Federico: Devo dire che sono molto colpito dalla discussione sul primo post Mai avrei pensato vent’anni fa, quando facevo le mie prime stime della produzione agricola, che avrebbero interessato qualcuno al di fuori di un ristrettissimo circolo di specialisti. Da un lato mi fa piacere, dall’altro conferma i miei timori sulla politicizzazione.
Boldrin: In effetti, alcuni commenti avanzano teorie causali del tutto improbabili ma anche alcuni quesiti o affermazioni che, volendo pensarci seriamente, portano a questioni complicate assai e che mi sono “care”, per cosi dire. Ti dispiace se facciamo una piccola deviazione fra il metodologico ed il tecnico, e ne discutiamo un momento, prima di ritornare al tema centrale, ossia i fatti storico-economici che caratterizzano l’unita d’Italia?
Federico: Credo sia necessario.
Boldrin: Grazie, Giovanni. Allora, prima questione: svariate persone sembrano avere una teoria “causale” di tipo storico in mente secondo cui vi sono dei fattori non facilmente quantificabili e che vengono classificati come “capitale sociale” i quali possono “causare”, se alti, il progresso economico mentre lo impediscono quando sono bassi. Questa teoria, a mio avviso erroneamente, viene attribuita a Putnam ed al suo libro Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy (la versione italiana è titolata La tradizione cvica delle regioni italiane). Nel libro in questione, in realtà, Putnam fa un discorso che poco ha a che fare con la crescita economica per se e molto con il funzionamento dello stato di diritto, della democrazia liberale, della fornitura di servizi pubblici locali, eccetera. Il libro, infatti, nasce da una ricerca sull’attuazione del decentramento regionale in Italia e si concentra sulla relazione che Putnam ed i suoi collaboratori identificano fra alcune misure “storiche” di “civismo” o “tradizioni civiche” e la qualità dei servizi pubblici offerti in quelle medesime aree durante gli anni ‘80. L’idea è che, affinché lo stato “sociale” funzioni, occorre che i cittadini mettano in atto strategie “cooperative”, altrimenti il dilemma del prigioniero travolge tutto e porta allo sconquasso. Le strategie cooperative sono di equilibrio solo in giochi ripetuti dove c’è poco discounting del futuro e dove gli altri giocatori apprendono a “punire” rapidamente ed efficacemente chi devia. Tali strategie, ci ha insegnato la teoria moderna dei giochi ripetuti, si reggono su insiemi complicati di “credenze” che devono svilupparsi nel tempo e hanno bisogno di corroborazione empirica per affermarsi. Tutto questo definisce una “cultura” che va appresa lentamente nel tempo, nei secoli forse, e che non si improvvisa dalla mattina alla sera semplicemente perché un parlamento dice “ora ci sono le regioni, amministratevi”, oppure “ora c’è il federalismo, fate voi”. Il ragionamento che sorregge questa analisi e la notevole mole di dati empirici che Putnam e i suoi collaboratori raccolsero (il libro è del 1993) mi convinsero abbastanza allora e mi convincono tutt’ora. Ho qui davanti la mia copia, acquistata a Chicago nell’aprile del 1993, e vedo solo poche note critiche su dettagli del tutto secondari. So far so good, lasciamo questo tema da parte (che ci servirà in una delle prossime puntate) e veniamo alla crescita economica. Nel capitolo 5 del libro Putnam tenta un esercizio più azzardato. Dopo aver sviluppato degli argomenti piuttosto contorti sulla “persistenza” storica delle tradizioni civiche (si reinventa un po’ di storia d’Italia, riduce le dimensioni dello stato papalino, vede grandi tradizioni comunali nel territorio del regno dei Savoia …) in modo da poter creare una relazione uno-a-uno fra l’alta qualità dei servizi pubblici odierni e le tradizioni comunali del tardo medioevo, egli fa un’osservazione obiettivamente importante e coerente con quanto noi abbiamo sostenuto nella prima puntata. Ossia: che attorno al 1860-70 le differenze di reddito e produttività fra Nord e Sud erano relativamente ridotte e che, soprattutto, non avevano alcuna correlazione, provincia per provincia, con le sue misure di “tradizioni civiche” (Tavola 5.2, pagina153).
Federico: Come detto nel post precedente, le differenze di reddito pro-capite Nord-Sud nel 1860 erano molto probabilmente modeste, ma il margine di incertezza è ampio – ripeto dallo 0% al 40% con un valore più probabile attorno al 20%. Stimare dati per provincia è impossibile.
Boldrin: Sospettavo, la qual cosa implica che non si capisce bene come Putnam misuri il reddito provinciale; ma andiamo avanti. La correlazione, invece, cresce nel tempo sino ad arrivare ad essere molto alta negli anni ‘70 e - come la ricerca recente di Guido Tabellini, chiaramente ispirata dalle osservazioni di Putnam, prova - ancor più ai giorni nostri. I suoi dati si fermano agli anni ‘70 del XX secolo, ma è banale notare che con dati degli ultimi dieci anni la correlazione potrebbe essere addirittura maggiore dello 0,84 (ricordiamo che 1 è il valore massimo) che riporta alla fine della Tavola 5.2. Insomma, Putnam è stato forse il primo ad osservare una cosa che oggi molti sottolineano, cioé che esiste una forte correlazione fra ALCUNE forme di organizzazione socio-politica del passato e il livello attuale del reddito e che questa correlazione e andata aumentando nel tempo. La correlazione è evidente e sta alla base delle continue discussioni (alle quali io pure partecipo, a volte) sull’esistenza di due Italie, l’abisso culturale e sociale (oltre che economico) che le separa(va) e tutto il resto. Ma questa, appunto, è politica. Dal punto di vista strettamente storico e scientifico occorre osservare anzitutto che la correlazione, stranamente, aumenta nel tempo anziché diminuire. Ossia, nel 1860, sul piano puramente economico almeno, nessuno avrebbe pensato che “i comuni causano crescita economica ed i borboni o il papa causano sottosviluppo”, perche i dati ed i fatti del tempo non giustificavano tale associazione (altre cose forse sì, e sulle reazioni dei nordici inviati nel Mezzogiorno dopo l’unificazione torneremo in uno dei nostri prossimi colloqui).
Federico: Magari dicevano che i Borboni erano reazionari ed incivili (Gladstone “Il regno borbonico è la negazione di Dio” - 1851) e che creavano sottosviluppo ma per ragioni molto più pratiche – non investivano in ferrovie per esempio.
Boldrin: Verissimo, ma nemmeno il Papa faceva ferrovie tra Bologna e Modena, no? Eppure oggi, in quella zona, stanno di un bene invidiato da tutti ... La correlazione è venuta manifestandosi dopo, con il passare del tempo. Ma con il passare del tempo tante cose son successe (come tante ne erano successe prima, tra il tempo dei comuni e quello dell’unificazione …) e le correlazioni che il buon Putnam ci mostra di tali cose non tengono conto. Detto altrimenti, vista così ed in assenza di una teoria che anche solo lontanamente possa sembrare una teoria della crescita economica, le correlazioni di Putnam (e quoindi le affermazioni ad esse conseguenti secondo cui son stati i “comuni” ed il capitale sociale a loro associato a causare la maggiore crescita economica del Nord) altro non sono che un classico caso di “sample bias”. Ossia: una volta che hai dati statistici da spiegare in termini “causali” cerchi a ritroso, fra gli altri disponibili, altri dati che hanno la migliore correlazione con quelli iniziali e da esso inferisci causalità. Una variante, la più semplice, delle tecniche di “specification search” di cui ci insegnò, tre decenni e passa fa, il buon Ed Leamer al meglio della sua forma intellettuale. Hanno utilizzato in molti questa metodologia, prima e dopo Putnam. Fra le "cause" istituzionali della crescita abbiamo: i “comuni” in Italia, l’impero asburgico in Europa centrale, le città commerciali nell’Europa del Nord e sul mar Baltico, le città del sud dell'Inghilterra e dei Paesi Bassi coinvolte nel commercio trans-atlantico, le regioni autonome in regime “foral” in Spagna, le colonizzazioni anglo-sassoni nelle Americhe, le antiche civiltà commerciali in Asia (in quest’ultima avevamo, sino a poco tempo fa, anche l’uso di “alfabeti” basati su un certo insieme di simboli ma ora è arrivata la crescita anche in India …) mentre sino a circa ottanta anni fa si sarebbe potuto teorizzare che l’adesione ad un certo sottoinsieme di religioni cristiane fosse il fattore determinante ... ho anche l'impressione che un famoso sociologo l'abbia teorizzato. Fra tutte poi spicca la teoria di un mio oggi anziano ma sempre molto prestigioso collega, secondo la quale sono state le "corrette" attribuzioni di diritti di proprietà, via brevetti in particolare, nell'Inghilterra del 18esimo e 19esimo secolo a fare tutta la differenza. Torniamo all’Italia. A tuo avviso, qual ruolo può aver svolto il capitale sociale nello spiegare i divari regionali (o anche lo sviluppo diseguale dopo il 1861) in Italia?
Federico: Io sono molto più scettico di te sul capitale sociale come categoria interpretativa. È troppo vago (la fiducia reciproca?) e quindi è impossibile da misurare direttamente. Ciascun autore usa una definizione diversa e poi lo misura con i dati che trova. Si usano misure tipo il numero di associazioni, o la partecipazione alle elezioni.
Boldrin: La diffusione delle bocciofile crea lo sviluppo economico? Putnam, scienziato sociale attento, non annovera misure come la mortalità infantile, la speranza di vita o l’analfabetismo fra le “tradizioni civiche” ma le tratta correttamente come misure di sviluppo economico. In termini tecnici sono fattori endogeni, creati dallo sviluppo, non cause pre-esistenti. Il Putnam reale questo lo capisce, quindi non ci prova nemmeno a fare certi ragionamenti. Sottolinea, per esempio, che nel 1870 la correlazione fra le sue misure di civismo e la mortalità infantile e praticamente zero. I suoi discepoli recenti sono meno rigorosi, ma tant’è.
Federico: Io sospetto che anche (quella cosa che chiamano) il capitale sociale sia endogeno. Altro problema, l’orizzonte temporale: bastano 100 anni? O bisogna risalire al Medioevo dei comuni? E cosa succede se c’è la dominazione straniera? Il capitale sociale rimane o si perde?
Boldrin: Se Milton Friedman poteva permettersi “long and variable lags” di svariati quadrimestri nello studio dell’impatto causale dell’offerta di moneta sull’output, noi possiamo ben permetterci qualche secolo o anche mezzo millennio nello studio di una catena causale così fondamentale come quella che va dalle “istituzioni” allo “sviluppo economico”, non ti pare? Lascia che insista un poco sulla questione capitale sociale. Come avrai inteso sono scettico anche io e tendo, intuitivamente, a pensare che vi sia un meccanismo di endogeneità come tu suggerisci. Da storico, potresti elaborare su quell’affermazione? In altre parole, usando le “norme sociali di comportamento” come definizione di capitale sociale, potresti dirmi come vedi tu, storicamente, l’interazione fra queste norme (alcuni le chiamano “cultura”) e lo sviluppo economico materiale, l’adozione di metodi maggiormente produttivi, eccetera? Insomma, ti chiedo di darmi, in poche frasi, uno sketch del tuo modello generale di come struttura e sovrastruttura interagiscono nello sviluppo economico, tanto per usare una terminologia marxista che tutti capiscono al volo.
Federico: Una domandina semplice. Come si dice: “il possibile è già fatto, l’impossibile lo faremo, per i miracoli ci stiamo attrezzando”. Non nego che un comportamento corretto (ubbidire alle leggi, rispettare i contratti, etc.) sia utile o forse addirittura indispensabile per l’ordinato funzionamento del sistema economico e quindi anche per lo sviluppo. Ma non vedo perchè il comportamento corretto debba essere innato (si sfiora il razzismo) o determinato da un particolare tipo di sistema politico, come il comune (che a sua volta mica nasce dal niente, è a sua volta il frutto di evoluzione storica). Forse la gente si comporta bene perchè un sistema giudiziario efficiente reprimerebbe rapidamente ed efficacemente comportamenti scorretti. O magari lo sviluppo favorisce i comportamenti corretti, come sostiene Mokyr sia successo durante la rivoluzione industriale inglese (Joel Mokyr, The enlightened economy. An economic history of Britain 1700-1850, Yale University Press, New Haven and London 2009, cap 16). Più in là non mi arrischio di andare: non vedo un primum movens ma solo fattori fra loro concatenati dove è difficile dire cosa ha causato cosa.
Boldrin: Come tu sai, ci sono economisti che sostengono che la common law (quella tipica dei paesi anglosassoni) favorisce lo sviluppo economico più della legge romana (Shleifer e La Porta). Acemoglu,Simon e Robinson prima maniera dicono cose simili, ossia che si sviluppano i paesi dove arrivano en masse i coloni occidentali dell'Europa del Nord, preferibilmente anglosassone. Tu ci credi?
Federico: Mica tanto. Da quasi trent'anni la Cina sta crescendo al 10% l’anno con un capitalismo di relazione e con un sistema legale alquanto confuso. In secondo luogo, credenze profonde, istituzioni, comportamenti pratici, eccetera, interagiscono in maniera molto complessa e soprattutto diversa a seconda dei casi. Stabilire una gerarchia unidirezionale (il capitale sociale determina le istituzioni e/o i comportamenti oppure le istituzioni determinano i comportamenti) valida per tutti i casi e tutte le epoche mi sembra impossibile. Si finisce alla metafisica.
Boldrin: E allora?
Federico: Proviamo con una via indiretta. Ma ci vuole un “modello” e per farlo dobbiamo infliggere ai lettori una piccola lezione di Economia 101. Qualcosa di semplice che capisco anch’io che sono laureato in lettere. Se vogliamo spiegare il divario fra il PIL pro-capite di due regioni, chiamamole Lombardia e Calabria, ci conviene partire da un modello per quanto rozzo di determinazione del PIL, ossia il valore della produzione che si ottiene combinando i fattori di produzione – capitale, lavoro etc. - in base alla tecnologia esistente. Ma di questo parleremo nella prossima puntata.
esiste una evidenza del fatto che il capitale sociale aumenta con la crescita (o sviluppo) economica? perché mi sembra che i lavori che citate/criticate, spiegano la relazione di causalitá opposta.
PS. mi sembra ci sia una esplicita critica al lavoro di Guiso-Zingales. ma il loro lavoro non viene citato. una dimenticanza?