Lorenzo Da Ponte è stato un personaggio eccezionale: meriterebbe un bel film hollywoodiano. Un ebreo veneto, convertito alla religione cattolica, che dopo aver girato le corti di mezza Europa, percorso un po’ di strada insieme a Casanova, scritto libretti per Mozart e Salieri, fatto l’impresario a Londra, scopre poi l'Amerika: se ne va a vivere a New York, dove diventa il primo professore di letteratura italiana in quella che oggi è la Columbia University e muore infine cittadino americano nel 1838.
Tra le tante cose che Da Ponte ha prodotto, c’è anche la sua autobiografia che, spinto da impeto bibliofilo, ho acquistato qualche anno fa da una di quelle bancarelle che vendono libri fuori commercio. E’ stato un acquisto fortunato, perchè il libro, intitolato Memorie, oltre ad essere scritto in un italiano piacevole e per nulla appesantito dal tempo (non potrebbe essere diversamente per l’autore del Don Giovanni o di Così Fan Tutte) consente di vivere l’atmosfera quotidiana che si respirava a Venezia, in Europa e anche in America, a cavallo tra ‘700 e ‘800.
Il motivo per cui ne parlo oggi qui, non è però musicale o letterario, ma per ragionare sull’unità d’Italia e su cosa vuol dire essere italiani. Cosa ha a che fare Da Ponte con l'unità d'Italia? Non è mai stato un patriota, sotto molti aspetti è stato un cives mundi, un libertino, un vero figlio del ‘700, eppure.... Eppure c'è un passo nella sua autobiografia che ben può essere usato per discutere del concetto di “Italia”. Nella seconda parte del suo libro, infatti, quando descrive gli anni americani e la comunità di italiani che lì viveva, Da Ponte descrive la vita di una comunità, per l'appunto, di "italiani", non di veneziani, non di milanesi, non di napoletani, ma gente accomunata da una lingua comune e da tradizioni comuni, nonostante le differenze e che egli definisce "compatrioti". Come molti espatriati, soffriva anche di nostalgia e così ce lo ritroviamo addirittura ad inciampare nell’orgoglio nazionale, facendo l’elogio ante litteram del made in Italy
"v'ebbero in ogni tempo e v'hanno ancora in Italia degli spiriti imprenditoriali, che spedirono e spediscono nelle città principali d'America (siccome nel'altre parti del mondo) prodotti, lavori e mercanzie di ogni sorte. Quasi in ogni città si trovano i vini e l'uva della Sicilia, l'olio, l'ulive e le sete di Firenze, il marmo di Carrara, le catenelle d'oro di Venezia, il cacio di Parma, i cappelli di paglia di Livorno, le corde di Roma e di Padova, i rosoli di Trieste, la salsiccia di Bologna e fino ai maccheroni di Napoli e le figurettine di Lucca" (pag. 388).
Ecco, la domanda che viene spontanea è: perché mai questo veneto, non-patriota e libertino, sente come a lui naturalmente comuni l’uva di Sicilia e i rosoli di Trieste, il cacio di Parma e i maccheroni di Napoli ? Proverò a rispondere, precisando che, essendo tutto tranne che uno storico, so di rischiare gli spernacchiamenti degli esperti. Bring it on, dicono gli amici amerikani.
Preciso subito che non intendo celebrare la burocratica data del 17 marzo, che sancisce un fatto politico. [Se il post esce il 17 marzo è colpa di Alberto, l'editor di turno.] Non è di politica in senso stretto che voglio parlare, infatti, ma della nascita degli "italiani" o, meglio, dell'identità nazionale.
La questione è aperta, anche perchè è stata trattata solo superficialmente da alcuni pensatori minori come Guicciardini, Machiavelli, Leopardi o Gramsci.....
Scherzi a parte, con Michele Boldrin ne abbiamo discusso a lungo privatamente e anche su nFA e lui, da ultimo, ha proposto la sua tesi: gli italiani (estremizzo) sono sostanzialmente un frutto di Mussolini: sarebbe stato il duce a portare a compimento la profezia di D’Azeglio, per cui fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani. Dice Michele:
l'Italia in cui noi viviamo è in buona sostanza un prodotto di Benito Mussolini e dei suoi soci e comparielli, più i preti. Il resto son dettagli scarsamente rilevanti.
Insomma gli italiani diventano “Italiani” solo grazie alla retorica fascista ed allo stato totalitario. La tesi è suggestiva e fissa la data di nascita degli “italiani” a poco meno di cento anni fa. Prima di allora le genti che abitavano il luogo geografico chiamato Italia erano “altro”, nel senso che la loro identità culturale era di carattere più locale, essenzialmente legata a realtà pre-unitarie. Questo soprattutto laddove quelle realtà avevano un vincolo identitario più forte, come nel Veneto, con la sua (decaduta) storia millenaria, oppure nello sfasciato Regno delle due Sicilie, che comunque ai Savoia si era opposto militarmente.
Senza avere la pretesa di dire nulla di originale, mi sento di dissentire o, meglio, di vedere la cosa da un altro punto di vista. Diciamo subito che il fatto che l'Italia come unità politica con leggi e regole comuni abbia solo 150 anni rende meno sorprendente le difficoltà affrontate per rendere progressivamente omogeneo (e neanche tanto) questo insieme, figlio delle diverse realtà della penisola, sul piano politico, geografico, amministrativo, legislativo e, conseguentemente, economico. Le madri e i padri di questo processo di “unificazione” sono stati molteplici, a mio avviso: la leva obbligatoria e la scuola dell’obbligo che dobbiamo alla destra e alla sinistra storica, la prima legislazione sociale, che dobbiamo a Giolitti, i morti della prima guerra mondiale, la retorica identitaria, che dobbiamo a Mussolini, la ricostruzione post 1945, il boom economico, l’emigrazione di massa sud-nord (cosa che ha fatto davvero mischiare il sangue tra le genti, con ciò unendole), la televisione.
Ma questo processo di "unificazione" non è affatto progressivo e lineare: dal punto di vista politico, si può dire che ogni momento cruciale dello stato unitario, tranne la vittoria nella prima guerra mondiale, ha avuto una parte della nazione che a quell’evento si è sentita estranea, se non nemica.
E infatti, al momento della sua proclamazione il regno d’Italia nasce contro i cattolici, i repubblicani e parte delle popolazioni del Mezzogiorno; il fascismo è una dittatura, anche se largamente popolare all'inizio; la Resistenza è anche uno scontro tra fascisti ed antifascisti (una guerra civile?), la Repubblica viene proclamata con pochi voti di scarto sulla Monarchia; il boom economico si basa anche sull’emigrazione di massa. Insomma, non abbiamo un 4 di luglio in cui tutti possiamo riconoscerci.
Ciononostante, secondo me, l'attuale versione dello stato italiano presuppone comunque una coscienza di sé degli italiani in quanto nazione, per quanto labile essa sia. La mia tesi e' che questa labile coscienza esista e non sia il frutto né del Risorgimento, né dei Savoia, né di Mussolini, né della televisione, ma che semplicemente essa si sia formata nel corso dei secoli, a partire almeno dall’alto medio-evo. Per capire cosa intendo, riprendo un episodio che risale al 1378, vale a dire l’anno del conclave che elesse Papa Urbano VI. Gregorio XI aveva riportato, dopo settant’anni, la sede papale a Roma da Avignone ed alla sua morte, il popolo di Roma, temendo l’elezione di un nuovo Papa francese, scese nelle piazze e minacciò i cardinali al grido di
Romano lo volemo, o almanco italiano.
L’episodio (riportato da John N.D. Kelly, Gran Dizionario Illustrato dei Papi, p. 563) è indicativo e la frase riportata spiega, in sei parole, quanto cerco di sostenere. E' indicativo perche' a parlare, qui, non sono intellettuali, non è il Dante di "serva Italia"“ o il Petrarca di Italia mia benchè 'l parlar sia indarno, nè i successivi Machiavelli o Guicciardini. Qui parla il popolo di Roma, che rivendica la sua identità, chiede che il Papa sia una sua espressione e ci dice che già nel Medio-Evo questi italiani erano coscientemente parte di un sottoinsieme localistico (“romano lo volemo”) all’interno di un insieme più grande (“almanco italiano”).
Vero è che questo "sentire comune" non ha avuto una evoluzione politica comune, non si è trasformato in stato unitario. Tuttavia, a mio modo di vedere, è stato rafforzato, fertilizzato e guidato da qualcosa di assolutamente peculiare e del tutto originale nel panorama storico, che ha plasmato le genti della penisola: uno stato nazionale, per secoli, non è stato sentito come necessario dagli italiani perchè c’era già una struttura giuridica, amministrativa e di potere che operava uniformemente in tutta Italia - la Chiesa Cattolica.
Il potere della chiesa, che era già presente del medio-evo, con la Controriforma, si riorganizzò rafforzando il controllo sul clero ed aumentando in maniera esponenziale la sua influenza sulla vita quotidiana delle persone. Questo controllo, la cui estensione è per noi oggi inimmaginabile, in Italia fu assai più pervasivo che non in altri paesi, tant’è che gli stati italiani finirono per trovarsi tutti, più o meno, in condizioni di sovranità limitata in molti campi della propria vita politica e sociale. Il potere ecclesiastico veniva esercitato principalmente attraverso due strumenti. Il primo era il Sant'Uffizio, istituito per
mantenere e difendere l'integrità della fede esaminare e proscrivere gli errori e le false dottrine.
In pratica, con l’inquisizione del Sant'Uffizio la chiesa aveva il potere di processare chiunque, per una serie indefinita e indeterminata di atti, poteva vietare la pubblicazione di libri, poteva controllare i comportamenti, grazie al fatto che il sacramento della confessione era stato reso obbligatorio. L'inquisizione romana, però, non è fondamentale solo per il controllo delle coscienze, ma anche e soprattutto perché questo controllo fu esercitato attraverso una organizzazione giudiziaria e burocratica strutturata in modo da non tener conto dei confini dei singoli stati in cui era divisa l'Italia, ma su una base sovrastatale, che aveva come riferimento l'intera penisola e che scavalcava le prerogative dei poteri locali.
Il secondo strumento, non era coercitivo, ma, diremmo oggi, era volto a generare il consenso. Mi riferisco alle pratiche devozionali (culto dei santi e della Madonna, pellegrinaggi, osservanza delle feste, processioni), ai predicatori, alle scuole pie e alle scuole di dottrina cristiana per il popolo e ai gesuiti per le èlite (in pratica il monopolio dell’istruzione) e, più in generale, al catechismo, che diffuso e insegnato uniformemente in tutta Italia, costituiva un vero e proprio strumento di indottrinamento delle masse
"Perché il fedele possa avvicinarsi ai sacramenti maggior reverenza e devozione, il Santo Sinodo incarica tutti i vescovi che li amministrano a spiegare i gesti e le usanze in modo che adatto alla comprensione del popolo; devono inoltre osservare che i propri parroci osservino la stessa regola con pietà e prudenza, facendo uso per le loro spiegazioni, dove necessario e conveniente, della lingua volgare; e siano conformi alle prescrizioni del Santo Sinodo nei loro insegnamenti (catechesi) per i vari Sacramenti: i vescovi devono accertarsi che tutti questi insegnamenti siano accuratamente tradotti in lingua volgare e spiegati da ogni parroco ai fedeli...".
Insomma, a partire dalla fine del ‘500 e soprattutto nel 600 e (progressivamente meno nel '700), parrocchie, catechismo, pratiche devozionali e scuole pie, ebbero in Italia quella medesima funzione che tre secoli più tardi avrebbe avuto Carosello: creare un immaginario di massa ed una cultura collettiva diffusa uniformemente, da Trieste alla Sicilia.
È in questo medesimo periodo, poi, che la chiesa, pur mantenendo la sua aspirazione universale, diventò sempre più "italiana". Non è un caso che l’ultimo papa “straniero” prima di Wojtyla sia stato l’olandese Adriano VI nel 1522. Basta dare un’occhiata alla composizione dei conclavi che elessero i papi dal ‘500 al ‘700 (quialcuniesempi) per verificare che si trattò, all’80/90%, di un affare interno alle principali famiglie nobili d’Italia. Insomma, quelle medesime famiglie che in qualche modo erano coinvolte nel governo dei vari stati italiani, erano anche coinvolte (con cardinali e vescovi) nella gestione di uno stato che non solo governava direttamente una porzione d’Italia, ma aveva la pretesa di guidare l’intera Cristianità e, sicuramente, il potere di intromettersi negli affari degli altri stati della penisola. Una sorta di super-stato, che aveva il potere e la capacità di plasmare le coscienze del popolo ed il cui vertice era composto dalle medesime èlites che erano al comando a Napoli, Venezia, Milano o Firenze. Certo, in tutta Italia il Papa e la sua corte non decidevano direttamente su esercito, moneta, tasse e gli altri attributi tipici della funzione statale, ma poteva controllare le menti e i comportamenti della popolazione.
In questo contesto era dunque improbabile che nascesse uno stato politicamente unitario e, sotto molti aspetti, non era neanche necessario, dato che chi deteneva il potere a livello locale (le famiglie aristocratiche), aveva anche una sponda nella sovrastruttura nazionale in un costante rapporto di scambio. Questo “super-stato” ha dominato l’Italia per tre secoli ed è solo quando è andato in crisi il dominio assoluto della Chiesa sulla vita quotidiana, grazie all’Illuminismo e a Napoleone, che le istanze per una differente struttura unica nazionale hanno preso vigore.
Queste istanze, però, non sono nate improvvisamente, nel deserto, sono emerse perchè alle spalle c’era un comune sentire nazionale, che trecento anni di potere papale avevano ulteriormente rafforzato e plasmato, sia pure sotto una cappa opprimente. Del resto, come stessero le cose lo aveva ben capito il principe Metternich, proprio quello de “l’Italia è un espressione geografica”.
La sua frase, infatti, è un po' più elaborata di come viene abitualmente riportata:
"La parola Italia è una espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle".
Insomma, per il ministro austriaco era chiaro: c’era un territorio ben determinato, con una comune tradizione (la lingua); solo che, a suo parere, tutto ciò non poteva evolvere in soggetto politico. Bè, la sua prognosi era evidentemente sbagliata e oggi (per una beffa del destino) il suo palazzo di famiglia è la sede dell’ambasciata d’Italia a Vienna.
Ed infine, con questo sbaffo di retorica patriottarda che mi è scappata, chiedo scusa e la chiudo qui.
Post molto interessante, con cui concordo nei limiti delle mie conoscenze storiche; volevo approfondire un tema che viene solo accennato e cioè il fatto che come ogni identità, anche quella italiana nasce in contrapposizione ad altre identità nazionali e per cui era tanto più forte nelle comunità emigrate: quello che vale per gli italiani negli USA descritti da Da Ponte (ancora commercianti, prima dell'esodo di massa) valeva di sicuro anche in epoche anteriori, quando gli italiani espatriati venivano dall'esterno accomunati, magari venendo chiamati "lombardi" anche se fiorentini (quando commercianti; cfr. Boccaccio, la novella di Ser Cepparello) o "genovesi" anche se livornesi (quando mercenari). Certo, nei quartieri per stranieri di Istanbul veneziani e pisani si massacravano di botte ad ogni provocazione, e l'appartenenza comunale aveva un'importanza superiore rispetto a quella "nazionale" ma probabilmente un napoletano e un toscano nelle Fiandre o in Provenza avevano un substrato culturale e linguistico in comune già nel basso Medioevo, e sicuramente ne disponevano nel Rinascimento.
(questo non vale solo per gli italiani; l'idea di un'identità nazionale albanese, ad esempio, nasce con l'emigrazione verso il nostro paese del sedicesimo secolo di comunità che prima sentivano solo un'appartenenza di clan e che parlavano dialetti estremamente diversi tra di loro)