La discussione
Nei mesi scorsi, nFA ha ospitato una accesa discussione seguita alla pubblicazione sulla stampa italiana della ''Lettera dei 100 economisti''. Oltre che sui contenuti della Lettera, la discussione è anche stata una buona occasione per parlare dei rapporti tra mainstream ed eterodossia nelle scienze sociali. L'incipit di questo articolo su nFA rilevava però che il confronto sul ruolo delle scuole di pensiero fosse stato prevalentemente pubblicistico, basato su evidenza aneddotica o fondato su analisi soggettive, essenzialmente perché dati appropriati e studi accademici sul tema sono assai scarsi.
Una nostra recente analisi, basata su una survey originale, può fornire i dati per poter affrontare quantitativamente alcune questioni relative all'insegnamento dell’economia in Italia, gli economisti italiani e la loro appartenenza a diverse scuole di pensiero. Per chi volesse approfondire, qui potete trovare la pagina web della ricerca con il questionario, i dati e i paper. Questo post riassume i risultati della ricerca.
Preliminari: il questionario
Il questionario on-line inviato il 27 aprile 2007 a 1511 economisti italiani conteneva una serie di domande sulle caratteristiche personali (età, sesso, luogo di nascita, luogo di lavoro, orientamento politico, etc.) e accademiche (carriera, interessi di ricerca, scuola di pensiero, conoscenza della letteratura sul declino economico italiano, etc.) dell’intervistato e sulle sue opinioni sullo stato dell’economia italiana, le cause della situazione economica e le politiche più adatte alla ripresa.
La compilazione del questionario non richiedeva nessuna competenza specifica (come era indicato nell’invito alla compilazione) e quindi nessuna pre-selezione è stata effettuata rispetto ai temi di ricerca degli intervistati. Le domande erano in tutto 32 e ci volevano circa 20 minuti per poterlo compilare con attenzione. La survey si è conclusa il 1 giugno 2007.
Abbiamo ricevuto 496 risposte; il tasso di risposta del 33% è comparabile con quello ottenuto in altre indagini analoghe. Le risposte dei membri dell’American Economic Association vanno dal 34% di Alston et al. (1992), al 31% di Fuller e Geide-Stevenson (2003), al 36% di Whaples e Heckelman (2005), al 27% di Klein e Stern (2006a) e al 40% di Waples (2006).
Per l'analisi ci siamo concentrati sulle risposte dei 335 economisti accademici italiani residenti in Italia. Al questionario hanno anche risposto economisti che lavorano in istituzioni diverse dalle università e 65 economisti italiani residenti all’estero, che però non tratteremo in questa sede. Ci riserviamo un follow–up sugli economisti italiani residenti all'estero e sugli economisti non accademici nel caso la presente susciti un qualche interesse tra i lettori.
Prima di entrare nel vivo dei risultati, c’è un aspetto della nostra indagine che la rende diversa da tutti i precedenti lavori sulle opinioni degli economisti, svolti negli USA e in Europa (contenuti nella bibliografia del paper e in buona parte ottenibili dalla nostra pagina web). Mentre questi selezionavano un campione casuale da una popolazione di riferimento arbitrariamente definita (per esempio l’American Economic Association) noi ci siamo basati su una riponderazione ex-post del campione che lo rendesse rappresentativo degli economisti accademici italiani (in base alle tre variabili per le quali è disponibile un’informazione sulla popolazione degli economisti accademici italiani sulla homepage del MIUR). La riponderazione necessaria è stata per altro marginale (ha compensato la sottorappresentazione dei ricercatori del Sud e la sovrarappresentazione dei professori ordinari). Abbiamo quindi un campione rappresentativo della popolazione degli economisti accademici italiani.
Ora diamo i numeri
Dall’analisi delle risposte al questionario possiamo dare i numeri su molte cose che riguardano gli economisti italiani e la loro opinione sullo stato dell’economia italiana (al 2007). Ai lettori di nFA, vogliamo fornire tre informazioni. La prima è dare una idea del peso numerico delle diverse scuole di pensiero; la seconda è descrivere le differenze in termini di caratteristiche individuali degli appartenenti alla diverse scuole; la terza indica se l’appartenenza a scuole di pensiero diverse è correlata alla differenza di opinione tra gli economisti sull'economia italiana. La terza informazione fa anche il punto sul ruolo dell’aggregation bias nelle differenze tra economisti mainstream ed eterodossi (che tradotto vuol dire: nel confronto tra le opinioni espresse conta come aggreghiamo le diverse scuole di pensiero).
1. La maggioranza relativa dei rispondenti non si riconosce in nessuna (unica) scuola di pensiero. Dando uno sguardo alla tabella 1 e sommando coloro che nella survey si definiscono ''eclettici'' e i ''nessuna scuola'' si ottiene un buon 45%. Le ragioni posso essere le più disparate e non possiamo affrontarle in dettaglio. Quanti sono ''mainstream''? Circa il 20%, poco meno del 30% se includiamo anche i neo-keynesiani. Quanti sono gli eterodossi? Beh, sempre intorno al 20% e comunque distribuiti tra diversi approcci tra i quali il più numeroso è quello post-keynesiano. Siamo sicuri che vi sarete messi a fare i vostri conti aggregando in vario modo le diverse compagini. Su questo torneremo in seguito. Resta il fatto che la maggioranza degli economisti accademici non ritengono di appartenere a nessuna, unica, scuola di pensiero (e guardate che non sono solo giovani nichilisti, matematici o econometrici o economisti aziendali) o cambiano il proprio reference point metodologico a seconda della loro ricerca.
La tabella 1 riporta la distribuzione degli economisti italiani rispetto alle scuole di pensiero.
Scuola di pensiero |
Numero rispondenti |
Percentuale |
Eclettico |
95 |
28 |
Neoclassico/Mainstream |
59 |
18 |
Nessuna scuola |
56 |
17 |
Keynesiano/Post-Keynesiano |
36 |
11 |
Keynesiano/Neo-Keynesiano |
27 |
8 |
Instituzionalista/Neo-Instituzionalista |
23 |
7 |
Evolutivo |
17 |
5 |
Marxista/Sraffiano/Neo-Marxista |
13 |
4 |
Behavioral |
5 |
1 |
Regolazionista |
3 |
1 |
Austriaco/Neo-Austriaco |
1 |
0 |
Totale |
335 |
100 |
2. [Parte uno. Non ci sono grandi sorprese]Gli economisti apparenti a diverse scuole di pensiero sono diversi. Gli economisti mainstrem sono più giovani degli istituzionalisti, dei neo-keynesiani, dei post-keynesiani e dei marxisti, che sono i più anziani di tutti. Per quanto riguarda il genere, risulta che i tra i marxisti e quelli che non si riconoscono in nessuna scuola di pensiero ci sono relativamente meno donne che nelle altre scuole. Gli economisti mainstream occupano posizioni più elevate nell’accademia rispetto ad economisti appartenenti ad altre scuole e questa differenza è massima rispetto ai marxisti. Per quanto riguarda le variabili politiche, i nostri risultati mostrano che i mainstream sono significativamente più market-oriented (il ché è in qualche modo rassicurante!) e meno di sinistra (rispetto all’arco parlamentare italiano del 2007) degli altri economisti e che ancora una volta la differenza più rilevante è da registrarsi nei confronti dei marxisti e dei post-keynesiani.
[Parte due. Questo forse è meno ovvio]La correlazione tra orientamento politico e la scuola di pensiero è bassa e in alcuni casi non significativa. Questo risultato è meno sorprendente di quanto non ci si attenda, essendo il risultato di una aggregazione: mentre per alcune scuole la correlazione è molto alta, per altre è molto bassa, il che fa si che, considerando l’insieme delle scuole, la correlazione sia bassa e spesso non significativa. Resta quindi che le due cose, orientamento politico e pensiero economico, non sono la stessa roba. Essere marxisti e di destra è assai raro, essere neoclassici e di sinistra è possibile, assai spesso.
3. La semplice divisione tra economisti mainstream ed eterodossi non regge alla prova dei fatti. Per tornare alla questione di prima, se dividiamo gli economisti in due grandi cluster, i mainstream (neoclassici e neokeynesiani) e gli eterodossi (tutti gli altri), e includiamo questa variabile dicotomica come esplicativa di una regressione la cui variabile dipendente sia di volta in volta la risposta (multinomiale, con quattro categorie: assolutamente d’accordo, abbastanza d’accordo, abbastanza in disaccordo, assolutamente in disaccordo) ad una delle domande sulla situazione economica italiana, sulle sue cause e sulle proposte da promuovere, possiamo rilevare che, una volta controllato per le diverse caratteristiche individuali, la variabile dicotomica mainstrem/eterodosso non è quasi mai significativa. In altri termini, l’informazione sulla scuola di pensiero, se espressa in termini dicotomici, non fornisce nessuna indicazione ulteriore che permetta di spiegare l’opinione dei diversi economisti sulle diverse domande poste nel questionario.
La spiegazione è semplice: le due categorie sono in realtà troppo ampie per individuare una differenziazione tra gruppi (piuttosto che all’interno dei gruppi) per quanto riguarda le opinioni circa le cause delle difficoltà dell’economia italiana e la valutazione dell’efficacia di una specifica politica economica. L’eterogeneità tra gli eterodossi prevale rispetto alla diversità nei confronti dei mainstream, e viceversa.
Quindi, la classificazione manichea ortodossi/eterodossi non aiuta a spiegare la diversità di opinione tra gli economisti. L’appartenenza ad una scuola di pensiero ha valore esplicativo solo se la classificazione è più articolata (come quella originale della tabella 1).
Prendiamo ad esempio la questione del declino economico italiano. Alla domanda: “Lei ritiene che i risultati registrati dall'economia italiana negli ultimi anni possano configurare una fase di declino?” l’85% degli economisti italiani si dichiara d'accordo, tra cui il 23% è assolutamente d’accordo. Se attribuiamo un valore numerico crescente, da 1 a 4, alle quattro categorie assolutamente in disaccordo, abbastanza in disaccordo, abbastanza d’accordo e assolutamente d’accordo, e scomponiamo le risposte per scuola di pensiero, otteniamo il grafico della figura 1.
La retta rossa rappresenta la posizione media del campione. In linea generale, gli economisti delle diverse scuole di pensiero rispondono in media allo stesso modo, con l’eccezione dei marxisti che sono tendenzialmente meno ''declinisti'' e dei behavioralist che lo sono di più. Controllando per le caratteristiche individuali ogni differenza scompare.
In domande specifiche sulle cause e le politiche economiche, le scuole di pensiero, categorizzate come nella tabella 1, giocano un ruolo significativo nello spiegare le differenze di opinioni. Questo accade per tre quinti delle domande. Per alcune di queste – come per esempio la flessibilità del mercato del lavoro o il ruolo della Banca Centrale Europea nel sostenere la domanda – le differenze appaiono assai marcate.
CONCLUSIONI
I risultati della nostra analisi confermano alcuni pareri condivisi ma offrono anche alcune nuove indicazioni in termini di quantificazione, caratteristiche e peso delle scuole di pensiero nello spiegare opinioni differenti tra gli economisti. Anche su temi di politica economica italiana.
Purtroppo, la natura della nostra indagine non ci permette di individuare quale sia il fattore esogeno nella determinazione delle opinioni degli economisti. In particolare, mentre non possiamo dire niente rispetto alla possibilità che sia l’ideologia a guidare la scelta di una scuola di pensiero o se è la scuola di pensiero a determinare la visione politica di un economista, quello che possiamo dire è che – anche controllando per numerose caratteristiche individuali, orientamento politico incluso - la scuola di pensiero conta (assai spesso, anche se non sempre come nel caso della domanda sul declino) nella spiegazione delle opinioni degli economisti. Inoltre, come mostriamo nel paper, la scuola di pensiero diventa più rilevante quando si tratta di opinioni circa le politiche economiche (normative economics) invece che di questioni legate alle cause (e quindi in un certo senso più positive economics) delle difficoltà dell’economia italiana.
Speriamo che – nonostante la necessaria omissione di molti elementi dell’analisi - questi risultati possano essere un utile contributo alla discussione e che possano, più in generale, far venire voglia di chiedersi: come si formano le opinioni degli economisti? Se pensiero politico e pensiero economico, qual è l’uovo e quale è la gallina? Dateci la vostra opinione sulla direzione di causalità, tra orientamento politico e scuola di pensiero. Non potremmo citarvi come elemento discriminante nei prossimi paper, ma comunque sarebbe una utile conferma (o meno) dei nostri apriori.
Che differenza c'e' fra post-keynesiano e neo-keynesiano?
Garegnani e i suoi amici sono post-keynesiani (oltre che sraffiani)
Mike Woodford e' neo-keynesiano
I rispondenti si autodefiniscono rispetto alla scuola di pensiero di appartenenza.
Per ridurre al minimo gli errori nella compilazione abbiamo fornito una lista chiusa di scuole di pensiero con l’opzione di aggiungerne a scelta del rispondente una nel caso la propria non risultasse nell’elenco fornito.
La lista delle scuole è quella adottata nel paper di Axarloglou, K. e Theoharakis, V. (2003) [Diversity in Economics: An Analysis of Journal Quality Perceptions. Journal of the European Economic Association, vol.1, No. 6, pp.1402-1423] a cui abbiamo aggiunto la categoria Eclettico. La nostra lista inoltre include tutte le scuole discusse in Colander, D., Holt, R.P.F., e Rosser, J.B. (2003). [The Changing Face of Mainstream Economics: Review of Political Economy, Vol.16, Issue 4, pp.485 – 499]