Gentile De Nicolao,
Come le dicevo non trovo il suo tono molto piacevole. Non apprezzo, soprattutto il suo tentativo – peraltro reiterato – di far passare una mia nota in cui onestamente le dicevo di non conoscere i suoi dati (i dati Scimago) in una ammissione di fare “affermazione perentorie” senza sapere di cosa parlo. Ancora meno apprezzo il suo suggerimento ai lettori che se non so di cosa parlo su questo, forse... Dopo tutto io ho accettato di dibattere, nonostante tutti (ma proprio tutti, non solo quelli tra i miei amici che si occupano a tempo pieno di screditare l’università italiana) mi consigliavano di lasciar perdere. Vi siete guadagnati una bella reputazione voi a Roars, complimenti!.
Ma il tono e' abbastanza soggettivi e capita spesso anche a me di essere meno che piacevole. E poi non mi piace rinnegare le promesse. Le rispondo quindi. Lo farò brevemente in alcuni punti. E lo farò senza cercare di fare lo spiritoso o di prendermi gioco delle sue affermazioni – non perché non sia facile farlo, ma per cercare di essere diretto e stilisticamente neutro nell’analisi.
L’affermazione che ha scatenato la sua oltraggiata reazione appare essere che "L'universita [italiana produce] poca ricerca". Credo anche che il riferimento a Perotti, che mi par di capire lei e molti altri considerano un nemico della patria, abbia contribuito.
Senza pretendere di fornire una analisi completa della quantità e qualità della ricerca dell'università italiana, vorrei discutere brevemente alcuni aspetti diversi che a mio parere piu' che giustificano l'affermazione incriminata. In realta', sono proprio i dati Scimago, quelli che lei ha introdotto nella discussione, a fornire le piu' chiare munizioni in supporto alla mia affermazione. Inizio con tre note metodologiche.
i) Tralascero' di considerare l'insegnamento, in questo post, e discutero' solo di ricerca, perché di ricerca si sta discutendo. Tralascero' quindi di analizzare i dati sulla spesa per studente e quelli sul rapporto docenti-studenti, per quanto interessanti siano le questioni che quei dati impongono di affrontare: come definire uno studente, data l'anomalia tutta italiana dei fuori-corso, e come definire un docente, dato il numero di contratti (integrativi e sostitutivi) censiti dal ministero (ringrazio Francesco Ferrante che mi ha fatto notare questo punto).
ii) Confronterò l'Italia con il Regno Unito. Il Regno Unito infatti è paese simile all'Italia in popolazione e Pil ed è un paese il cui sistema universitario è notoriamente di grande livello - rappresenta probabilmente la frontiera in Europa. In altre parole, i miei confronti vanno interpretati come misure di quanto lontana sia l'Italia dalla frontiera. Ma un confronto piu' generale, tra paesi diversi, e' naturalmente possibile. In questo caso pero' bisogna normalizzare i dati, per il totale della popolazione e/o per una misura del reddito del paese. Lei non lo fa, purtroppo. Ma lo fa Andrea Moro in un post gemello a questo sul nostro blog. Senza voler rovinare la suspence, anticipo che l'Italia il 7-8 posto di cui lei e' cosi' fiero, De Nicolao, non lo mantiene proprio.
iii) Anche se i miei commenti riferiranno all'universita', gli articoli e le citazioni nei dati includono quelli prodotti dai centri di ricerca al di fuori dell'universita', che hanno un ruolo importante nella produzione di ricerca in Italia (si pensi al CNR) ma hanno un ruolo essenzialmente irrilevante nel Regno Unito. Se li togliessi dall'analisi (non lo faccio; si possono produrre buone argomentazioni pro e contro) il risultato sarebbe un peggioramento del giudizio sulla produttivita' relativa dell'universita' italiana in termini di ricerca. In sostanza, sto implicitamente assumendo, a favore dell'Italia,che la ricerca che in Italia fa il CNR nel Regno Unito viene fatta in universita'
1.Concorsi. L'università italiana e la sua produttività in termini di ricerca sono il risultato di decenni di selezione attraverso concorsi. L'impressione che molti (tra cui io) hanno di questo meccanismo è che esso sia stato spesso "corrotto" (con alti e bassi a seconda anche della legislazione; legislazione peraltro motivata proprio da questa generale impressione di "corruzione"). Parlo di impressione perché ovviamente è difficile produrre una analisi statistica del fenomeno. Però il mio blog riceve ancora oggi spesso appelli da parte di chi si ritiene danneggiato da membri interni, parenti o amici; quasi ogni conversazione con amici accademici finisce per ricordare il tal o il tal altro concorso maneggiato dal tal o tal altro barone; il nemico della patria Perotti racconta storie interessanti a questo proposito nel suo libro. Nulla più di aneddoti, ovviamente.
Vorrei però citare anche due analisi statistiche centrate sul nepotismo (un estremo ma probabilmente minimo indice della "corruzione" del sistema universitario), precise ed attente:
- Academic dinasties, familism, and productivity in the Italian academia, di Ruben Durante, Giovanna Labartino, Roberto Perotti, 2012
- Measuring Nepotism through Shared Last Names: The Case of Italian Academia, di Stefano Allesina, 2011.
2. Dottorati di ricerca etc. In tutto il mondo la ricerca avviene "intorno" ai dottorati di ricerca, dove studenti con ambizioni accademiche sono formati nelle rispettive discipline. Non è necessario che sia così, esistono ottimi centri di ricerca non universitari e/o università con pessimi dottorati, dove si produce ricerca di prim'ordine. Ma queste sono eccezioni, non la norma. Un indicatore fondamentale della qualità dei dottorati è dato dal flusso di studenti che essi ricevono da altri paesi. Questo perché in effetti si è formato un "mercato" internazionale degli studenti per cui le università competono sulla base della propria qualità nella ricerca (ma anche, recentemente, con borse di studio e altri meccanismi). Il confronto tra Italia e Regno Unito a questo proposito è drammatico:
Tabella A: Brain Gain
Paese | % studenti di dottorato dall'estero nel 2000 |
Italia | 2 |
Regno Unito | 35 |
Dati: European Commission (2003) - in Lo splendido isolamento dell’università italiana, Stefano Gagliarducci, Andrea Ichino, Giovanni Peri, Roberto Perotti, 2005; l'intera Tabella 4 nel testo è molto istruttiva.
3. Produttività nella ricerca. Se i punti 1 e 2 riferiscono alla quantità e qualità della ricerca nell'università italiana solo in modo indiretto, veniamo ai dati Scimago.
Tabella B: Articoli e citazioni
Paese | Articoli - in migliaia; 2006-2010 | Citazioni - in migliaia; 2006-2010 |
Italia | 762 | 9.862 |
Regno Unito | 1.533 | 24,535 |
Dati: Scimago; riportati da De Nicolao, Roars il 13 Aprile 2012.
L'Italia produce metà articoli del Regno Unito e meno di meta' citazioni! Si noti che il numero di citazioni per articolo è circa 13 in Italia e 16 nel Regno Unito, il che indica seppur rozzamente una minore qualità dell'articolo medio in Italia che nel Regno Unito (questo indicatore, usato da Perotti è ridicolizzato da De Nicolao perché dipende in modo drammatico dalla dimensione del paese; ma Italia e UK sono essenzialmente uguali in popolazione e PIL...).
4. Produttività nella ricerca per unità di spesa. Se la produttività in Italia è bassa rispetto al Regno Unito, questo può essere dovuto al fatto che l'Italia spende poco per la ricerca.
Tabella C: Articoli e citazioni per unità di spesa
Paese | Articoli - per milione di dollari; 2010 | Citazioni - per milione di dollari; 2006-2010 |
Italia | 8 | 190 |
Regno Unito | 10 |
270 |
Dati: Scimago; riportati da De Nicolao, Roars il 13 Aprile 2012 [I numeri riportati in tabella sono approssimati; estratti "a occhio" da questa Tabella, riportata nel post di De Nicolao.
Se è vero che per unità di spesa il divario con il Regno Unito non appare così elevato, resta comunque vero , nelle citazioni (cioé in una misura che tiene conto seppur rozzamente della qualità della ricerca stessa) che il Regno Unito produce il 42% più citazioni per unità di spesa dell'Italia (e 25% piu' articoli). C'è un altro punto importante qui: la spesa cui i dati della tabella di De Nicolao riferiscono è quella che l'OCSE definice HERD (Higher Education Research and Development Spending) che non include la spesa per il CNR. Se assumiamo che la ricerca che in Italia fa il CNR nel Regno Unito viene fatta in universita' (come dobbiamo fare perche' il confronto tra articoli e citazioni sia valido; vedi nota medodologica iii sopra) allora stiamo drammaticamente sopravvalutando articoli e citazioni per unita' di spesa in Italia in relazione al Regno Unito.
5. Ranking delle università. Ci sono tanti rankings quante università, ma quello più utilizzato e più noto è lo Shangai Ranking, prodotto da Academic Ranking of World Universities.
Tabella D: Ranking delle università.
Paese | Università nelle prime 100 |
Italia | 0 |
Regno Unito | 11 |
Dati: Academic Ranking of World Universities, 2011.
Alcuni commenti a mò di conclusione sono necessari. Innanzitutto, l'affermazione che l'università italiana produce poca ricerca è drammaticamente confermata nei dati, anche e soprattutto in quelli di De Nicolao. De Nicolao è giunto a conclusioni opposte perché ha evidentemente evitato il confronto tra Italia e Regno Unito, preferendo quello con la Francia (e a volte il Giappone). La Francia è sì simile all'Italia in molti aspetti, anche se non tanto quanto il Regno Unito ad esempio in termini di popolazione, ma non è alla frontiera della ricerca - questo è abbastanza sorprendente e ringrazio De Nicolao per averlo così ben documentato.
Lo scuorfano è bello a mamma sua, e tutti noi ci accontentiamo di noi stessi, ma davvero dobbiamo essere entusiasti di un paese che produce la metà del Regno Unito? Si può davvero essere arroganti come lei è, De Nicolao, nel suo post quando ha davanti dati di questo tipo? Che non solo dimostrano che la produttività totale della ricerca in Italia è metà di quella del Regno Unito ma che anche la produttivita' per unità di spesa è anche molto inferiore? Non voglio nemmeno pensare a cosa succederebbe se togliessimo la ricerca prodotta dal CNR.
La mia affermazione sulla ricerca in Italia era nel contesto di una lista di possibili risparmi di spesa pubblica. Lei, De Nicolao, a questo proposito afferma
Difficile pensare che siano possibili grandi risparmi senza precipitare nel terzo mondo [addirittura in neretto nel testo; ndr].
Mi permetta di spiegarle come si fa. E' davvero molto semplice. Michele Ciavarella e Vito Ricci hanno calcolato, per gli anni 2004-2010, una misura della percentuale dei docenti italiani del tutto improduttiva, sia come citazioni, sia persino come pubblicazioni:
Tabella E: Docenti con zero pubblicazioni
Fascia | % con 0 articoli | % con 0 citazioni |
Ordinari | 26,8 | 33,7 |
Associati | 26,5 | 33,3 |
Ricercatori | 29,4 | 36,0 |
Dati: Michele Ciavarella e Vito Ricci su ItalianScientists; elaborazioni da Scholar Search (database in inglese e italiano), per gli anni 2004-2010.
Il 30% di docenti italiani ha zero pubblicazioni. Speculo: il 50% produce ricerca minima e/o irrilevante. Io non credo che queste percentuali siano particolarmente elevate per l'Italia (ma sono disposto ad essere sorpreso) - docenti che non fanno ricerca o ne fanno pochissima ce ne sono dappertutto. Ma solo in Italia sono pagati esattamente come gli altri, e hanno lo stesso carico di insegnamento degli altri. Non crede che si possa risparmiare qui senza finire nel terzo mondo, De Nicolao?
Mi pare di avere letto che i dati di scholar search siano totalmente inaffidabili e che quindi i dati sulla produttività nulla di alcuni docenti italiani siano inaccurati.
penso anch'io. Google scholar è come minimo molto rozzo: prende cose irrilevanti (tipo interventi a convegni o seminari di cui esistano slide sul web) e ne trascura altre perché la casa editrice non è indicizzata (il che può essere un indicatore negativo, ma non è necessariamente vero). Andrebbe magari integrato con google web o altre fonti.