Premessa. Da ben prima della campagna elettorale mi vado chiedendo cosa sarebbe bene, a mio immodesto avviso, che gli italiani facessero e, soprattutto, forzassero i loro governanti - le elites in genere - a fare. Mi uscivano sempre le stesse, intellettualmente noiose anche se sommamente pratiche, risposte. Mi son detto quindi: il problema è cognitivo. Io vedo l'Italia attraverso dei filtri, dei modi di pensiero che, evidentemente, non sono condivisi dai miei (ex) concittadini. Delle due l'una: o sono confuso io o lo sono loro. Sempre a causa della mia patologica immodestia - ma forse anche dei fatti e dei dati che il pragmatismo suggerisce consultare in tali circostanze - ho temporaneamente concluso che sto chiaramente meglio io e peggio loro (almeno in media, alcuni dicono che BS stia meglio di me ma a vederlo vivere non ho questa impressione). Questo implica, dunque, che se gli (ex) concittadini non vedono l'ovvio e non chiedono con forza alle loro elites di metterlo in pratica il tutto dev'essere attribuibile a qualche mito che loro occlude la visione dei fatti (in altre istanze ho anche suggerito, papagallando un maestro, il rumore come causa di tutti i fraintendimenti, ma tralasciamo l'ironia tecnocratica).
Nei miei solipsismi notturni, mentre la signora dorme ed il cane pure, mi son detto dunque: essi continuano ad interpretare i fatti, i dati, i tacchi, i dadi ed i datteri attraverso dei miti, delle mitologie, delle artificiali costruzioni della mente forse adeguate a rappresentare ed interpretare la realtà che prima era ma che ora, chiaramente, non è più. Se voglio dunque intendere perché gli (ex) concittadini non chiedano a gran voce l'ovvio, meglio mi sforzi d'intendere questi miti che a loro fanno vedere quello che io non vedo e che, ad immodesto avviso mio e modesto computo della statistica, non esiste proprio. Una disamina dei miti nazionali, forse adeguati ad interpretare e financo a costruire (perché, in vena di post-modernismi, anche io a volte pretendo che la realtà si costruisca attraverso categorie culturali, miti insomma) ciò che era ma ora non è più: un Bel Paese. Ma non più costruttivi, non più utili, anzi oggi dannosi: miti da buttare, appunto. Apparendomi questo paese non più tanto bello, ed apparendo esso ancora bellissimo a chi ivi vive, evidentemente la ragione deve risiedere in una dissonanza cognitiva o perlomeno culturale. Ecco quindi la decisione di riconsiderare, per parte mia, i miti loro (a loro, per carità, nessuno toglie il diritto di riconsiderare e decostruire i miei) per vedere se, magari, poi riesco a capire perché non chiedono si faccia quell'ovvio che a me sembra ovviamente da farsi. Una rivisitazione, se volete, delle microfoundations di tempo addietro, solo da un punto di vista meno episodico e, mi auguro, più sistematico. Che tutto questo serva a terzi, dubito alquanto; ma io scrivo soprattutto per spazzolare la mente mia dei miti suoi, questi puzzolenti parassiti (danke Palma, ottima l'idea dell'amico tuo ed ora collega mio: come vedi l'uso).
Decomposti i miti, forse troverò ragione per dedicarmi ai riti, quali i programmi di governo sono. Non nuovi (i miti ed i riti, dei programmi ancora non so) 'ché non è il caso di pretendere troppo in tempi di Krisis.
Le elites italiane si coagulano e definiscono attorno ad una serie di miti "nazional-popolari" che sono andate inventando da sessant'anni a questa parte e che hanno inculcato - attraverso strumenti ed istituzioni che pure varrebbe la pena discutere - nelle cosidette "masse popolari". Espressione, quest'ultima, comune nella parlata della casta italiana e sintomatica alquanto.
Di tali miti le popolari masse, forse a causa della crescente impopolarità della casta, sembrano aver cominciato a disfarsi con una certa inconsapevole leggerezza, e forse incoscienza - nel senso che alla gente di abbattere miti non frega nulla: lo fanno perché gli viene. Da qui, in parte, il famoso scollamento fra elites, specialmente quelle intellettuali e politiche, e popolo, cittadini, produttori. Loro la chiamano "crisi della politica", io suggerisco di rivisitarla in una chiave quasi post-moderna: lo sgretolamento d'una valanga di balle.
La supremazia della politica, ovvero il ritorno dello stato.
Alla radice di tutto siede la supremazia della politica su qualsiasi altra modalità di relazione umana o meccanismo di decisione e ripartizione delle risorse. La parola originale, e più frequentemente usata, credo sia "primato" e credo venga da Tronti e Cacciari, ma non sono in vena filologica stasera e me la ricordo anche in bocca di Aldo Moro per il quale voleva dire "mediazione oliata dal pubblico denaro", insomma geometrie dell'orrore tipo le convergenze parallele a causa delle quali l'universo potrebbe scomparire. Il suo alfiere, in tempi relativamente recenti, è stato il Massimo D'Alema, sulle labbra del quale l'affermazione andava intesa nel senso di "primato mio"; ne abbiamo visto i luminosi risultati per quasi quarant'anni e, in particolare, nei due anni in cui ha fatto da Primo Ministro. Ma l'illustre D'Alema non era e non è l'unico depositario del primato: esso compariva sulle labbra di Craxi ogni volta che lo beccavano a rubarsi qualche azienda nazionale, o su quelle di Andreotti quando i magistrati portavano evidenza delle sue frequentazoni mafiose, o su quelle di Berlusconi quando cambiava la legislazione fiscale e sui bilanci societari per rimanere fuori dalla galera, o su quelle di Mastella o di qualsiasi altro figuro della medesima risma quando le intercettazioni telefoniche rivelavano un qualche loro losco affare, o di Fassino e D'Alema di nuovo quando li pizzicavano a fare telefonate assicurative. Il primato della politica è l'assioma fondamentale su cui la casta si regge: senza di esso la giustificazione degli assurdi privilegi ad essa concessi non si può nemmeno tentare. Se la politica ha il primato - ovvero la supremazia sulla società civile ed economica e sugli individui - allora i privilegi sono giustificati in quanto costi di produzione del bene pubblico "politica".
L'origine è chiara: il potere arbitrario di principi e signorotti medievali ha sempre goduto di grande ammirazione nel nostro paese, mischiato ad una pseudo-scienza macchiavellica della politica intesa come "arte dell'arrangiarsi", del rimanere in sella, del lisciare ed oliare la corporazione che, nel momento dato, risulta fare da pivot. Negli ultimi anni la cosa ha raggiunto livelli parossistici: per qualsiasi problema si cerca una soluzione politica e si chiede al politico di turno di trovare la soluzione, normalmente attraverso qualche spesa aggiuntiva, esenzione, prebenda, pensione o facilitazione fiscale. L'intera nazione vive da due decenni nell'illusione che vi sia una soluzione "politica", ossia indolore, della crisi nella quale si dibatte: che il reddito di tutti, o della stragrande maggioranza, possa ricominciare a crescere come negli anni 50-70 attraverso una redistribuzione del reddito degli "altri". Che il degrado culturale ed educativo sia arrestabile e reversibile attraverso un re-arrangiamento dei nomi dei corsi e dei titoli. Che il degrado civile e la crescita dell'insicurezza si risolvano attraverso interventi di tipo "politico", ossia che non puniscono nessuno, anzi: indultando. L'idea è che, quando il primato della politica si realizza, i vincoli di bilancio e financo materiali non diventano solo soffici ma, letteralmente, evaporano e tutti riescono a realizzare il sogno italiano: la moglie ubriaca a la botte piena.
Nella sua versione più recente il mito della supremazia della politica è, ovviamente, incarnato dal commercialista di Sondrio. Da alcuni anni, in un linguaggio vieppiù oscuro e lacaniano (che forse crede degno del College, ma transeat) egli predica all'incazzato popolo lavoratore del Nord che l'antidoto per la spoliazione fiscale di cui è vittima, per l'inefficienza dei servizi pubblici, per la paralisi amministativa e decisionale, per il degrado della sua competitività economica sullo scenario internazionale, può fornirlo solo la politica: il ritorno dello stato, del grande stato (comunitario, ovviamente, e tutto il resto, altrimenti Formigoni non ci sta). Abbiamo scoperto recentemente che il ritorno dello stato richiede, oltre a dei dazi (che sarebbero il meno, in quanto impossibili) anche delle nuove nazionalizzazioni, di cui Alitalia è evidentemente il banco di prova, e dei nuovi "aiuti pubblici", il finanziamento dei quali sarà possibile grazie all'assunzione al cielo del vincolo di bilancio. Cos'altro vi sia da statalizzare in una nazione dove anche i cantieri navali e gli stabilimenti balneari già sono statali, non è dato sapere. Forse gli studi commerciali e notarili ...
Oso predire che, nella sua re-incarnazione "colbertista", la supremazia della politica avrà gambe ancor più corte di quanto non abbia avuto anteriormente nelle sue versioni catto-comuniste. I problemi dei produttori del Nord (ma anche del Centro e, seppur rari ma pregevoli, del Sud) sono tutti materialmente "mercatisti", in quanto determinati da sempre più stringenti vincoli di bilancio i quali, piaccia o meno, non percepiscono l'impatto di tiritere roman-lacaniane. Poiché la borsa è oramai vuota e la vacca stremata dal troppo mungere attendo, con quasi ammirante curiosità, la nuova sequenza di trucchi del commercialista da Sondrio. Passati i quali il primato della politica apparirà, ancora una volta, per quello che è: la copertura ideologica d'una casta incompetente, oltre che vorace.
La centralità ed essenzialità del sindacato.
Un sindacato in realtà tentacolare, perché oltre a CGIL-CISL-UIL abbiamo Confindustria, Confcommercio, Confartigianato ed i mille ordini di questo e quello. Come il primato della politica, eredità anch'esse medievali le nostre sindacal-corporazioni, per quanto molti pensino sia una scoperta del movimento operaio e socialista (e cattolico, scusate). Trattasi di corporazioni professionali la cui funzione storica è da sempre stata l'implementazione del detto "chi è dentro è dentro e chi è fuori s'arrangi". Un detto, peraltro, utile o perlomeno non dannoso in tempi di scarso cambiamento tecnologico all'esterno delle frontiere e di grande abbondanza di fattori produttivi inutilizzati all'interno delle medesime; come furono gli anni dal 1946 al 1966. Poiché allora quasi tutti erano dentro o potevano esservi ammessi, poiché c'era spazio per accumulare beni capitali uno uguale all'altro ed importati da fuori, e v'era abbondante ed omogeneo lavoro da assorbire dentro, le corporazioni, ognuna manovrando il proprio fattore produttivo, non producevano la paralisi che dopo venne, ma quasi cooperavano ad una crescita che fu vera anche se malnata. Salvo poi legnarsi selvaggiamente tra il 1966 ed il 1976, quando l'accumulazione di K e l'assorbimento di L erano terminati proprio quando qualche marocchino decise d'alzare repentinamente il prezzo di E. Da allora in poi la centralità sindacale e l'associato meccanismo detto della "concertazione" (traduzione: la camera delle elites delle corporazioni, in cui ogni corporazione è rappresentata da pochi autoproclamati lobbisti che condividono con la casta il primato della politica) hanno prodotto redistribuzione distruttiva per circa quindici anni e paralisi degradante per i seguenti, sino alla condizione attuale di un sistema economico incartato ed incapace di crescere.
In cosa consistono la centralità sindacale ed il metodo della concertazione? Nell'applicazione più ferrea del modello superfisso: le risorse sono date, il prodotto nazionale pure ed altrettanto lo sono le tecniche ed i metodi di produzione. Si tratta di ripartirli fra le parti interessate (dove "interessate" va inteso nella doppia e cinica accezione) fregandosene nella maniera più suprema sia di chi parte interessata non è (ossia non è dentro, ma fuori dalla camera delle corporazioni) sia del non banale fatto che il prodotto nazionale non è un dato ma va prodotto ed i modi e le forme in cui produrlo se le inventano i singoli produttori, non i rappresentanti delle corporazioni medievali. Costoro, avendo ben inteso che così è, hanno da almeno due decenni un'unico ed ossessivo proposito: sopravvivere sino alla pensione, occupare una sedia, ricevere una prebenda di stato sotto forma di ente da gestire o patrimonio da amministrare. A casa, ossia a casa degli interessati che sono dentro alle corporazioni, portano sempre meno perché sempre meno c'è da spartire. Da cui le tensioni evidenti, lo sfilacciamento della base sindacale non solo della triplice ma anche confindustriale: se nemmeno chi è dentro ci guadagna, allora a che serve essere dentro? Da cui, anche, l'incazzatura generalizzata che sembra percorrere il paese ed il Nord in particolare: se il sindacato non porta a casa nulla, e Confindustria nemmeno, mentre la casta continua imperterrita a tassare e scialare, io che ho sempre creduto che lì (nella sacra concertazione di quelle tre parti che guarda caso sembrano une e trine) lì stesse la soluzione di tutto, io dove cazzo sbatto la testa?
Ammetto che l'impressione di progressivo sfaldamento che viene sia dalla triplice che dalla Confindustria non viene, con altrettanta chiarezza, dalle altre e svariate "Conf-qualcosa", o dagli ordini. Questi resistono all'assalto che viene sempre più forte e dall'esterno. Da quelli che sono fuori e vogliono venire dentro. Resistono, e questo mi sorprende non poco: evidentemente del grasso che cola da qualche parte ancora deve esserci altrimenti la capacità di corporazioni impazzite ed altamente improduttive, come giornalisti e taxisti per non parlare dei semprelodati notari, di resistere ed erigersi a vittime, come ve la spiegate? Oddio, aspetta: non tutti i sindacati son nati uguali. Le Conf-qualcosa e gli ordini, in effetti, sono molto più astuti ed efficaci (oserei dire anche meno socialmente dannosi, ma non m'arrischio che non ho fatto i conti) degli altri quattro. Fondamentalmente perché occupano interstizi di potere e di rent-seeking, ma non paralizzano necessariamente produzione ed innovazione tanto quanto gli altri. Per questo, credo, meglio resistono alla krisis generalizzata. O forse perché più forte è lo spirito identitario: gli avvocati sempre quelli sono ed in un paese che non cambia nei suoi non-tradeables fanno anche sempre le cose di prima. Nell'industria, invece, specialmente quella dei tradeables, lo spirito identitario è saldato da almeno due decenni se non tre.
Fermiamoci qui. Che, fra i due di stasera, un mito regga l'altro non ci piove. Agli ex-concittadini entrambi sembrano entità divine e necessarie alla vita: fonte di tutte le disgrazie ma anche di tutte le soluzioni. Ecco, in questo rapporto sado-masochistico con la politica e la concertazione sindacale sta una delle piaghe d'Italia. Viste da qui sembrano orrende figure di paglia che il vento potrebbe portarsi via ogni momento. Visti da Marcon o da Vigevano, probabilmente, essi, partiti e sindacati, appaiono l'unica ancora a cui aggrapparsi in un oceano ribollente di cinesi e rumeni. Che differenza fanno i punti di vista, no? A volte creano dei miti.
Ce ne sono tanti altri di miti, signor Boldrin, ma stupisce che non venga considerato innanzitutto il mito dei miti, la madre di tutti i miti, quello fondativo. Cioè quello della resistenza che ha sconfitto il fascismo (mentre la V* armata Americana faceva i picnic sui prati evidentemente) e quello conseguente della Repubblica antifascista, la cui Costituzione mette chiare le premesse alle conseguenze stataliste (e ci è andata pure bene grazie alla vituperata DC, allo zio d'America e a "San" Yalta, con quel PCI che ci ritrovavamo). La stortura, che è culturale innanzitutto, nasce da là.
Anch'io mi fermo qui. Meglio parlare di Tremonti e di new-colbertismo, fa indubbiamente più fino.
Signor "cumino", lei ha un brutto vizio, anzi due.
Tira il sasso, anzi il veleno, e poi ritrae il braccio. La qual cosa, oltre ad essere in media una vigliaccata, non serve neanche a molto. Ha qualcosa di intelligente da dire? Lo dica.
E lo firmi, anche. O non sarà il fatto che lei non firma le sue incursioni un segno della sua tempra?
P.S. La cosa ironica è che la costituzione è uno dei miti nella lista, assieme a quello degli eroici tempi fascisti ovviamente. Perché anche quelli sono una balla, ossia un mito per gente intellettualmente debole ed anche un po' acida.
P.P.S. Ma cos'è un vizio nazionale? Battute scritte in fretta, senza un minimo di articolazione logica e poi via ad altra faccenda? Non so su cosa si fondi lo "stato" italiano, "johnnydatadinascita". Ad occhio e croce, in quanto stato, si fonda su casa savoia, garibaldi, mazzini e la protezione militare francese. Almeno così insegnavano a scuola ... Non sono proprio certo che uno stato debba "fondarsi": a volte semplicemente accade e poi continua ad essere, magari evolvendosi, peggio o meglio dipende. Ad ogni modo, faccio anche io le domande: che dice l'antropologia al riguardo? Che lo stato italiano e' stato fondato da Enrico Mattei?
in che senso la Repubblica non è fondata sulla resistenza?
per caso la V armata ha scritto o influenzato la costituzione?
per caso la Francia trova i suoi fondamenti nella Big Red One?
che la repubblica si fondi sulla resistenza - attraverso il CLN se vogliamo dirla tutta e per prevenire eventuali obiezioni - è un dato di fatto e che da li sia nata la costituzione pure.
francamente a questo punto invito l'autore del post a indicarmi una bibliografia ragionata a sostegno della sua affermazione. inutile ribaltare la richiesta. sarebbe indice di idiozia e follia ideologica.
detto questo invito ancora l'autore a distinguere tra desiderata, chiacchere da bar(accone) e storia fatta dagli storici.
Me che scemenze si inventa Sig. Cumino?
La resistenza, che fu fenomeno perfettamente reale e assai minoritario, fornì in pratica, quasi direttamente da CLNAI, il ceto politico della transizione dalla monarchia alla repubblica.
D'altronde chi altro c'era? McArthur era occupato (ogni tanto legge qualche libro di storia o solo le opere complete di Walt Disney?), il papa era scemo (mancò di originalità in quel rispetto), il monarca e la dinastia dei cagoia (non solo assai squalificata dall'eccesso di fellazioni praticate al maestro di Predappio, ma pure pochettino credibile dopo aver mandato la gente a morire in Libia o a Kursk) ebbe poi (il re fellone) la faccia di dare l'ordine di non dare ordini agli ufficiali....
ERGO chi rimase, se non l'antifascismo?
Ebbene sì: avevano i loro limiti, i Nenni, i Terracini, i Dossetti, De Gasperi, Taviani, Amendola e Togliatti-- ha il sottoscritto nessun dubbio in merito.
Ma il "mito" dove sta?