cosa induce sviluppo economico e cosa non lo induce.
Federico. Come detto, il Nord-Est era poverissimo. Il Veneto nel 1891 aveva un PIL inferiore del 20% alla media Italiana. Solo Calabria, Abruzzi e Basilicata erano più poveri. Questo vuol dire, per chi si scorda la geografia, che Campania, Sicilia e Puglia erano più ricche del Veneto. Lo sviluppo industriale veneto è faccenda del secondo dopoguerra.
Boldrin. Ma da dove venivano queste differenze regionali?
Federico. Sostanzialmente dall’industria. Nel 1891, la produttività per addetto in agricoltura era superiore del 50% nel Sud perché il rapporto terra/lavoro era molto più alto che nel triangolo industriale. Il divario nei servizi era più o meno simile alla media dell’economia. Invece nell’industria il numero di addetti era di poco superiore nel triangolo industriale (26% della popolazione attiva contro il 20% nel Sud e isole), ma ciascuno di loro produceva circa il doppio. Nel Nord era già iniziato lo sviluppo dell’industria moderna, specie nei settori tessili (cotone e seta). Nel Sud erano quasi tutti artigiani, spesso part-time. Al momento dell’unificazione, Napoli era un enorme centro manifatturiero, con migliaia di addetti. Ma non erano in grado di sostenere la concorrenza di paesi più avanzati, e neppure del Nord, e infatti negli anni successivi all’unità, senza dazi doganali, questa ”industria” meridionale è scomparsa.
Boldrin. Insomma, non era “industria” come la intendiamo noi o come la intendevano gli inglesi al tempo, per dire. Erano tanti artigiani, singoli o messi assieme, ma le tecniche produttive utilizzate erano primitive. E le grandi industrie del Sud, il famoso stabilimento meccanico di Pietrarsa su cui piangono i meridionalisti di ritorno come Pino Aprile?
Federico. Le cifre si riferiscono al 1891 – non ci sono ancora dati per settore nel 1871. Ma in ogni caso Pietrarsa era una cattedrale nel deserto, tenuta su con i sussidi e le commesse gia allora, pensa un po! A livello aggregato contava pochissimo.
Boldrin. In sostanza, il divario, per quanto piccolo in termini assoluti, era già significativo nel 1861. E le prospettive di sviluppo erano migliori nel Nord. Se non altro il capitale umano era (relativamente) più abbondante, c’era maggiore istruzione, salute, eccetera. Forse - si potrà dire ? - c'era già allora più "stato" di diritto, nel senso di un sistema amministrativo e di "legge e ordine" che funzionava più che al Sud, dove il potere locale era altamente feudale ...
Federico. In effetti. Come si dice - nel regno dei ciechi, l’orbo è un re. Aggiungo anche che il Nord aveva due vantaggi importanti dal punto di vista dell’industrializzazione. Aveva l’acqua, utile per molte lavorazioni e soprattutto fonte di energia indispensabile in un paese privo di carbone. Ed era geograficamente (e culturalmente) più vicino all’Europa. Inoltre aveva un abbozzo di rete ferroviaria, o almeno l’aveva il Piemonte. Nel Sud, dopo la Napoli Portici (praticamente una metropolitana) non avevano costruito nulla.
Boldrin. Quando comincia questo “distacco” fra Nord e Sud?
Federico. Bella domanda. Per rispondere devo fare un piccolo passo indietro sulla ricostruzione dei dati. La metodologia che ti ho descritto all’inizio è la cosidetta stima diretta, che richiede un minimo di dati. Questi non sono disponibili per quasi nessun paese prima del 1800. Che io sappia, esiste solo un tentativo di stima diretta per il periodo pre-industriale, molto recente, per l’Inghilterra – ed è molto contestato.
Boldrin. E quindi?
Federico. Gli storici economici più cauti dicono che non si può far nulla. Ma esiste un gruppo di "pazzi" che ci prova comunque. La maggioranza usa un metodo indiretto, che si basa sui salari reali, in genere dei muratori urbani. Si assume che siano un indice del reddito delle masse popolari e si calcola il consumo di prodotti alimentari e quindi la produzione agricola, che nelle società pre-industriali rappresentava il 60-80% del totale. Si aggiunge una stima della produzione di industria e servizi e si ottiene il PIL.
Boldrin. E funziona? Se capisco bene si basa su argomenti del tipo “costo opportunità“, ossia se i muratori in città guadagnano X allora i tessitori devono guadagnare una frazione a di X ed i mugnai b di X ...
Federico. In effetti assumono che tutti i redditi da salario aumentino nella stessa misura, che il mercato del lavoro sia integrato etc. Una serie di assunzioni abbastanza azzardate e il risultato sono stime molto approssimative. Diciamo al massimo un D. Gli autori pensano che sia meglio che niente. Io tutto sommato sono d'accordo, almeno in teoria. Poi bisogna andare a vedere caso per caso.
Boldrin. Appunto. Per l’Italia cosa abbiamo?
Federico. Una stima di Malanima per il Centro-Nord, Lazio escluso dal 1300 (Malanima, forthcoming). Secondo lui, il livello medio del reddito pro-capite è rimasto sostanzialmente stabile fino al 1880, fluttuando ampiamente a seconda del rapporto terra/popolazione. Il massimo pre-industriale sarebbe stato agli inizi del XV secolo, con un reddito superiore del 40% a quello dell’Unità (appunto il livello del 1880). Alla metà del Settecento, il PIL sarebbe stato superiore del 15% circa a quello del 1861 e poi sarebbe diminuito per l’aumento della popolazione, da 9,3 a 16 milioni. Gli anni Cinquanta dell'Ottocento sono stati particolarmente negativi, anche per una serie di malattie che hanno colpito la produzione agricola.
Boldrin. Ammettiamo che queste stime siano esatte (turandoci il naso). E il divario? Ci sono stime per il Sud?
Federico: No, che io sappia. Malanima non le ha fatte, probabilmente perché mancano serie salariali decenti. La sua stima però implica che il 1860 abbia segnato un minimo del divario interregionale. Se il reddito pro-capite è funzione inversa del rapporto terra/popolazione, le fluttuazioni tendono ad essere più ampie in una zona dove la terra è scarsa, come il Centro-Nord, che in una di terra abbondante come il Sud. Ma queste sono pure speculazioni.
Riferimenti bibliografici.
Daniele Vittorio e Paolo Malanima "Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004)" Rivista di Politica Economica 97 (2007) pp, 267-315
Felice EmanueleDivari regionali ed intervento pubblico, Mulino, Bologna 2007
Malanima Paolo "The long decline of a leading economy. GDP in Central and North Italy 1300-1913", forthcoming in European Review of Economic History (2011)
E' una bellissima idea parlare di questo argomento. A me da terrone sta particolarmente a cuore ma credo possa essere utile a tutti.
Caro Boldrin, la fase II non puoi farmela aspettare troppo perche' questa intervista mi piace assai e adesso voglio sapere come va avanti.
Interessantissimo anche capire come si ottengono questi benedetti numeri , e quanto "reali" siano, mi piace molto la definizione in lettere che rende subito chiara la percentuale di affidabilita' di tali dati. Insomma svelando un po' di retroscena ai cosidetti volonterosi dilettanti rendiamo piu' "umani" questi cattedratici che ogni tanto magari se la tirano un po'
Bello Boldrin, aspetto la seconda parte al piu' presto.