Nel nostro libro su Voltremont, alias Giulio Tremonti, abbiamo chiamato ''mangiamorte'' quei giornalisti e quegli intellettuali che, per ragioni a volte confessabili a volte no, hanno preso sul serio le bislacche teorie dell'Oscuro Signore e ne hanno propagato le menzogne relative alla situazione economica del paese.
Ma il vento sembra essere cambiato. La (prima di tante, è poi risultato) manovra di questa estate, brillante sintesi della folle arroganza e dell'incompetenza che caratterizzano Giulio Tremonti e il governo a cui egli degnamente porta la fiaccola, aveva appena finito di raccogliere i soliti encomi, da parte dei soliti noti, che la crisi finaziaria e la crisi etico-giudiziaria hanno fatto precipitare Tremonti nel borsino della politica. Berlusconi certo, ma ad un certo punto anche Bossi, sembravano decisi a liberarsene.
All'improvviso è cambiato anche il clima sulla stampa. Lord Voltremont si è ritrovato con molti meno servi ossequianti di quelli a cui era abituato. Si è segnalato in particolare il Corriere, che sembra aver completamente perso il timore reverenziale per lungo tempo mantenuto nei confronti del ministro. Ha cominciato Sergio Romano sulla vicenda dell'affitto in nero a Milanese. Ma perfino in quel pezzo così critico si possono trovare perle come ''Giulio Tremonti è stato in questi anni il custode dei conti pubblici, il cane mastino della finanza nazionale. Ha esercitato le sue funzioni con un rigore e una tenacia che hanno suscitato l'approvazione di Bruxelles e contribuito alla credibilità dell'Italia nelle maggiori istituzioni internazionali.'' Sì, come no. Ma più passava il tempo, più si chiariva la gravità della crisi, meno chiari diventavano i meriti di Tremonti.
Un paio di settimana dopo l'articolo di Romano, è il direttore De Bortoli a intervenire con un puntuto editoriale in cui definisce "millenariste'' le analisi di Tremonti. Di quell'editoriale vogliamo riportare la parte finale, su cui poi torneremo.
Occorre dare un segnale forte, il più possibile condiviso. Con un supplemento di responsabilità nazionale. A cominciare dal governo che per troppo tempo, anche nelle analisi millenariste del suo immaginifico ministro dell'Economia o nella pervicace e colpevole sottovalutazione dei problemi da parte del premier, ha dato prova di averne assai poca. Il mondo non è cambiato cinque giorni fa, come ha detto ieri Tremonti. È cambiato molto prima. Avessero ascoltato di più le voci critiche e fossero stati meno intolleranti...
L'intervento di De Bortoli faceva seguito a un intervento di Mario Monti in cui si plaude all'intervento internazionale, ironicamente definito ''mercatista'', che ha imposto il rigore ai riottosi politici italiani e si irride al "colbertismo de noantri''. Parole di Monti. Sono toni inusuali per Monti, che ha sempre coltivato una immagine di centrista pacato, e il bersaglio è fin troppo chiaro. Anche qui, è utile riportare un paragrafo del pezzo:
Nella diagnosi sull'economia italiana e nelle terapie, ciò che l'Europa e i mercati hanno imposto non comprende nulla che non fosse già stato proposto da tempo dal dibattito politico, dalle parti sociali, dalla Banca d'Italia, da molti economisti. La perseveranza con la quale si è preferito ascoltare solo poche voci, rassicuranti sulla solidità della nostra economia e anzi su una certa superiorità del modello italiano, è stata una delle cause del molto tempo perduto e dei conseguenti maggiori costi per la nostra economia e società, dei quali lo spread sui tassi è visibile manifestazione.
Bene, anzi molto bene. Speriamo che la glasnost continui sino alla cacciata finale di Tremonti, Berlusconi, Bossi e resto della banda; noi restiamo a osservare dubbiosi.
Ma questa improvvisa scoperta dei gravi limiti dell'immaginifico ministro dell'economia e delle sue analisi millenariste, per usare le parole di De Bortoli, impone anche una serie di domande scomode. Che poniamo a De Bortoli e a Monti, naturalmente, ma anche al resto della stampa italiana, dato che, tanto per dire, non è che il Sole 24 Ore abbia seguito in questa vicenda una traiettoria molto diversa da quella del Corriere.
Partiamo da una premessa. Tremonti ha scritto almeno due libri pieni di analisi millenariste e di colbertismo. I libri hanno avuto un enorme successo di pubblico e di critica. O meglio, di critica non se ne è vista. Nel nostro libro abbiamo messo in evidenza proprio questo, che le analisi di Tremonti tali non fossero, ma baggianate pseudo-colte, parole in libertà nel peggior stile post-moderno. Che la sua cupa visione del futuro (la paura in "La paura e la speranza") e le terrificanti minacce esterne da lui evocate non fossero che capri espiatori per la sua incompetente azione di governo. Che il suo colbertismo non fosse che falso e intellettualmente assai rozzo fondamento a un primato della politica corrotta e - ancora una volta - incompetente.
E non è stata solo l'analisi. Quando il ministro il colbertismo, oltre a predicarlo, lo ha praticato concretamente, sul caso Alitalia, sulla Banca del Sud, fino allla recentissima creazione della Società per le partecipazioni strategiche alla Cassa Depositi e Prestiti, le voci critiche che si sono levate insieme alla nostra sono state pochissime.
A partire da questa premessa alcune domande sorgono spontanee. La prima è di carattere generale.
Cari amici della stampa, cari intellettuali di corte: non è il momento di una dura e serrata autocritica? Perché quello che è successo, il favore accordato per anni ad un ridicolo ciarlatano che - mentre affermava d'aver tutto compreso e tutto previsto, emettendo frasi incoerenti - stava portando alla malora il paese, è molto grave. E deve far riflettere. Sul vostro ruolo, sull'informazione economica italiana e su come il potere politico (e l'aspirazione ad ottenerlo) manipola l'opinione pubblica in terra italiana. Come è stato possibile che importanti direttori di giornali, come Paolo Mieli e Gianni Riotta, abbiano scambiato le assurde analisi millenariste dell'immaginifico ministro per raffinata analisi intellettuale? È stata dabbennaggine, è stato servilismo, è stata paura del potente, o qualcos'altro ancora?
Ma oltre alla domanda di carattere generale ne vogliamo porre un paio più dettagliate.
Prima domanda. Se c'è una cosa che la crisi attuale dovrebbe aver seppellito per sempre è il mito di Tremonti severo guardiano del bilancio. Ma quando mai? L'Italia era e resta un paese con alto debito e conti disastrati, un sorvegliato speciale dei mercati. Lo era nel 2008 e lo è oggi. Tremonti ha mantenuto il deficit a ''solo'' il 4-5% del PIL (principalmente grazie a tasse e trucchetti da magliaro come lo scudo fiscale, con una spruzzatina di demenziali tagli lineari) solo perché qualunque cosa diversa avrebbe scatenato la violenta reazione dei mercati. Questa è la ragione per cui il governo non ha mai abbassato le tasse. Esercitare rigore sul serio significava intervenire con tagli strutturali alla spesa e avviare riforme liberalizzatrici per promuovere la crescita. Nulla di questo è stato fatto. In altre parole, se al posto di Tremonti ci fosse stato qualcun altro le cose non sarebbero cambiate. Il rigore è stao imposto dai mercati, non da Tremonti. Se lui non ci fosse stato ci sarebbe stato qualcun altro che avrebbe fatto più o meno lo stesso. In effetti, data l'incompetenza mostrata dal ministro, non era difficile fare almeno un po' meglio.
Il fatto che, nel teatrino della politica, a Tremonti sia stato assegnato il ruolo di quello che dice ''no'' mentre ad altri è stato assegnato il ruolo di chiedere cose impossibili non avrebbe certo dovuto ingannare gli osservatori minimamente attenti. Tutte queste cose, lo ripetiamo sono sempre state chiarissime a chiunque le volesse vedere. Quindi, professor Monti, ci vuole spiegare perché, nel suo editoriale del 14 agosto, insiste nell'affermare che Tremonti ha avuto ''il merito di aver saputo mantenere un certo rigore di bilancio con un governo e una maggioranza poco inclini a tale virtù''? Non c'è alcuna evidenza di questo fatto. Al contrario, c'è ormai ampia evidenza che il rigore vero, quello che riforma in modo strutturale i conti dello Stato e non mette pezze momentanee sperando che i mercati si distraggano, non c'è stato per nulla. Ci sono state solo le menzogne che il governo, e Tremonti in particolare, hanno raccontato per tre anni. C'è stato solo un ministro che, a parte le sceneggiate propagate dalle televisioni e dalla stampa di regime, ha fatto esattamente quello che la maggioranza di governo gli ha fatto fare, come non può che essere. Non è arrivato il momento di dirlo forte e chiaro? E non era il caso di dirlo forte e chiaro anche prima? Magari se tra le ''voci critiche'', come le chiama De Bortoli, ci fosse stato qualche editorialista in più del Corriere si sarebbe perso meno tempo.
Seconda domanda. Non è solo questione di editoriali e opinioni. Le menzogne del ministro e del governo hanno ripetutamente riguardato i fatti e i numeri nudi e crudi. Ricordiamo, tra i tantissimi, solo un episodio (e per una altro leggetevi questo articolo di Michele su Il Fatto dello scorso 17 marzo; gli esempi, ripetiamo, sono abbondantissimi). Nell'aprile del 2010 Tremonti, ai margini di una riunione del Fondo Monetario Internazionale, rilasciò una serie di trionfali dichiarazioni. Il Corriere, in un articolo del 24 aprile, titolava: ''Debito pubblico, Tremonti: «L'Italia come la Germania e meglio degli Usa»''. Tutto merito del governo Berlusconi, naturalmente, e del suo immaginifico ministro. Dichiarava infatti Lord Voltremont:
«I dati ci dicono che dobbiamo fare almeno come i tedeschi e magari un po' di più, ma sicuramente le manovre che andranno fatte dagli altri Paesi sono molto più grandi e più pesanti per la gente di quelle che dovremmo fare anche noi i prossimi anni. Alla fine quello che conta sono i numeri e dicono che le difficoltà non sono finite e che dobbiamo fare di più», ha concluso Tremonti.
Già, gli altri sì che faranno manovre grandi e pesanti, noi invece ... A leggerle oggi queste dichiarazioni generano, a seconda dell'umore, rabbia o ilarità. Di certo, questa estate la loro natura menzognera è diventata ovvia anche a chi è stato finora cieco. Ma, e questo è il punto che vogliamo sottolineare, il fatto che si trattasse di ridicole enormità era assolutamente chiaro anche nell'aprile del 2010. Bastava fare due conti, come si prese la briga di fare il nostro Giulio Zanella, per sbugiardare le improbabili affermazioni del ministro. Giulio concluse il suo pezzo con la seguente domanda: ''Perché questi dubbi non sono venuti anche ai giornalisti italiani che intervistavano Voltremont ed hanno poi redatto gli articoli? Loro che erano lì hanno dato un'occhiata alle tabelle o hanno creduto a Voltremont sulla parola?''. Queste domande vennero allora serenamente ignorate dalla stampa. Caro De Bortoli, non è arrivato il momento di rispondere? I giornalisti economici italiani sono così scadenti da non riuscire ad accorgersi neppure di rodomontate così ridicole come quelle profferite in quell'occasione dal ministro? Oppure c'è qualcosa di più sinistro, l'ossequio istintivo verso il potente, la paura di esser tagliati fuori dal ''giro buono'', di non essere più invitati alle conferenze stampa, o nei salotti giusti? E, sia come sia, le cose al Corriere continueranno come nel passato o ci sarà qualche cambiamento?
Chiudiamo il pezzo con un'ultima osservazione. Non vorremmo dare l'impressione che la pavidità di questi anni del Corriere sia stato un unicum nel panorama della stampa italiana. Al contrario, il comportamento del Corriere è stato tipico. In effetti, c'è stato chi ha fatto molto peggio, basta pensare al grottesco servilismo di Gianni Riotta. Ma il Corriere, piaccia o non piaccia, ha sempre occupato una posizione speciale nel panorama della stampa italiana. E questo conferisce a chi lo dirige speciali privilegi ma anche speciali doveri. Per questo, De Bortoli, la domanda la rivolgiamo a lei. Come è potuto succedere?
Sottoscrivo tutto, ma ricordate anche di dedicare un post a Marco Fortis, un fenomeno da narrare. Dico soprattutto a te, Michele!