Mission: impossible. Riformare l'universita' italiana.

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Riformare l'università italiana è probabilmente impossibile, tuttavia come spesso accade la speranza trascina le persone più dell'esperienza, per cui alcuni volonterosi, sollecitati da una lettera aperta (introduzione, pdf) di Claudio Procesi (docente di Matematica alla Sapienza di Roma) hanno discusso in un forum web apprositamente creato, Universitas Futura, e hanno infine elaborato un documento contenente alcune linee guida per una proposta di riforma dell'università italiana. Non senza qualche resistenza, la proposta elaborata propone un'Università incentrata sulla competizione tra sedi diverse - autonome entro i vincoli di bilancio - per accedere a fondi statali distribuiti in seguito ad una valutazione approfondita dei risultati della ricerca e della didattica.

Sarei felice se questo articolo stimolasse una discussione sulle riforme di cui ha bisogno l'università italiana. Per avviare la discussione, espongo nel seguito la mia ricetta personale per riformare l'università italiana, rielaborando il mio contributo al termine della discussione sui forum di Universitas Futura.

Il nostro paese ha un sistema universitario che - complessivamente, in media - è più arretrato e meno efficace in termine di costi e risultati rispetto a quello degli altri paesi avanzati con cui ci confrontiamo, per responsabilità varie (politiche, accademiche, sindacali).  Ritengo che il problema principale consista nell'assenza di una valutazione esterna, indipendente, approfondita, rigorosa e continua dei risultati didattici e della ricerca, valutazione che poi incida seriamente sull'attribuzione dei finanziamenti e anche in certa misura sugli stessi compensi del personale universitario. In assenza di valutazione incisiva delle scelte operate, le riforme che hanno attribuito progressivamente maggiore autonomia agli Atenei in materia di bilancio (autonomia) e reclutamento (concorsi locali) hanno prodotto risultati deludenti e favorito comportamenti scorretti, abusi ed eccessi di nepotismo e localismo.

Pertanto, una riforma dell'università italiana deve essere incardinata su due principi fondamentali:

  • deve esistere una valutazione rigorosa, periodica ed indipendente dei risultati della ricerca e della didattica come presupposto inderogabile di ogni finanziamento assegnato; tale valutazione va organizzata da chi finanzia, e quindi in Italia principalmente dallo Stato.
  • entro i vincoli di bilancio determinati dalle risorse attribuite, i Dipartimenti universitari devono avere reale autonomia nell'organizzazione della didattica, della ricerca e del reclutamento, entro norme generali omogenee valide per tutti, ma senza freni e ostacoli puramente burocratici e formali, e senza dover sottostare a procedure di concorso nazionali.

La valutazione della ricerca deve avvenire secondo gli standard internazionali alla base delle procedure di "peer review" eseguita dai migliori esperti (italiani ed esteri senza distinzione). Esempi di valutazione rigorosa della ricerca organizzata dallo Stato esistono, ad es. il RAE in Gran Bretagna.
La valutazione dei risultati della didattica è materia più complessa, ma viene fatta in vario modo e misura per tutti i migliori sistemi di educazione superiore. L'OCSE ha avviato recentemente un progetto di valutazione comparata ed estensiva dei risultati dell'educazione superiore (AHELO).
In altri contesti meno assimilabili al caso italiano come gli USA la valutazione dell'università è affidata sostanzialmente a meccanismi di mercato, di cui si avvalgono anche le famiglie per scegliere le università migliori. Tali meccanismi non appaiono di semplice e realistica applicazione nell'Europa continentale, ma possono comunque complementare l'opera dello Stato.

Ritengo che la valutazione e l'esercizio dell'autonomia debbano essere incentrati sui Dipartimenti (ovvero sulle strutture che accomunano docenti e ricercatori universitari appartenenti alla medesima disciplina) perché valutazioni serie e anche confronti nazionali e internazionali approfonditi su didattica e ricerca si possono fare solo disciplina per disciplina.

Ritengo molto più complesso e necessariamente impreciso e superficiale confrontare Atenei diversi, perché essi possono avere una composizione interna molto diversa l'uno dall'altro per discipline. Quanto alla valutazione dei singoli membri del personale universitario, ritengo che la valutazione debba essere organizzata principalmente dal Dipartimento di appartenenza, che avrà diretto interesse a reclutare, premiare e valorizzare i membri più validi scientificamente se efficacemente responsabilizzato da valutazione rigorosa ed incisiva dei suoi risultati aggregati.

Un esempio di valutazione approfondita a livello di dipartimenti è contenuto in questo saggio tedesco (pdf).

Stabiliti meccanismi incisivi per valutare i risultati e responsabilizzare l'operato, è corretto e opportuno garantire ai Dipartimenti ampi margini di autonomia perché in capo ad essi saranno concentrati gli incentivi e gli interessi a scegliere e operate nella maniera più efficiente al fine di produrre i risultati migliori entro i limiti delle risorse assegnate.

In Italia l'Università è in netta prevalenza statale, e non solo in Italia i finanziamenti all'università provengono in misura prevalente dallo Stato. Ritengo che una riforma realisticamente attuabile debba prevedere che l'università rimanga sostanzialmente statale come in Inghilterra o al più regionale come in USA (prevalentemente) e in Svizzera. Allo stesso tempo lo Stato, come avviene in Inghilterra, non può limitarsi a finanziare ma deve farsi carico anche di misurare periodicamente i risultati, fissando i finanziamenti in misura proporzionale ai risultati didattici e di ricerca dei Dipartimenti universitari. Risulta anche naturale che lo Stato ripartisca il finanziamento all'Università per discipline in base alle esigenze e alla programmazione della didattica e della ricerca nel Paese, e anche in base alla documentata competitività internazionale attuale dei diversi settori di ricerca esistenti. Ritengo infatti inaffidabile una ripartizione di fondi indivisi assegnati a tutta l'Università o anche a singoli Atenei, quando gli organi di governo sono determinati “democraticamente” dagli stessi docenti destinatari dei finanziamenti: non è possibile fare una valutazione obiettiva dei meriti tra discipline radicalmente diverse, e in ogni caso i percettori stessi dei finanziamenti non hanno gli incentivi corretti per ripartire efficientemente le risorse disponibili, al contrario esiste l'incentivo o alla ripartizione in parti uguali senza valutazione, o alla formazione di cordate maggioritarie solo numericamente finalizzate all'appropriazione delle risorse da dividere in seguito ancora una volta in parti uguali e senza valutazione, ma escludendo la minoranza. Solo una “governance” sostanzialmente indipendente dai docenti percettori delle risorse potrebbe avere incentivi appropriati ad allocare correttamente risorse tra discipline diverse. È tuttavia essenziale che tale autorità sia quanto più possibile indipendente anche dagli arbitrii della politica. Nel contesto italiano, appare necessario un miracolo perché tutto ciò si possa realizzare, tuttavia non vedo alternative migliori che siano realistiche e praticabili. La riforma proposta è terribilmente pericolosa nel contesto italiano, perché prevede autonomia nelle scelte che viene responsabilizzata da una valutazione a posteriori dei risultati. I docenti universitari più anziani, che sono anche spesso i più potenti, potrebbero abusarne senza freno e senza temere conseguenze prima della pensione. Pertanto è indispensabile prevedere accuratamente una fase transitoria in cui in un primo tempo venga fatta una valutazione approfondita sia dei risultati sia delle politiche di reclutamento passate dei Dipartimenti. In un secondo tempo, solo i migliori Dipartimenti dovrebbero avere risorse e possibilità di reclutare, con valutazione successiva. È cruciale che l'estensione dell'autonomia nel reclutamento sia sempre e comunque condizionata ad approfondite valutazioni.

Per prevenire degenerazioni tipiche del contesto italiano come università che si specializzano come esamifici con docenti raccogliticci e sottopagati, è opportuno imporre inizialmente vincoli di relativa omogeneità per l'inquadramento dei docenti dei corsi, con margini di autonomia ad esempio nei compensi e nel carico didattico non superiori a quelli esistenti in altri sistemi universitari avanzati, come ad esempio quello inglese. 'Enunciati i principi generali, elenco nel seguito una serie di elementi più tecnici e specifici che mi sembrano essenziali per realizzare una riforma coerente e funzionale, con brevi motivazioni.

La remunerazione della carriera accademica in Italia, dal dottorato alla posizione di prof. ordinario con massima anzianità, è assolutamente abnorme perché prevede salario (e costo totale inclusivo di tasse e contributi) estremamente basso per i giovani ad inizio carriera e comparativamente molto elevato a fine carriera ed elevata anzianità.  Inoltre, all'interno di ogni posizione stabile esiste una progressione della remunerazione di anzianità di entità abnorme rispetto alla media degli altri paesi avanzati (dalla Francia agli USA), progressione oltretutto indipendente da ogni considerazione di merito.  Questa struttura di salario è incompatibile con una reale mobilità dei giovani nella fase iniziale della carriera accademica, tipica dei sistemi universitari più avanzati, e inoltre fortemente ostacola il reclutamento dei più validi scienziati degli altri Paesi avanzati.  Si propone di riequilibrare la remunerazione a parità di spesa totale integrata lungo la carriera accademica media. Ciò può diventare effettivo istantaneamente per i giovani che iniziano ora il percorso, e va calibrato con equità per il personale già in servizio che ha già scontato bassi salari iniziali e che ha pertanto legittime aspettative riguardo i compensi presenti e futuri.

Il riequilibrio delle remunerazioni lungo il percorso di carriera accademica risolve alla radice gli squilibri che ora sono causati dal costo abnormemente basso dei giovani in posizione precaria e dei ricercatori ad inizio carriera e dal costo comparativamente abnormemente elevato dei docenti con elevata anzianità. Si tratta di un problema comune al sistema del lavoro privato che distorce l'occupazione inducendo a licenziare o prepensionare a carico dello Stato i lavoratori anziani per assumere giovani sottopagati e/o in posizioni a tempo determinato. Il riequilibrio deve riguardare sia il rapporto tra le remunerazioni delle diverse posizioni, sia l'entità della progressione di anzianità all'interno dei rapporti stabili, e deve prendere a riferimento gli esempi migliori e prevalenti all'estero. Una parte della progressione di anzianità potrebbe essere redistribuita in base al merito.

Seguendo l'esempio diffuso nei migliori sistemi universitari esteri, si propone di imporre per legge, oppure fortemente incentivare, la mobilità nelle fasi iniziali della carriera accademica, seguendo per esempio il modello USA che prevede cambio di sede universitaria per il dottorato di ricerca, per il contratto di post-doc, e per l'assunzione come assistant professor (cioè la prima posizione in prima approssimazione stabile nel personale universitario, approssimativamente corrispondente al ricercatore italiano). Ciò ridurrebbe fortemente il livello di inbreeding (formazione e carriera esclusivamente nello stesso Ateneo) che caratterizza in misura abnorme il sistema italiano, al pari di quelli dell'Europa meridionale. Diversi studi mostrano che livelli elevati di inbreeding riducono significativamente la produttività scientifica e favoriscono la creazione di strutture di potere piramidali, chiuse e gerontocratiche. Inoltre proprio l'assenza dei candidati locali nella selezione delle posizioni di dottorato, post-doc e ricercatore contrasterebbe efficacemente le distorsioni dovute a pratiche localistiche e nepotistiche, e favorirebbe una valutazione più equa e corrispondente al merito.  Infine, con salari significativamente più elevati di quelli attuali giovani motivati alla carriera accademica potrebbero affrontare adeguatamente i costi della mobilità.

È opportuno che il finanziamento alla ricerca venga gestito da una o meglio più Agenzie dedicate, salvaguardando le eventuali esperienze che già funzionano come l'INFN. Questa è la situazione comune ai paesi avanzati (es. DOE e NSF negli USA, ERC in Europa). Le Agenzie devono avere personale quanto più possibile disgiunto da chi chiede e riceve i fondi di ricerca, e devono avvalersi dei migliori esperti sia nazionali che internazionali per valutare i progetti presentati secondo gli standard della peer review. La valutazione comparativa dei progetti deve essere all'interno di discipline omogenee.

È essenziale che una parte significativa dei finanziamenti sia assegnata sulla base di progetti di singoli o pochi docenti di un unico Dipartimento, piuttosto che su progetti con collaborazione e responsabilità diffusa e difficilmente individuabile.  Una frazione (orientativamente il 20%) dei fondi assegnati deve andare ai Dipartimenti di appartenenza per spese amministrative e investimenti comuni (overhead): questo meccanismo comune e sperimentato nella ricerca internazionale (e con esempi anche in Italia) introduce importanti incentivi ai Dipartimenti a reclutare gli scienziati migliori.
I grandi progetti che necessitano di numeri elevati di collaboratori devono essere gestiti ed approvati o dai Dipartimenti o da Laboratori dedicati per quanto riguarda il merito scientifico, e poi devono essere presentati per l'approvazione del finanziamento alle Agenzie di finanziamento. Successivamente, le Agenzie dovranno valutare anche singolarmente i progetti di collaborazione presentati da singoli docenti o piccoli gruppi, Dipartimento per Dipartimento.

La valutazione deve influire sulla remunerazione del personale universitario in misura tale da incentivare la produttività scientifica e didattica e da usare le risorse disponibili per attrarre gli scienziati migliori. Si tratta di una materia delicata su cui l'Italia è poco preparata e che si presta ad abusi e distorsioni, tuttavia si tratta di un elemento indispensabile per migliorare l'accademia. Usando i risultati delle valutazioni, lo Stato dovrebbe imporre premi e penalizzazioni su tutte le remunerazioni, Dipartimento per Dipartimento, con incisività maggiore su quelle più elevate che statisticamente sono associate a maggiore potere e responsabilità.

I criteri di valutazione devono dipendere dai macrosettori. Il metodo è fondato sulla peer review da parte di persone esterne e di chiaro livello scientifico, con un sostanziale contributo di colleghi stranieri qualificati. Si potrebbe partire dai raggruppamenti disciplinari nei macro-settori esistenti, abolendo la divisione in settori scientifico-disciplinari, incoraggiando al contempo quegli scambi interdisciplinari che sono il motore dell'evoluzione della Scienza.

Area 01 - Scienze matematiche e informatiche
Area 02 - Scienze fisiche
Area 03 - Scienze chimiche
Area 04 - Scienze della terra
Area 05 - Scienze biologiche
Area 06 - Scienze mediche
Area 07 - Scienze agrarie e veterinarie
Area 08 - Ingegneria civile e Architettura
Area 09 - Ingegneria industriale e dell'informazione
Area 10 - Scienze dell'antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche
Area 11 - Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche
Area 12 - Scienze giuridiche
Area 13 - Scienze economiche e statistiche
Area 14 - Scienze politiche e sociali

La posizione di “ricercatore” nell'Università italiana è assolutamente abnorme. Per quanto riguarda il reclutamento futuro, si propone di trasformare la posizione di ricercatore in una posizione equivalente alla posizione di assistant professor con tenure-track del sistema universitario USA, con obblighi didattici corrispondenti nella fase iniziale di tenure-track e con conferma finale nella posizione di associato previa valutazione a cura del Dipartimento di appartenenza dei primi 5-6 anni. Quanto qui descritto si combina in maniera naturale e opportuna con il riequilibrio della remunerazione lungo la carriera accademica media, anche a parità di spesa complessiva integrata sulla carriera media.  Per quanto riguarda i ricercatori esistenti, è auspicabile prevedere una fase transitoria che possa permettere ai Dipartimenti di inquadrarli come docenti in seguito ad una valutazione comparabile a quella del percorso di tenure-track.

Di fatto non esiste valore legale del titolo di studio nelle procedure di reclutamento delle posizioni anche apicali del settore economico privato.  Il valore legale del titolo di studio di fatto è sostanzialmente un parametro prevalentemente solo formale valido ad ottenere inquadramenti e remunerazioni superiori nel settore statale pubblico. Come è risultato recentemente (convenzioni dell'Ateneo di Siena e Kore), l'esistenza di questo genere di valore legale induce abusi e degenerazioni senza assicurare vantaggi concreti allo Stato.  Proponiamo pertanto che venga abolito il valore legale del titolo di studio, così da rendere più concreto ed evidente che ciò che veramente conta (in tutto il mondo avanzato) e deve contare (in Italia) deve essere la reputazione dell'istituzione che rilascia il titolo nel fornire istruzione di qualità. In questa ottica non avrebbero spazio quelli istituti privati che offrono titoli accreditati dallo Stato senza alcuna verifica reale della qualità e appropriatezza della formazione fornita.

Appare opportuno prevedere che i fondi di ricerca possano contribuire ad alleviare i carichi didattici dei migliori docenti, fornendo risorse per sostituire la remunerazione associata al carico didattico corrispondente. Questo consentirebbe maggiore flessibilità per i dipartimenti e per i singoli docenti di ottimizzare i propri impegni di ricerca e di didattica nel corso della carriera e tra docenti diversi dello stesso Dipartimento, nella maniera più efficace in entrambi i settori. Meccanismi paragonabili esistono in alcuni dei migliori sistemi universitari stranieri. Specularmente, dovrebbe essere possibile assecondare la vocazione di quei docenti che ritengono di preferire un più esteso impegno didattico, riducendo od eliminando, ad esempio nella parte finale della carriera, il coinvolgimento nella ricerca.

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Commenti

Ci sono 35 commenti

Mi trovo in completo accordo con alcune delle proposte di Alberto L, meno con altre. Eliminare l'inbreeding, riequilibrare la remunerazione della carriera academica per evitare che lo stipendio aumenti unicamente in base all'anzianita', creare un'agenzia di ricerca stile National Science Foundation, far dipendere i fondi a disposizione dei dipartimenti e la remunerazione individuale dalla produzione di ricerca -queste sono idee sacrosante e, come si dice qui, long overdue.

Non sono invece d'accordo col nocciolo della proposta, cioe' (1) far si' che la valutazione dei dipartimenti sia fatta dallo Stato come ad esempio nel modello inglese del RAE, (2) lasciare che lo Stato determini la ripartizione di risorse per discipline: (scrive Alberto: "Risulta anche naturale che lo Stato ripartisca il finanziamento all'Università per discipline in base alle esigenze e alla programmazione della didattica e della ricerca nel Paese, e anche in base alla documentata competitività internazionale attuale dei diversi settori di ricerca esistenti.")

Mi vengono in mente, specie nel caso italiano, diversi modi in cui queste procedure possono creare incentivi perversi. Per effettuare una valutazione occorre necessariamente creare criteri oggettivi di quantita' e qualita' delle pubblicazioni, nonche' scegliere le persone che effettuano la valutazione. Entrambe le cose si prestano ad ogni sorta di distorsione e manipolazione. Inoltre, fissare rigidamente dei criteri di valutazione implica minore flessibilita' nell'adeguarsi a cambiamenti - ad esempio se un nuovo Journal acquista status migliore rispetto ad altri gia' esistenti, oppure se un journal declina.

L'idea che lo Stato determini la ripartizione di risorse per discipline mi sembra anch'essa pericolosa: tornano in mente le cattedrali nel deserto, i poli siderurgici, ecc. Perche' mai lo Stato dovrebbe avere conoscenze superiori al "mercato" riguardo a quali siano i campi e le discipline in cui sia meglio investire?

Abbiamo, insomma, una fondamentale differenza di approccio: secondo me il meccanismo migliore di allocazione e' il mercato, in cui le universita' sono fondamentalmente private e raccolgono fondi in competizione una con l'altra, specializzandosi nei campi e nelle nicchie che vogliono. Che siano i Deans delle singole universita' a scegliere la ripartizione di fondi fra discipline. Se poi scelgono male, il proprio ateneo attirera' meno studenti e meno fondi da parte di industrie e privati.

Se poi lo Stato desidera incentivare campi di ricerca specifici, che lo faccia attraverso la dotazione di fondi per discipline dell'agenzia di ricerca - l'equivalente della NSF.

Mi rendo conto che Alberto stia pensando a riforme "possibili" dato il vincolo politico oggi in Italia. Personalmente preferisco pensare all'ottimo di first best, prima di pensare ad un esercizio di ottimizzazione vincolata.

 

 

secondo me il meccanismo migliore di allocazione e' il mercato, in cui le universita' sono fondamentalmente private e raccolgono fondi in competizione una con l'altra, specializzandosi nei campi e nelle nicchie che vogliono. Che siano i Deans delle singole universita' a scegliere la ripartizione di fondi fra discipline. Se poi scelgono male, il proprio ateneo attirera' meno studenti e meno fondi da parte di industrie e privati.

 

Personalmente dubito che il mercato sia sufficiente ad allocare in maniera sensata le risorse per l'istruzione superiore, come anche nella sanita', in qualunque Paese. Detto questo, ho forti dubbi che non solo lo Stato ma la societa' italiana nel suo complesso saranno mai abili ad allocare le risorse in maniera sensata e ragionevole per universita' e ricerca.

La scelta dello Strato come allocatore e valutatore non deriva da una fiducia a priori o da ideologia statalista che da parte mia semplicemente non esiste, ma dall'esigenza di proporre qualcosa che 1) appaia realisticamente applicabile all'Italia (come hai compreso) 2) si ispiri e ricalchi modelli e pratiche che esistono in Paesi in qualche misura comparabili con l'Italia e che empiricamente hanno ragionevole successo.

In relazione al punto 2) ritengo di dover criticare la tua posizione a favore del mercato. Mi pare che non esista nessuna realta' concreta in cui l'Universita' si basa in misura assolutamente dominante sul mercato, mentre esistono realta' concrete di buona qualita' in cui l'Universita' e' regolata e finanziata in maniera assolutamente dominante dallo Stato: UK, Olanda, Svizzera per esempio, poi anche Francia e Germania hanno sistemi universitari assolutamente ragionevoli e dignitosi. Secondo Education at a glance 2008 dell'OECD, queste sono le percentuali di PIL impiegate nell'istruzione terziaria per alcuni dei migliori sistemi universitari esistenti

 StatoPrivati
USA1.01.9
UK0.90.4
Svizzera1.4-
Olanda1.00.3
Germania0.90.2

Per tutti i paesi elencati tranne che negli USA prevale il finanziamento statale (anche per la Svizzera ritengo, pur non essendoci il numero nel 2008). Per capire come vengano allocate le risorse occorrerebbero studi piu' dettagliati, disciplina per disciplina, ma la mia sensazione e' che lo Stato abbia un'influenza molto piu' che proporzionale alla quota di spesa nell'indirizzare l'allocazione delle risorse, anche negli USA. Per esempio, nella disciplina dove opero, fisica delle particelle elementari, lo Stato domina ovunque l'allocazione delle risorse, anche negli USA. Per esempio, Stanford Linear Accelerator center licenza e assume conseguentemente alle scelte del Department of Energy, ente governativo, l'autonomia del Dean esiste solo sulla ripartizione di risorse che vengono dallo Stato, che si occupa anche di approvare o bocciare le linee di sviluppo e i grandi progetti.

Sempre riguardo agli USA, non ho i dati pronti sotto mano ma mi risulta che la netta maggioranza dei laureati provenga da universita' statali e solo una frazione minoritaria venga da universita' private. Sarebbe interessante capire come sono amministrate le universita' statali negli USA. Le universita' del circuito "University of California" sono amministrate da "Regents" che sono "tecnici" nominati dallo Stato della California per lunghi periodi di tempo. Apparentemente i "Regents" perseguono una politica di lungo termine volta a massimizzare i benefici dell'istruzione superiore per i cittadini della California, e non per fare profitti sul mercato.  Anche molte universita' private USA (credo tutte le migliori) sono enti no-profit gestiti da fondazioni che non hanno come obiettivo primario fare profitti di mercato.

Concludendo, credo che sia possibile e realistico avere sistemi universitari dignitosi in cui lo Stato sia il valutatore e il finanziatore, come in UK.  E' possibile e plausibile che cio' non funzionera' in Italia, ma al meglio della mia esperienza e conoscenza quanto proposto e' un miglioramento rispetto al sistema vigente, e non ritengo sia plausibile realizzare nel breve-medio termine in Italia con successo un sistema alternativo basato in maniera dominante sul mercato.

Io continuo a leggere di stipendi dei professori che crescono mostruosamente con l'anzianità. Poi guardo il cedolino del mio stipendio da professore di prima fascia ormai da 7 anni e inizio a pensare che o la mia università mi stia fregando oppure che avrò un incremento mostruoso dello stipendio nei prossimi anni. Altre spiegazioni non riesco proprio a trovarne.

 

Poi guardo il cedolino del mio stipendio da professore di prima fascia ormai da 7 anni e inizio a pensare che o la mia università mi stia fregando

 

Non e' la tua universita' che ti sta fregando: e' lo Stato italiano, che come gia' spiegato altrove si prende in tasse e contributi il 63% circa dell'incremento di costo che anno dopo anno la tua universita' deve pagare.

Il costo totale inclusivo di tasse e contributi di un professore ordinario italiano con 20-30 anni di anzianita' e' dell'ordine di 150-200 kEuro. Alla massima anzianita' il costo di un ordinario italiano, inclusivo di tasse e contributi, supera il costo del 90% o 95% dei compensi dei full professor degli USA, anche quelli inclusivi di tutto. Si noti che il PIL pro-capite degli USA e' superiore del 40% a quello italiano, e gli USA spendono una frazione del PIL in universita' e ricerca che sara' 2-3 volte quella italiana.

Ad anzianita' modeste i salari sono bassi esattamente come sono bassi quelli degli operai, soprattutto se si guarda al netto o anche alla busta paga, che non include gran parte dei contributi e tasse versati direttamente dal datore di lavoro.

Lo Stato italiano e' fenomenale: paga i suoi docenti universitari in misura eccessivamente generosa, almeno a fine carriera, e allo stesso tempo li convince che sono pagati troppo poco. 

 

Questa la tabella delle retribuzioni. L'aumento del netto nei primi 7 anni e' di circa 1000 euro mensili.

Non mi meraviglio che Alberto Lusiani proponga l'abrogazione del valore legale della Laurea; non di meno so che gran parte degli intellettuali italiani sono contrari a questa proposta. Io, che intellettuale non sono, fino a qualche tempo fa mi sarei schierato con loro. Cerco di spiegare il motivo e di interpretare le loro ragioni (che erano le mie).

La laurea era (e in parte è) una delle poche misure di meritocrazia esistente in Italia; una misura parziale e certamente non adeguata a tutti gli scopi, ma pur sempre una misura. Ad es., la necessità nei concorsi pubblici di richiedere un titolo di studio per posizioni di livello più o meno elevato ha consentito un minimo (ma davvero minimo) di sbarramento nella selezione dei pubblici funzionari.

Per esperienza personale (per quello che possa valere una simile statistica) posso dire che tale filtro ha funzionato: la quasi totalità dei funzionari e quadri incapaci o fannulloni è costituita da quei dipendenti privi di laurea che hanno raggiunto tale posizione grazie a raccomandazioni e giochi sindacali possibili quando le promozioni verticali erano semi-automatiche e fortemente basate sull'anzianità. Ad oggi l'esplosione del fenomeno "Università telematica" con gli scandali che ne sono seguiti questo filtro è saltato. Ma non è questo che mi ha fatto cambiare idea.

E' stato più decisivo chiedersi quali fossero le reali ragioni di questo filtro e sul perché siamo solo noi italiani a volerlo; quando la risposta mi è stata chiara il cambio di schiermento è stato inevitabile. Il messaggio che vorrei fosse chiaro è che una simile abrogazione non può prescindere dall'introduzione di regole meritocratiche per la valutazione dei dipendenti pubblici; che insomma si sopperisca a quella che è l'unica ragione per cui oggi ci sembra indispensabile il valore legale della laurea: la mancanza di sanzioni e di controlli.

Mi rendo conto di chiedere troppo: in Italia quando ci si accorge che una regola viene aggirata troppo spesso anziché dare più potere ai giudici, forze dell'ordine, autority e quanti altri dovrebbero esercitare un controllo, si decide di complicare le procedure "affogandole di burocrazia". Col triplice effetto di dare una rinfrescata all'immagine del Governo che le propone, rendere più difficile la vita ai cittadini onesti e non risolvere il problema.

 

La laurea era (e in parte è) una delle poche misure di meritocrazia esistente in Italia; una misura parziale e certamente non adeguata a tutti gli scopi, ma pur sempre una misura. Ad es., la necessità nei concorsi pubblici di richiedere un titolo di studio per posizioni di livello più o meno elevato ha consentito un minimo (ma davvero minimo) di sbarramento nella selezione dei pubblici funzionari.

 

Conosco l'argomento per avervi partecipato da ambo le parti della barricata, e posso dire che la mia limitata esperienza riporta dati contrastanti con i tuoi. Non ho pretese di statistica, ma dalle mie osservazioni la correlazione tra voler fare, saper fare e titolo di studio tende a zero (o peggio) nel pubblico. Nel privato la correlazione viene forzata dalla necessita': se hai un titolo ma non sai o non vuoi fare, prima o poi tu o l'azienda finite a gambe all'aria.

Devo dire che la situazione e' peggiorata negli ultimi 20 anni, dovuta piu' che ai nuovi ordinamenti in se' alla confusione e alla dispersione di lavoro che questi hanno causato: in ogni caso anche le ultime leve del vecchio ordinamento mostravano un declino sensibile nella preparazione in rapporto all'eta' lavorativa.

Non posso lavorare sui numeri per motivi di tempo, ma posso dire che sono arrivato a ignorare il titolo di studio nella consultazione dei CV, o addirittura a diffidarne in certi casi.

la quasi totalità dei funzionari e quadri incapaci o fannulloni è costituita da quei dipendenti privi di laurea che hanno raggiunto tale posizione grazie a raccomandazioni e giochi sindacali possibili quando le promozioni verticali erano semi-automatiche e fortemente basate sull'anzianità.

La frase in grassetto vale ancora, almeno in parte. Non c'e' stato un vero cambiamento nelle modalita' di selezione e di scelta: ci sono istituzioni dove per accedere ai ruoli dirigenziali DEVI avere la laurea (per disposizione scritta) e DEVI avere dell'anzianita' (per usanza). 

che insomma si sopperisca a quella che è l'unica ragione per cui oggi ci sembra indispensabile il valore legale della laurea: la mancanza di sanzioni e di controlli.

L'unica ragione per mantenere, in astratto, il valore legale della laurea e' difendere delle consorterie (ad es. gli Ordini professionali). Ed e' illusorio pensare che la laurea sia una garanzia in tal senso, anche se minima: scandali come la facolta'di Economia a Messina anni fa, o le lauree semigratis della universita' privata Pio V a Roma piu' recentemente indicano che sanzioni e controlli servirebbero comunque.

Certo, un medico deve essere laureato in medicina e un  ponte deve essere costruito da un ingegnere: ma un ingegnere o un medico che non esercitano da X anni o che non hanno mai esercitato non hanno piu' competenza del campo di un capomastro o un infermiere che negli stessi X anni hanno lavorato. Quindi il titolo di studio, da solo, serve a ben poco.

Tutto quanto sopra ovviamente IMHO. 

 

Segnalo, per chi sta nel BelPaese, questo convegno a Roma giovedì 12/3. Sull'annunciato intervento di F. Saitta (che non conosco), calo un velo. Mi aspetto (o spero) certo di meglio almeno da Civitarese Matteucci.

RR

Chissà se questo incontro promette meglio? Comunque, lo segnalo!

Le proposte di Alberto Lusiani mi sembrano eminentemente razionali e ben indirizzate. Purtroppo, temo che l'univerista` italiana sia irriformabile: c'e` veramente troppa inerzia nel sistema, non solo l'80% degli immeritevoli menzionati da Michele Boldrin, ma anche il 20% percento dei meritevoli hanno comunque beneficiato del sistema cosi` com'e` e si opporrebbero in stragrande maggiornaza a qualsiasi riforma secondo le linee indicate da Alberto.

Piuttosto c'e` da chiedersi come faccia l'universita` italiana, nonostante tutto, a produrre ancora qualche eccellenza qua e la`.

Il mio consiglio a giovani intelligenti e motivati: avete un passaporto europeo, usatelo. Imparate le lingue e andate in Francia, Germania, Inghilterra (che comunque sono a 1-2 ore di volo low-cost da "casa" e dalla cucina della mamma, non c'e` neanche il culture shock di piantare tutto e stabilirsi dall'altra parte del pianeta).

L'Italia e` comunque ben avviata a diventare un paese del terzo mondo.

Scusate lo sfogo.

  Penso che l'impostazione dell'articolo sia fortemente carente per la limitazione ai due  aspetti  sui quali andrebbe "incardinata" una riforma: in breve, i due cardini sarebbero la "valutazione" e l'"autonomia" didattica e scientifica dei dipartimenti. Vorrei osservare incidentalmente che la valutazione è l'attuale cavallo di battaglia dell'"establishment" universitario, rappresentato dalla CRUI, mentre l'autonomia è qualcosa che già esiste  in larga misura e senz'altro sufficiente a produrre danni, quali la proliferazione dei corsi, o la promozione indiscriminata dei candidati "locali". Danni da ascrivere non già alla autonomia in astratto, ma al contesto nel quale la stessa viene esercitata. La “valutazione”, sulla quale tanti ripongono una cieca speranza, è fortemente limitata da:i) “tempi di risposta” necessariamente lenti rispetto alle esigenze, tenendo conto che a loro volta ricerca e didattica non forniscono  risultati in tempo reale, e ii) valutatori che devono necessariamente essere scelti nel ristretto mondo al quale essi stessi appartengono. Per questo secondo punto ogni paragone con i paesi di cultura anglosassone è fuori luogo. Così come sperare che angeli stranieri ci vengano a salvare dai corrotti giudici “locali” è soltanto un sogno. Tutto questo non significa che non vada sviluppata una valutazione per quanto possibile seria e rigorosa: ma pensare che l’università possa di colpo cambiare a seguito della valutazione è pura utopia. Passo ora all’autonomia, che ha già fatto molti danni: questi sono il prodotto dell’autonomia incastonata in una “governance” la cui legittimità nasce dal consenso del personale che dovrebbe appunto governare. Chi è votato è portato a privilegiare gli interessi dei gruppi più forti del proprio elettorato, anche a danno dell’istituzione; non mi soffermo su questo punto, dato che è sufficiente rivolgere il pensiero alle università USA che hanno un tipo di governo del tutto diverso dalle nostre. Ed è qui la più urgente delle riforme.

Misure drastiche non otterranno mai l'appoggio della maggioranza pero' il vero problema sta nelle code della distribuzione.

Anche all'interno dei fisici che sono uno dei settori piu' internazionali e piu' "sano" esistono dei casi (minoritari) che non dovrebbero esserci (soprattutto al sud..).

Un'occhiata ai grafici di

www.pubblicoergosum.org/wp-content/uploads/2008/11/ricordassh.jpg

mostra come ci siano delle code della distribuzione che non dovrebbero esserci.

Inoltre tagliare le code equivale a tagliare gli scarsi che sono molto piu' facili da individuare (tanto per fare un esempio ad economia a TO hanno presentato 6 libri in italiano per studenti pubblicati da un editore locale  come prodotti della ricerca :-( )

 

 

Meno male che Eurostat ogni tanto suona la sveglia...

<em>UNIVERSITA': GELMINI, DATI EUROSTAT PREOCCUPANTI<em>

I dati Eurostat sulla situazione dell'universita' italiana e sul numero di giovani laureati nel nostro paese 'non sono particolarmente brillanti e destano forte preoccupazione'. Cosi' il ministro dell'Istruzione, Universita' e Ricerca, Maria Stella Gelmini, intervendo a Radio 24 nel corso del programma condotto da Giuliano Ferrara, commenta la percentuale che vede l'Italia in fondo alla classifica europea per numero di 'dottori'.

La Gelmini, riferendosi alla minima percentuale del numero di giovani laureati che provengono da famiglie in cui il livello di istruzione dei genitori e' basso, sottolinea come l'universita' abbia perso la capacita' di essere 'ascensore sociale' e come vi sia la necessita' 'di ripensare l'offerta formativa e di migliorare il collegamento tra gli atenei e il mondo del lavoro'.

 

perso la capacità di essere 'ascensore socialé

 

Perso? Quando mai ce l'ha avuta, signora Ministro? La mobilità sociale in Italia è sempre stata questione di eccezioni personali, mai avuto nulla a che fare con l'università.

Vero. La grande mobilità sociale degli anni cinquanta e sessanta non è certamente passata attraverso il sistema universitario, che è restato assolutamente impermeabile a chi non appartenesse già alla piccola borghesia "intellettuale" almeno fino agli anni settanta. Credo però che gli istituti tecnici (commerciali, industriali, agrari, e per geometri) abbiano dato invece un notevole  contributo alla mobilità sociale. Meno incisivo è stato il ruolo degli istituti magistrali che pure, negli ultimi decenni dell'ottocento, e nei primi decenni del novecento, contribuirono non poco a rinnovare la classe dirigente politica. In generale il sistema di istruzione puo' svolgere ed in effetti svolge anche il compito di ostacolare il ricambio sociale. Molti difensori della "serietà degli studi", della selezione all'ingresso, ed anche della divisione delle università in serie A, serie B, e serie C, più o meno inconsciamente difendono anche le barriere che il sistema di istruzione "dovrebbe porre" alla mobilità sociale.  

"Il 3+2? Un fallimento. Le sedi? Troppe come i professori. Gli studenti? Fuori corso e poco preparati. I costi? Insostenibili. L’università? Da rifondare. Il documento porta la firma del ministro Mariastella Gelmini, ed è stato recapitato pochi giorni fa a tutti gli atenei italiani: poche pagine che fanno a pezzi l’università degli ultimi dieci anni e la riforma voluta nel 1998 da Luigi Berlinguer ed esortano i rettori a ridurre ancora corsi e docenti."

Forse qualcuno non ha detto al Ministro, tra le altre cose, che:

  • i fuori corso non sono diminuiti perchè non sono cambiati i metodi di valutazione agli esami
  • i ragazzi continuano verso la specialistica perchè gli viene ripetuto tutti i giorni dai prof
  • i ragazzi continuano verso la specialistica perchè non c'è lavoro, quindi tanto vale studiare
  • i ragazzi continuano verso la specialistica perchè PA, Ministeri, Parlamento ed Ordini hanno fatto tutto il possibile per limitare le possibilità lavorative dei triennali

E' un cane che si morde la coda. Ridicolo. E molto italiano.

Forse qualcuno non ha detto al Ministro, tra le altre cose, che:

  • i fuori corso non sono diminuiti perchè non sono cambiati i metodi di valutazione agli esami
  • i ragazzi continuano verso la specialistica perchè gli viene ripetuto tutti i giorni dai prof
  • i ragazzi continuano verso la specialistica perchè non c'è lavoro, quindi tanto vale studiare
  • i ragazzi continuano verso la specialistica perchè PA, Ministeri, Parlamento ed Ordini hanno fatto tutto il possibile per limitare le possibilità lavorative dei triennali

E' un cane che si morde la coda. Ridicolo. E molto italiano.

 

Right. Purtroppo questa cosa ridicola e molto italiana è il dibattito politico italiano sull'Università. E c'è chi ci scrive sopra e vende dei libri, il cui contributo alla soluzione dei veri problemi è pressoché nullo. Della serie: facciamoci ancora più male.

RR