Iniziamo dalla performance di lungo periodo, misurata, secondo la consuetudine internazionale, dal PIL pro-capite a dollari costanti del 1990 in parità di potere d’acquisto. La Figura 1 confronta il PIL dell’Italia del Centro Nord (dell’intera penisola dopo il 1861) con quello dell’Inghilterra e Galles (dal 1870 Gran Bretagna).
Fonte: Malanima (2011) e Broadberry et al (2011), Maddison Project (http://www.ggdc.net/maddison/maddison-project/)
Il grafico mette in risalto tre fatti
i) Il PIL per capita italiano è cresciuto moltissimo nel lungo periodo. Al suo massimo pre-industriale (verso la metà del 15 secolo dopo la peste nera) era di circa 1700-1800 dollari, corrispondente ai livelli più alti dell’Africa Sub-Sahariana attuale (Sud Africa escluso). Da allora ad oggi è aumentato di oltre dieci volte.
ii) Anche se il livello assoluto era basso, l’Italia del Centro-Nord nel Medioevo era il paese più ricco d’Europa (e quindi forse del mondo). Solo Belgio e Olanda (la provincia più ricca degli attuali Paesi Bassi) avevano un PIL pro-capite comparabile ed infatti l’Olanda superò l’Italia dopo il 1550. L’Inghilterra, come si vede dal grafico, rimase molto indietro fino alla seconda metà del XVII secolo, per poi divenire il paese leader dell’economia mondiale con la Rivoluzione industriale.
iii) Per cinquecento anni il reddito italiano, pur variando molto da un anno all’altro, è rimasto sostanzialmente stabile, ed è addirittura diminuito. Tutta la crescita si è concentrata negli ultimi 150 anni, e soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, come si vede dalla Figura 2.
Figura 2
Il PIL italiano 1861-2010, dollari 1990 PPP (scala logaritmica)
Fonte: Baffigi et al (2011)
L’evoluzione del PIL di lungo periodo solleva tre domande o se si vuole, due domande, con la seconda in due versioni, una ‘ottimistica’ ed una ‘pessimista’
i) perché l’Italia del Medioevo non è riuscita ad innescare un processo di sviluppo economico di lungo periodo, a differenza della Gran Bretagna
iia) (versione ottimistica) perché l’Italia, dopo l’Unità, è uscita dalla stagnazione secolare e poi è riuscita a raggiungere un livello elevato di reddito, raggiungendo brevemente l’Inghilterra negli anni Novanta del Novecento?
iib) (versione ‘pessimistica’) perché l’Italia ha iniziato a crescere solo dopo l’Unità, due secoli dopo la Gran Bretagna e la crescita è stata così lenta fino al miracolo economico?
Per rispondere, almeno in via provvisoria, alla prima domanda, bisogna considerare brevemente le cause della rivoluzione industriale inglese – o, se si vuole, della specificità della Gran Bretagna. E’ una delle grandi domande della storia economica e non è certo possibile rispondere in questa sede. Basterà ricordare le tre ipotesi principali della letteratura internazionale. Secondo North e Weingast (1989) il principale merito è delle istituzioni inglesi ed in particolare della combinazione di una forte difesa dei diritti di proprietà e del controllo del potere esecutivo da parte del parlamento. Tale combinazione ha stimolato l’innovazione rassicurando gli imprenditori sul rischio di espropriazione dei frutti delle loro fatiche. Mokyr (2009) sottolinea l’importanza dell’illuminismo, che ha creato un clima eccezionalmente favorevole alla sperimentazione pratica ed alla innovazione. Infine secondo Allen (2009) l’essenza della rivoluzione industriale è stata l’ adozione di tecnologie che sostituivano energia a lavoro, culminate nell’invenzione della macchina a vapore. Tali tecnologie sono state inventate ed adottate in Gran Bretagna perché i salari erano alti ed il carbone costava poco. Il dibattito sull’importanza relativa di questi tre fattori è in corso, ma è abbastanza evidente che l’Italia nel 1400 non aveva almeno due di essi. In primo luogo, le conoscenze scientifiche e pratiche erano insufficienti per sostenere un circolo virtuoso di innovazioni. Basti pensare alla difficoltà di trasmissione delle informazioni e delle conoscenze tecniche prima dell’invenzione della stampa. In secondo luogo, l’Italia non aveva giacimenti di carbone rilevanti, e quindi sarebbe stato impossibile lo sviluppo di tecnologie ad alta intensità di energia. Le istituzioni comunali sicuramente offrivano una forte protezione dei diritti di proprietà ed un certo livello di controllo … ma vantaggio compensato da frazionamento politico e guerre continue. Non sorprende quindi che l’economia dell’Italia Centro-Settentrionale, per quanto ricca ed evoluta, non sia riuscita ad innescare un processo di crescita economica moderna. Del resto, questo è stato il destino di molte altre economie ricche ed evolute, dalla Cina dei Song (X secolo) e dei Manchu (XVII secolo) all’Olanda del ‘secolo d’oro’. Si può anzi dire che questa sia stata la regola, e la Gran Bretagna l’eccezione. D’altra parte, la Rivoluzione Industriale Inglese ha cambiato le regole del gioco per sempre.
Come si poneva l’Italia nel nuovo gioco? Secondo le stime di Malanima e Broadberry (Figura 1), il PIL dell’Italia Centro-Settentrionale alla fine delle guerre napoleoniche era attorno ai 1500 dollari del 1990 (sempre a parità di potere d’acquisto). Il divario con l’Inghilterra non era ancora enorme, attorno al 30%. Ma il PIL inglese stava aumentando rapidamente e quello italiano era stagnante, e comunque nettamente inferiore al massimo del XV secolo. Inoltre, la situazione economica generale non era favorevole. Il rapporto terra coltivabile/popolazione era diminuito notevolmente per l’incremento della popolazione (da 11.5 nel 1650 a 19 nel 1815 per l’intera penisola o da 7 a 11.5 per il solo Centro-Nord), dovuto all’effetto combinato della scomparsa della peste che aveva flagellato la penisola dal 1348 e dell’introduzione del mais, che aveva aumentato la produzione di calorie per unità di terra (Malanima 2002 Appendice 1). L’Italia mancava di carbone e quindi non poteva importare facilmente le tecnologie inglesi (Bardini 1998). Nel Nord, e soprattutto nella fascia pedemontana, si poteva usare l’acqua come fonte alternativa di energia, ma questo non era possibile nel Meridione. I corsi d’acqua erano pochi ed a regime torrentizio e la carenza di acqua era un grave ostacolo anche allo sviluppo di una agricoltura intensiva. L’analfabetismo era elevato ed il numero di italiani con istruzione superiore al livello elementare era bassissimo: il numero di studenti universitari rimase attorno a diecimila fino agli anni Ottanta del XIX secolo. In genere il Sud era significativamente più arretrato, se non nel PIL pro-capite, in tutti gli indicatori di benessere e progresso sociale (Felice 2013).
Questi ostacoli spiegano a sufficienza il ritardo dello sviluppo economico rispetto all’Inghilterra. Ma nel lungo periodo, l’Italia si è sviluppata e quindi doveva avere anche qualche atout. In primo luogo, aveva i residui della sua antica ricchezza. Nel 1300 l’Italia centro settentrionale era stata la regione più urbanizzata d’Europa, con un tasso di urbanizzazione (una percentuale di abitanti in città oltre 10000 abitanti) del 18.4% (Malanima 2002 App.2): nel 1800 era sceso al 14.2%, ma rimaneva superiore a quello di tutti gli altri paesi europei tranne Gran Bretagna, Belgio ed Olanda (Malanima 2010 Appendice). Anche dopo secoli di (relativa) decadenza le città mantenevano un potenziale di sviluppo. Nelle città rimanevano nuclei di attività artigiane e mercantili, reti di conoscenze e contatti internazionali ed anche un ‘capitale sociale’ diffuso, una rete di istituzioni e di legami interpersonali, come retaggio del lontano passato comunale e delle concrete necessità di assistenza (Guiso e Pinotti 2013). Inoltre, la precoce urbanizzazione aveva stimolato lo sviluppo di una agricoltura altamente commercializzata (Federico 1986) che aveva richiesto imponenti investimenti fissi, come il sistema di irrigazione della bassa Padana (il ‘valsente di mille milioni’ di Cattaneo) o la struttura poderale dell’Italia mezzadrile. Infine, la decadenza della tessitura serica aveva lasciato una imponente produzione di filati di seta, esportati nei grandi centri di produzione di tessuti della Francia, della Gran Bretagna e della Prussia. Secondo Cafagna (1989) la seta è stata il fattore decisivo per l’avvio dell’industrializzazione lombarda, per la sua peculiare combinazione di produzione agricola diffusa (l’allevamento dei bachi) e di trasformazione industriale in loco (la trattura). La tesi di Cafagna è probabilmente eccessiva, ma sicuramente la produzione di seta ha svolto un ruolo importante per lo sviluppo di attività industriali (inclusa la produzione e riparazione di macchinario), finanziarie e commerciali e per l’integrazione dell’Italia nell’economia europea (Federico 2005).
La vera differenza fra l’Italia del XV e quella del XIX secolo era però la situazione nel resto di Europa (e del mondo). Nel XV secolo, l’Italia era, come detto, il paese più avanzato d’Europa ed era circondata da aree più arretrate e stagnanti. Nel XIX secolo, invece, la crescita economica dei paesi dell’Europa Occidentale offriva grandi opportunità di aumento delle esportazioni italiane. In realtà, l’Italia è stata abbastanza lenta a cogliere l’occasione: nella prima metà del secolo XIX, in realtà, le esportazioni italiane sono aumentate abbastanza lentamente, soprattutto per la grave malattia che ha colpito gli allevamenti di bachi da seta negli anni Cinquanta (Federico e Tena 2014). Dopo l’Unità le esportazioni italiane di prodotti primari (in primo luogo seta, ma anche agrumi, vino, olio, canapa etc.) sono aumentate più del commercio mondiale. Pochi anni dopo l’Unità, inoltre, l’Italia iniziò ad esportate braccia e non più solo merci. In una trentina d’anni sono emigrati circa 12 milioni di italiani, su una popolazione di circa 35 nel 1913. L’emigrazione di massa fu una tragedia umana, ma dal punto di vista economico ha portato notevoli vantaggi (Le rimesse degli emigranti hanno aumentato il reddito di alcune delle zone più povere della penisola, permettendo una modesta accumulazione di capitali. Inoltre, la diminuzione dell’offerta di lavoro ha fatto aumentare i salari, stimolando l’adozione di tecniche agricole più moderne (p.es. l’uso dei fertilizzanti). Gomellini e O’Grada (2013) hanno recentemente stimato che l’emigrazione spiega circa l’8% della crescita complessiva dal 1880 al 1913. I benefici effetti dell’esposizione al mercato mondiale non si esauriscono con le esportazioni. L’Italia, come molti paesi periferici, beneficiò di consistenti flussi di capitale estero, sia per investimenti di portafoglio (compreso l’acquisto di titoli di stato) che per investimenti diretti. Fenoaltea (1988) ha attribuito alle variazioni del livello i flusso di capitale le fluttuazioni cicliche dell’economia italiana dall’Unità alla prima guerra mondiale. Questa tesi non è unanimemente accettata, ma non c’è dubbio che i capitali stranieri abbiano svolto un importante ruolo per la modernizzazione dell’Italia, soprattutto attraverso l’importazione di tecnologie nei settori avanzati come l’industria elettrica.
Una misura parziale ma notevolmente indicativa del livello di apertura di un paese all’economia mondiale è il rapporto fra commercio estero (importazioni più esportazioni) e reddito nazionale (Figura 3)
Figura 3
Il rapporto esportazioni/PIL 1861-2011
Fonte: Federico et al (2011), Baffigi (2011)
E’ abbastanza evidente la coincidenza nel tempo fra periodi di più rapida crescita economica (p.es. il cosiddetto boom giolittiano o il miracolo economico) e di apertura all’economia internazionale.
Gli effetti positivi dell’apertura sono anche evidenti nelle fonti della crescita della produzione per addetto, che in ultima analisi determina anche la crescita del PIL pro-capite. La produttività del lavoro può crescere grazie all’aumento della quantità di capitale o grazie all’uso più efficiente del capitale e del lavoro (crescita della produttività aggregata dei fattori o TFP). La figura 4 distingue queste due fonti di crescita secondo una periodizzazione classica della storia economica italiana dall’Unità in poi. L’altezza delle barre indica il tasso di crescita della produzione per addetto –in media il 2% annuo nell’intero periodo, con un massimo vicino al 5% nell’età dell’oro dell’economia europea. La crescita della produttività aggregata (parte rossa della barra) spiega la maggior parte dell’aumento della produzione per addetto nel lungo periodo ed anche nel 1951-1993, mentre ha avuto un ruolo minore nel 1881-1913. Spiega anche tutta la crescita nel periodo 1911-1938, quando il capitale per addetto è diminuito. Vice-versa, prima del 1881 tutta la crescita è da attribuire all’incremento di capitale mentre la produttività totale dei fattori sarebbe addirittura diminuita.
Figura 4
Fonte: Broadberry, Giordano, Zollino (2013)
Non è possibile in questa sede approfondire le cause del diverso andamento di queste due fonti. Ritorneremo però in conclusione sul preoccupante andamento degli anni più recenti. Prima però è opportuno soffermarci sugli effetti della crescita economica. Il PIL è una misura imperfetta del benessere. Infatti tiene conto solo dell’aumento delle possibilità di consumo ma l’uomo non vive di solo pane – contano anche altri fattori, come la salute, l’istruzione etc. Le Nazioni Unite hanno proposto di misurare il benessere complessivo con l’HDI (Indice di sviluppo umano), una media lievemente modificata fra benessere materiale (il PIL per capite), condizioni sanitarie (in genere l’aspettativa di vita alla nascita) ed livello di istruzione (misurato con il tasso di alfabetizzazione o la percentuale di studenti di vari livelli scolastici sul totale dei giovani della rispettiva classe di età). L’indice può variare fra zero e uno e la Tabella 1 confronta i livelli dell’Italia e delle sue macro-regioni con alcuni paesi europei
Tabella 1
Indice di Sviluppo Umano: l’Italia in prospettiva comparata
1871 | 1911 | 1951 | 1971 | 2007 | |
Italia | 0,282 | 0,442 | 0,631 | 0,778 | 0,899 |
Nord-Ovest | 0,359 | 0,498 | 0,672 | 0,793 | 0,904 |
Nec | 0,285 | 0,480 | 0,648 | 0,790 | 0,913 |
Mezzogiorno | 0,226 | 0,370 | 0,574 | 0,749 | 0,877 |
Regno Unito | 0,449 | 0,605 | 0,730 | 0,797 | 0,923 |
Francia | 0,405 | 0,552 | 0,684 | 0,789 | 0,939 |
Germania | 0,432 | 0,576 | 0,672 | 0,785 | 0,913 |
Spagna | 0,246 | 0,376 | 0,565 | 0,755 | 0,922 |
Portogallo | 0,224 | 0,313 | 0,469 | 0,654 | 0,878 |
Grecia | 0,248 | 0,351 | 0,553 | 0,730 | 0,907 |
Fonte Felice e Vasta (2015)
La tabella mostra in tutta evidenza quanto arretrate fosse l’Italia tutta nel 1871 e quanti progressi abbia fatto. Il divario con i grandi paesi dell’Europa si era quasi annullato nel 1971, ma poi si è nuovamente allargato, anche se di poco, e l’Italia ora è dietro anche a Grecia e Spagna. Inoltre, la tabella mette in luce l’arretratezza del Mezzogiorno, che, pur crescendo più del Nord-Ovest, non è riuscito a colmare il divario, a differenza del Nord-Est e Centro.
E’ possibile approfondire l’analisi con il bel volume di Giovanni Vecchi (2010) che presenta indici annuali per otto misure di benessere. Al PIL pro-capite, alla speranza di vita alla nascita ed al tasso di alfabetizzazione (già presenti nell’HDI) si aggiungono il numero di calorie disponibili pro-capite, l’indice GIni della distribuzione del reddito, la percentuale della popolazione al di sotto della soglia di povertà assoluta (tale da garantire un consumo minimo), il tasso di mortalità infantile, e la statura media, che dipende dal saldo calorico fra nutrizione e perdite da lavoro e malattie. Di nuovo, si pone la necessità di aggregare questi indici. In teoria, l’aggregazione dovrebbe rispecchiare il peso attribuito a ciascuna componente dalle preferenze collettive, che però non sono osservabili. Gli otto indici rispecchiano tre dimensioni diverse del benessere – il livello dei consumi (PIL e calorie), l’equità (l’indice di Gini e percentuale di poveri) e la salute ed istruzione (speranza di vita, mortalità infantile, statura e alfabetizzazione). Nella Figura 5, si calcola la media geometrica degli indici appartenenti a ciascuna componente, espressa come un indice composto in base 1951=1.
Figura 5
Indici compositi di benessere (1951=1), scala logaritmica
Ciascuno di questi indici rispecchia uno specifico insieme di preferenze sociali e implica una diversa periodizzazione della crescita
a) Per un ‘ameriKano (l’obiettivo principale della vita è consumare di più), la performance dell’economia italiana è stata quasi sempre mediocre, con la luminosa eccezione degli anni Cinquanta e Sessanta
b) per un ‘indignado’ (la crescita è accettabile solo se i suoi frutti sono equamente distribuiti) il periodo d’oro sono gli anni Settanta, ma il terreno guadagnato è stato perso negli anni Novanta
c) infine per un ‘gaudente’ (conta la qualità della vita, non il benessere materiale), il progresso è stato continuo ed abbastanza regolare – in una prima fase soprattutto grazie alla diffusione dell’alfabetizzazione e poi soprattutto grazie al miglioramento della salute
Questi sono esempi estremi: è probabile che le preferenze collettive siano un misto delle tre, ed è anche possibile che esse siano cambiate nel tempo. Questo esercizio dimostra però che qualsiasi esse siano o siano state, la situazione italiani è migliorata moltissimo nel lungo periodo
Purtroppo questa conclusione ottimistica potrebbe non valere per il futuro. L’Italia è ancora un paese relativamente ricco: il PIL pro-capite nel 2013 è il doppio di quello del Brasile e 2.5 volte quello della Cina, ed ancora non troppo distante da quello della Francia o della Gran Bretagna. Ma è un paese in affanno da almeno vent’anni. Dal 1993 al 2007 il PIL pro-capite è aumentato del 20%, ma nella crisi ha perso metà dei guadagni ritornando ai livelli della fine anni Novanta. Come si vede dalla Figura 4, il tasso di crescita della produttività del lavoro nel 1993-2010 è stato il più basso nella storia unitaria ed il contributo dell’aumento di produttività aggregata è stato quasi nullo. La produttività aggregata è addirittura diminuita dal 2000 al 2010. Le cause si questo affanno sono molteplici, ma mi sembra convincente il riassunto di Toniolo (2013): l’incapacità di ‘produttori, sindacalisti e politici’ di rendersi conto del cambiamento epocale della seconda globalizzazione (dopo aver ben sfruttato la prima). Il problema è comune a tutti i paesi europei, ma l’Italia era sin dall’inizio il paese strutturalmente più debole, per la combinazione di ‘mancanza di fattori di crescita’ (il declino delle grandi aziende, alto rapporto debito/PIL ed anche sopravvalutazione del tasso di cambio) e di ‘antiche debolezze’ (il divario Nord-Sud, l’inefficienza del sistema finanziario, la limitata dotazione di capitale umano). Inoltre l’Italia si è rivelata il paese più renitente alle riforme, dopo i primi successi degli anni Novanta. Già una volta, come detto all’inizio, l’Italia si bloccò dopo un lungo periodo di crescita economica. Allora la stagnazione durò cinque secoli. Ovviamente ora la situazione è completamente diversa, ma comunque il precedente storico non è del tutto rassicurante.
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Vecchi G. (2011)In ricchezza ed in povertà.Il benessere degli italiani dall’Unità ad Oggi Mulino Bologna
Grazie molte per il post, Giovanni, quelli di storia economica sono sempre fra i più interessanti. Già che ci sono (e mi scuso per l'auto-citazione, ma magari può interessare) ne approfitto per segnalare che ho usato diversi fra i dati di Vecchi per costruire delle infografiche che, spero, li rendono più semplici da capire. Sono in questo articolo per Wired.
Qui c'è un esempio: "Rise and fall of the Italian economy", che secondo me mostra chiaramente quanto ormai si è inceppata l'economia italiana.