Modificare le preferenze del popolo? No grazie

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Alle giornate nFA ho reagito in modo assai deciso alla menzione, da parte di Andrea Ichino, di possibili politiche il cui obiettivo sarebbe di modificare le preferenze del "popolo" nei confronti delle donne.

Ora è venuto il momento di argomentare la mia posizione. Per farlo, devo/voglio annoiare il lettore con tutta una serie di concetti e argomenti che renderò a mezzo di esempi ma che in economia sono definizioni e teoremi matematici.

[16 Luglio: Andrea Ichino ha gentilmente scritto una risposta, che aggiungiamo in fondo al post; ndr]

Una serie di premesse innanzitutto: Il mio ragionamento è un ragionamento strettamente da economista - tanto molti dei lettori di questo blog o lo sono o lo sono diventati (come Axel). Naturalmente ci sono alcuni economisti che non ragionano così e altri che addirittura non ragionano - come abbiamo imparato leggendo la Lettera degli Economisti. Nello stesso tempo non scrivo per economisti accademici - questi ultimi mi perdoneranno le necessarie imprecisioni (e magari anche qualche imprecisione non propriamente necessaria).

Cominciamo con il definire le preferenze: Per sistema di preferenze intendiamo un ordine (un ranking) tra gli elementi di un insieme di scelte possibili. Ad esempio, un individuo che deve dipingere i muri di casa propria ha un sistema di preferenze se sa mettere in ordine i colori: giallo meglio di rosso meglio di verde uguale a marrone, meglio di viola.... (si noti che l'ordine permette di essere indifferenti rispetto a due colori - qui lo dico e qui lo dimentico perché rende il tutto più complicato senza cambiare nulla nella sostanza).

La definizione implicitamente assume che un sistema di preferenze soddisfi una forma di razionalità - in particolare che l'individuo non si trovi mai nella situazione di non essere in grado di comparare, per esempio, giallo e verde (può essere indifferente, ma non può essere non-in-grado-di-decidere); e che l'individuo per cui giallo è meglio di rosso e rosso è meglio di verde sia sempre concorde che giallo è meglio di verde (altrimenti addio ordine, anche se, per i più sofisticati, qualcosa si può fare di ragionevole anche senza questo assioma che chiamiamo "transitività"). La forma di razionalità richiesta pare debole, e in un certo senso lo è; ma per insiemi complessi di scelte possibili lo è molto meno; discuterò di seguito il caso in cui gli individui siano meno che razionali.

Un sistema di preferenze implica tautologicamente (sottolineo tautologicamente) un meccanismo di scelta dell'individuo.  Nell'esempio, l'individuo dipingerà la sua casa di giallo. E se giallo non fosse disponibile, la farà rossa.

Cosa fa quindi un microeconomista - uno di quegli economisti che studiano le scelte degli individui - nel caso più semplice? Fa un giochino semplicissimo: prende per dato (esogeno) un sistema di preferenze e studia come varia la scelta dell'individuo al variare dell'insieme di scelte possibili. Naturalmente, questo giochino non è sempre così semplice come nell'esempio - e c'è addirittura gente che viene pagata profumatamente ad esempio a Wall Street per risolvere versioni complesse del giochino in questione - ma concettualmente questo è.

Su questo giochino - ma chiamiamolo schema che fa più sofisticato - è costruita la microeconomia classica, da Alfred Marshall in poi (anche prima in realtà, ma questo è irrilevante rispetto alla presente discussione e ci porterebbe lontano).

Le preferenze sono date (esogene), ma questo non implica che non ci si possa ad esempio chiedere cosa sceglierebbe l'individuo se avesse un sistema diverso di preferenze.  E lo si fa, eccome - ma le preferenze restano esogene rispetto alla scelta che l'agente fa. Insomma, gli agenti non si scelgono le loro preferenze, esse sono quel che sono. Meglio ancora: un agente e' identificato con un certo sistema di preferenze.

Le questioni positive in economia, ad esempio quali siano gli effetti di una politica economica sul Pil o sull'inflazione sono analizzate, solitamente, per-date-preferenze.

Lo stesso è per le questioni normative, ad esempio se una politica economica sia meglio di un'altra.

È così dai tempi dei classici. Le analisi normative in economia si fanno senza imporre un sistema di preferenze al "popolo", postulando invece che il "popolo" sia costituito da individui ognuno col suo proprio sistema di preferenze, esogeno rispetto al pianificatore o chi per lui. Come economisti accettiamo addirittura enormi limiti alla nostra capacità di confrontare situazioni e politiche in termini di benessere sociale, pur di non essere costretti a definire noi un sistema di preferenze sociali e pur di evitare di comparare le preferenze di diversi individui.

Si chiama Principio di Pareto e implica analisi normative deboli: in sostanza, la maggior parte delle volte, alla domanda se una politica economica sia meglio di un'altra non possiamo rispondere - alcuni perdono, altri guadagnano e le preferenze di diversi individui non si confrontano. [Poi anche gli economisti barano ogni tanto; assumendo ad esempio che tutti gli individui abbiano le stesse identiche preferenze - così che aggregare preferenze diventa facile - molto facile. Potrei lanciarmi in una difesa anche di questa pratica, ma lascio stare per rispetto del lettore che a questo punto sarà già distrutto dalla noia]

Questa ossessione che gli economisti hanno sulle preferenze individuali viene da lontano. L'idea che l'analisi di fenomeni aggregati debba essere costruita a partire dalle scelte degli individui singoli che dell'aggregato fanno parte (in un certo contesto tecno-istituzionale, chiaramente) e quindi in un certo senso dalle loro preferenze, si chiama individualismo metodologico ed è ciò che ci distingue originariamente dai sociologi (a chi è venuto da dire "ci distingue dalle scimmie", spetta una punizione - rileggere l'opera omnia di Emile Durkheim da cima a fondo - in francese!).

In prima approssimazione, questa è una posizione metodologica più che accettabile, ma soprattutto assolutamente centrale all'economia:

no methodological individualism, no economics as we know it.

Questo non significa naturalmente che non si possano studiare fenomeni economici o sociali altrimenti; alcuni lo fanno; così come molti sociologi e scienziati della politica aderiscono all'individualismo metodologico - le distinzioni tra le varie scienze sociali si sono fatte fortunatamente un po' confuse.

Ma quello che mi importa notare è che dal mettere l'individuo sul piedistallo metodologico dell'analisi economica positiva ad analisi normative deboli a' la Pareto, il passo è piccolo. Passo piccolo ma assolutamente fondamentale. Se in questo blog si potesse speculare senza ben sapere quello che si dice direi che questo passo, da un punto di vista etico, conferisce all'economia un grande vantaggio: un sana barriera alla giustificazione intellettuale di qualsivoglia totalitarismo. Non mi addentro nella questione filosofica non perché la questione sia fuori tema o poco rilevante ma perché non-sono-preparato-signora-professoressa. Mi limiterò quindi a scorrere rapidamente e superficialmente esempi di istituzioni storiche che si sono poste come obiettivo di cambiare il sistema di preferenze del "popolo" e cose così.

Esempio 1. I totalitarismi duri e puri e l'uomo nuovo di Lenin e Hitler; per non parlare della Cina maoista, per cui il termine "lavaggio del cervello" è stato introdotto (da un agente della CIA, ok; i dubbiosi si vadano a leggere una qualunque storia della Rivoluzione Culturale - il link è a wikipedia in inglese perché la voce Grande Rivoluzione Culturale in italiano ha poco o nulla - gli italiani preferiscono non ricordare).

Esempio 2. Le sette religiose (incluse quelle che convincono i membri a bere il kool aid in gruppo o a legarsi una bomba all'ombelico), la CIA e MKULTRA, il KGB, .... Io ho trovato divertente - con tanti esempi - il libro di Stefano Re dal bel titolo: Mindfucking.

Esempio 3. Le grandi multinazionali attraverso la pubblicità, come denunciano generazioni di marxisti e di loro figliocci post-moderni, da Paul Baran e Paul Sweezy a David Harvey, rispettivamente.

Il punto è semplice e diretto: tipicamente chi si è posto come obiettivo di cambiare il sistema di preferenze del "popolo", nella storia e nella pratica, non va in paradiso - Hitler, la CIA, le grandi multinazionali cattive,.... I rest my case.

Sto un po' barando. Ci sono esempi di manipolatori buoni delle preferenze: i genitori che educano i figli a qualsivoglia sistema di valori etici (ok, non proprio qualsivoglia); e quelli che paternalisticamente aiutano i poveri di spirito, i duri di comprendonio, gli individui emotivi o men che razionali. E infatti questi sono i casi tipici in cui gli economisti hanno affrontato la questione di come definire sistemi di preferenze appropriati che permettano un'analisi coerente. Ma lo hanno fatto con grande delicatezza, sapendo di entrare in un negozio di vetri e specchi, attenti a non rompere nulla. Ad esempio, cercando di definire metodi per rivelare un sistema di meta-preferenze che rimane invariato al variare delle preferenze di ordine inferiore.

Qui le cose si fanno parecchio delicate e una discussione ci porterebbe davvero lontano senza cambiare il punto: quello di modificare le preferenze del popolo è un sistema di questioni che gli economisti si pongono a fatica e per buone ragioni. Anche quegli economisti che vorrebbero farlo, quelli che vedono poveri di spirito men che razionali dappertutto, si trattengono e ci vanno piano, suggerendo di tanto in tanto una bottarella (nudge) invece che non un piano di conversione di massa alla razionalità. E, importante: le bottarelle sarebbero comunque da darsi alle scelte degli individui, non alle loro preferenze, per quanto pervase da sentimenti, emozioni, forme di irrazionalità ... In ogni caso, quello che penso sull'economia comportamentale, che supporta teoricamente le bottarelle, l'ho già detto su nFA.

Insomma, gli economisti, nello loro qualità di economisti, preferiscono non toccare le preferenze individuali (gioco di parole voluto), preferiscono considerarle come date (esogene). Questo permette loro di evitare di specificare un sistema di preferenze sociale. Gli estremisti monetaristi come me pensano addirittura che questa pratica sia una difesa intellettuale da molti mali assoluti, dal totalitarismo al capitalismo monopolistico.

Tutto ciò  non significa, si badi bene, che l'economia non possa produrre argomenti riguardanti attitudini culturali e fenomeni tipo il razzismo o gli stereotipi sulle donne ed analizzarli dal punto di vista normativo.  Un esempio servirà a chiarire.

Norme sociali. Supponiamo che il sistema di preferenze degli individui sia affetto da conformismo; l'individuo che deve dipingere i muri di casa propria, ad esempio, ha un sistema di preferenze rappresentato dal seguente ordine (ranking): giallo-se-la-casa-del-sindaco-è-gialla meglio di rosso-se-la-casa-del-sindaco-è-rossa meglio di giallo-se-la-casa-del-sindaco-è-rossa... Con sistemi di preferenze di questo tipo si possono facilmente avere situazioni in cui tutte le case del paese sono rosse ma sarebbe stato meglio per tutti se fossero state gialle. Nel caso che discuteva Andrea Ichino a Firenze, sarebbe possibile una società in cui tutte le mogli restano in casa a fare le domestiche per i mariti nonostante sia meglio per tutti (mariti e mogli) che le mogli vadano a lavorare. Naturalmente questa è solo una possibilità teorica: osservare una società in cui le mogli stanno a casa non significa che questo sia il caso. La teoria rimanda ai dati (e probabilmente i dati alla teoria un'altra volta...e così via).

Si noti che l'argomento non necessita di nessun sistema di preferenze sociali - non richiede che l'economista, il pianificatore, o chi per loro dica: tutta sta gente che vuole che le donne stiano a casa, maschilisti idioti, non sanno quello che pensano; mandiamoli ad una bella scuola dove li convincono che le donne sono uguali agli uomini.

Detto tra noi, si può fare di meglio per capire come e quanto le attitudini culturali nei confronti delle donne/mogli influenzino la struttura della società e per identificare le ragioni per cui alcune di queste attitudini risultino inefficienti, nel senso che riducono il benessere sociale. Due sole parole: statistical discrimination.

Tutto questo senza cambiare le preferenze del "popolo". Per questo la mia reazione, che ha irritato Andrea Ichino. Se tutte le volte che dico qualcosa che irrita qualcuno mi toccasse scrivere un trattato per giustificarmi ... sarei molto produttivo! Ma  Andrea è un amico. E i lettori di nFA sono abituati a pistolotti e trattati noiosi.

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'<h' . (('2') + 1) . '>'Risposta di Andrea Ichino, 16 Luglio:'</h' . (('2') + 1) . '>'

Ringrazio Alberto per aver commentato il nostro scambio nell'incontro di Firenze. Il suo intervento a villa la Pietra non mi ha affatto irritato, anzi ha proprio colto nel segno delle riflessioni che volevo suscitare. Quanto alla veemenza delle mie risposte dipende solo dal fatto che mi piace partecipare con calore alle discussioni.

Evidentemente non mi sono espresso bene nel mio intervento (e sotto questo profilo forse non aiuta, per mia incapacita', il formato di questi incontri a meta' tra la discussione formale che sarebbe necessaria per essere veramente chiari, e l'opera di divulgazione alta che è forse l'obiettivo primario degli incontri)

Aggiungo inoltre, a mia colpa, che il filone di ricerche che ho presentato mi ha portato in aree di riflessione teorica che non sono veramente di mia competenza, essendo io persona che sa a malapena maneggiare dati.

Detto questo vorrei tentare chiarire il mio intervento a Firenze, se interessa ai lettori di questo blog, con le seguenti affermazioni.

1) Non è facile generare un modello che in equilibrio presenti differenze di genere "sistematiche"  (ossia tutte in un senso solo) partendo dall'ipotesi che donne e uomini siano "identici" se osservati a qualche baseline iniziale (big bang).

2) Posto quindi che un granello di differenza da qualche parte si debba mettere, non e' irrilevante chiedersi  che cosa questo granello sia (skills biologiche? preferenze?  accidenti della storia? altro?). 

3) Capire cosa questo granello di differenze alla baseline sia, è rilevante per valutare l'eventuale inefficienza dell'equlibrio osservato. So che Andrea Moro ha mostrato come modelli di statistical discrimination possano essere inefficienti. Ma la mia modesta esperienza di lavoro teorico in questo campo, si e' scontrata con la difficolta' di arrivare a equilibri inefficienti, se veramente consideriamo con attenzione che cosa ha generato la statistical discrimination a partire dala baseline e se vogliamo che i modelli producano  sistematicamente discrimination in un senso solo. 

4) È possibile (e sto lavorando alla verifica empirica di questa ipotesi) che le differenze di genere che osserviamo (almeno in Italia) corrispondano alle preferenze di donne e uomini e che, date queste preferenze, l'equilibrio sia efficiente.

5) Analogamente, è possibile che le differenze di genere in Afghanistan o Arabia Saudita corrispondano alle preferenze e che quindi vada tutto bene cosi' anche in quei paesi.

6) Se questo e' vero dobbiamo chiedereci perche' NFA (e non solo ovviamente) fa un incontro sulle differenze di genere. Se sono efficienti,  va bene cosi' e occupiamoci d'altro.

7) Esiste pero' la possibilita' che le preferenze evolvano nel tempo e si concretizzino in un dato istante per l'effetto di una evoluzione storica che non e' l'unica possibile. Suggerivo quindi la possibilita' che anche nel caso in cui l'equilibrio osservato sia efficiente date le preferenze osservate oggi, possa aver senso chiedersi cosa sarebbe accaduto con una evoluzione diversa delle preferenze (Come sarebbe la situazione delle differenze di genere in afghanistan se Maometto non fosse nato?).  

8) Il paper di Alessandra Fogli e Laura Weldkamp su Nature and Nurture (quasi forthcoming su econometrica), suggerisce ad esempio (se lo ho capito bene) che imperfezioni di tipo informativo (incertezza e scarsa conoscenza su cosa succeda ai figli se la mamma lavora) facciano si che le donne "preferiscano" non lavorare', anche se sarebbe efficiente che lo facessero.  Un intervento di policy che induca le donne a lavorare, farebbe lavorare piu' mamme e mostrerebbe che il lavoro delle mamme non presenta rischi per i figli. Questo modificherebbe  le preferenze e indurrebbe un equilibrio diverso, piu' efficiente nel paper di weldkamp e Fogli.  Come diceva Alessandra, dopo la conferenza, il suo paper puo' essere visto proprio come una modificazione delle preferenze.

9) Sono il primo a rendermi conto della pericolosita' di ragionamenti di questo tipo anche senza scomodare gli esempi di Alberto (hitler, lenin, chiesa cattolica etc ...). Pero' rimane il fatto che le preferenze non sono date e immutabili, ma sono esse stesse endogene al processo di evoluzione storica che le ha formate. E non capisco cosa ci sia di sbagliato nel chiedersi che cosa sarebbe accaduto con una evoluzione diversa, e quindi che cosa accadrebbe in futuro intervenendo sul processo di formazione delle preferenze.


10) Infine, fare policy significa cercare di cambiare gli equilibri osservati quando sono inefficienti.  lo si puo' fare cambiando i vincoli date le preferenze, ma risultati simili si possono ottenere anche cambiando le preferenze a parita' di vincoli. A priori non vedo perche' un metodo sia moralmente preferibile all'altro.

Ma non e' davvero il mio terreno e quindi mi fermo qui e lascio a chi ne sa piu' di me di ragionarci sopra.

Grazie per l'ospitalita'.

ciao andrea

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Commenti

Ci sono 136 commenti

tu stai solo argomentando, sulla base di una posizione dogmatica ma decisamente prevalente in economics, riguardo a come secondo te andrebbe fatta ricerca sociale, e con quali limiti.

non è chiaro come questo possa costituire un argomento contro l'idea che la POLITICA (e non si parla di un gruppo di persone sedute dietro cattedre di economia) debba proporsi(o meno) come obiettivo di modificare le preferenze individuali.

non si capisce perchè, per esempio, i proprietari dei mezzi di comunicazione debbano avere maggiore libertà di provare(!) a cambiare le preferenze altrui, di un governo. perchè è ovvio che le preferenze sono in continuo cambiamento. non quelle basics of course (vedi sessualità), ma quelle di cui discuti tu, del tipo se imitare il sindaco o meno.

Credo che Alberto abbia argomentato su questo piano perche' Ichino e' economista.

Ricordo bene l' episodio: dopo una serie di analisi e commenti sulle preferenze sottostanti se ne e' uscito con una frae tipo: "come le cambiamo queste preferenze?", e quasi tutti i presenti si son chiesti "e PERCHE' dovremmo cambiarle???" non tanto per le  ragioni espresse da Alberto sopra, ma perche' l' idea che lo stato intervenga per cabiarle ci faceva venire l' orticaria, puzza di paternalismo e pure di totalitarismo.

 

non si capisce perchè, per esempio, i proprietari dei mezzi di comunicazione debbano avere maggiore libertà di provare(!) a cambiare le preferenze altrui

 

Per il semplice motivo che non dispongono di mezzi coercitivi.Non credo che nessuno abbia da ridire quando lo stato prova a cambiare le preferenze dei cittadini con la "Pubblicita' progresso" (magari dissento sul contenuto, ma non ho nulla contro il metodo).Quando si passa a campagne di informazione nelle scuole comincio ad inarcare un sopracciglio, se poi andiamo su obblighi legali sono totalmente contrario.

Tanto piu che poi si finisce per fare scelte ampiamente discutibili: per ridurre l'handicap delle donne manager si detassano? Finisce che una quota se la paga l'operaio con figli e moglie casalinga, o magari il padre single (saran pochi, ma perche' tassarli?).

Marcello ha ragione. Io sono scattato non perche' nessuno possa pensare di "modificare le preferenze", ma perche' gli economisti non lo fanno. E hai ragione, e' proprio una posizione dogmatica - che naturalmente potrei difendere - ma non e' questo l'obiettivo: si puo' discutere se "il popolo" debba poter abortire, ma i cattolici no, se anche loro lo fanno....!

Alberto c'e' un'altra questione che mi e' venuta in mente mentre ascoltavo il botta e risposta tra te e Ichino. Una questione meno fondamentale rispetto alla esogeneita' delle preferenze ma che secondo me dovrebbe essere il primo punto di ogni presentazione sul tema "come maschi e femmine allocano il loro tempo, perche' e che fare (policy)".
non so se ne avete parlato e io me lo sono perso; in tal caso mi faresti sapere cosa si e' detto?

quella mattina (o pomeriggio) sia Ichino, sia Profeta sia il pubblico (perche' la domanda non e' stata sollevata, almeno nei video che ho guardato io) si diceva: le donne lavorano di meno; dipende dai prezzi? dipende dalla cultura (preferences)? come facciamo a far lavorare le donne di piu'? cambiamo i relative prices o cambiamo la cultura?

ora a parte che sono d'accordo con te sull'esogeneita' delle preferenze, anche se fosse solo un problema di prezzi e il comportamento fosse ottimale dati i prezzi per quale motivo vorremmo alterare i prezzi in modo da indurre le donne a lavorare di piu'? in altre parole, quale e' la optimal supply of labor delle donne?

io non capisco perche' si dica: il sistema fiscale attuale fa lavorare le donne poco; dobbiamo cambiare il sistema fiscale per farle lavorare (sul mercato) di piu'. E scusate chi lo dice che invece non dobbiamo modificare il sistema fiscale in modo da farle lavorare (sul mercato) di meno? Chi ce lo dice che il modello americano della donna che lavora e' meglio del modello italiano della donna che sta a casa?

Come minimo quello che si dovrebbe fare e' un modello senza distorsioni (fiscali o altre) e vedere le scelte ottimali in termini di family formation e division of labor within the family. Visto che questo modello e' privo di distorsioni lo usiamo come benchmark. Poi sperimentiamo con i diversi sistemi fiscali (tasse uguali e individuali per uomini e donne; tasse diverse e individuali per uomini e donne; tasse sulla famiglia piuttosto che separate per gli individui etc), vedere come le scelte ottimali di family formation, division of labor within family e time spent in the market/home cambiano e misurarne il costo/beneficio in termini di life-time utility.

l'ipotesi implicita di chi dice che bisogna modificare i prezzi relativi (o addirittura le preferenze) per far lavorare le donne di piu' e' che le donne stiano lavorando poco rispetto a quello che farebbero in un mondo senza distorsioni fiscali; oppure stiamo cercando di massimizzare il gdp ma non l'utilita' e a questo punto non so piu'...

non conosco la letteratura sul tema; magari hanno fatto mille paper con questo tipo di ragionamento ma da economista quando mi si inizia a dire che qualcuno fa qualcosa poco io penso sempre "poco rispetto a cosa?"; non ho visto un dibattito su questo punto ma mi sembra cosi' importante che ho deciso di proporlo anche se sono un po' fuori tema... spero non me ne vorrete...

 

Io sono convinto che abbiano in mente un modello con multiple equilibria di statistical discrimination come quello che menzionava alberto. In quel caso, pensano non a "cambiare le preferenze", ma a cambiare l'equilibrio.

Andrea (Asoni), ovviamente il tuo e' il modo in cui anche io porrei la questione. Pero', una volta fatto io credo che ci siano ottimi motivi per argomentare che l'offerta di lavoro femminile in Italia sia subottimale, dalla discriminazione e statistica a coordination problems (temporanei, gia' il mercato li sta risolvendo ma lentamente) che riducano l'offerta di servizi alle donne che lavorano.

Non ho evidenza, ma se non c'e' ci dovrebbe essere. I metodi statistici per farlo ci sono. Poi io mi fermo li', non so se ci sono abbastanza dati.

 

Premetto che non ero presente alle giornate nFa... anche perchè non sono un economista. E che non riesco a tenere in mente tutto il pistolotto scritto di Bisin
Però nel ragionamento di Andrea Bisin, non è tenuta in considerazione il teorema di Arrow o meglio il paradosso di Amartya Sen. Riporto pari pari da Wikipedia:

Prendendo spunto dal teorema di Arrow, Sen dimostra che, in uno stato che voglia far rispettare contemporaneamente efficienza paretiana e libertà possono crearsi delle situazioni in cui al più un individuo ha garanzia dei suoi diritti. Egli dimostra dunque matematicamente l'impossibilità che può esistere tra il concetto di ottimo di Vilfredo Pareto, basato sull'efficienza, e il liberalismo. Il paradosso è analogo a quello di Arrow sulla democrazia. Come per quest'ultimo, sono possibili alternative sociali che non ne sono soggette, ma richiedono l'abbandono dell'una o dell'altra assunzione. Prendiamo l’esempio di Sen del libro licenzioso. Ci sono due individui (chiamiamoli Andrea e Giorgio) e tre possibilità (1: Andrea legge il libro, 2: Giorgio legge il libro, 3: nessuno legge il libro). Andrea è un puritano e preferisce che nessuno legga il libro (possibilità 3) ma, come seconda possibilità, preferisce leggere lui il libro affinché Giorgio non possa leggerlo. Abbiamo dunque 3 preferito a 1 e 1 preferito a 2. Giorgio trova piacere ad imporre la lettura a Andrea. Preferisce 1 a 2 e 2 a 3. Secondo il principio dell’ottimo paretiano, se si deve scegliere tra 1 e 2, bisogna scegliere 1 poiché per le due persone 1 è preferito a 2. Una società liberale non vuole imporre la lettura a Andrea e perciò 3 è preferito a 1. Essa lascia inoltre Giorgio leggere il libro (2 è preferito a 3). Abbiamo dunque 2 preferito a 3 e 3 preferito a 1. Questo risultato è contrario al principio dell’ottimo paretiano poiché, come abbiamo visto, 1 è preferito a 2. Sen intitola il suo articolo "sull'impossibilità di un liberale paretiano". L'importanza della negazione dell'ottimo paretiano consiste nel superamento del concetto keynesiano che il solo mercato basti per sviluppare una società liberista, derivato dal teorema dell'impossibilità di Arrow che fa da base anche per il lavoro di Herbert Scarf[1] sul disequilibrio dei mercati lasciati a sé.[2]

Siccome mi occupo di politica, mi è capitato spesso in questi giorni di riflettere su come potrebbero essere prese le scelte politiche, quindi economiche, per cercare di evitare questo paradosso. E finora le risposte che mi sono dato (senza basi matematiche però) sono 3:
1) rinuncia all'efficienza paretiana (liberismo a tutti i costi)
2) rinuncia alla libertà...degli altri (che mi sembra sia ciò che Inchino propone)
3) sistema di
poche regole precise che tendono ad indirizzare le scelte senza imporle. (sto pensando a qualcosa tipo le rotonde in alternativa agli incroci o i semafori.. :) )

Quindi mi correggo. Forse Bisin non cita il paradosso di Sen però ce l'ha ben in mente.

C'e' il teorema di Arrow. E' nascosto ma c'e'. In una versione precedente era anche esplicito. Il teorema di Arrow e' una ragione in piu' per non aggregare preferenze individuali in un sistema di preferenze sociale.

 

mi è capitato spesso in questi giorni di riflettere su come potrebbero essere prese le scelte politiche, quindi economiche, per cercare di evitare questo paradosso

 

Che ne dici della seguente come soluzione liberale al cosiddetto  'liberal paradox'?

Si stabilisce innanzitutto che Giorgio e Andrea sono liberi di leggere quello che gli pare; e inoltre sono anche liberi di scrivere dei contratti privati (enforceable) con cui queste liberta' vengono scambiate.

Un contratto, ad esempio, potrebbe stabilire che Giorgio si impegna a non leggere il libro in cambio della promessa di Andrea di leggerselo lui. Questo contratto genera una soluzione Pareto ottimale. Oppure Giorgio si impegna a non leggere il libro in cambio di un compenso monetario da parte di Andrea. Anche questo conduce ad una soluzione Pareto ottimale se Andrea valuta il guadagno morale derivante dal fatto che nessuno legge il libro piu' di quanto Giorgio valuti il proprio piacere dal leggere il libro.

La ricetta 'anti-Sen' e' la prima a cui un economista pensa: stabilire un'allocazione iniziale (in questo caso dei diritti) e lasciare che gli individui contrattino fra loro.

In effetti avevo letto i capitoli iniziali del libro di Alesina/Ichino che mi sembrava portasse ottime notizie per il nostro paese: tutta quella formidabile massa di ricchezza prodotta in famiglia e non registrata nei conti ufficiali! Uff, meno male che c' è e qualcuno ne parla. Evviva la famiglia!

Non capivo come tutto cio' potesse poi trasformarsi lentamente in un libro "contro" la famiglia (avevo letto anche gli articoli su "Il Sussidiario").

Questo "scontro" (Bisin/Ichino) è illuminante, l' obiettivo finale dei due economisti era dunque "cambiare le preferenze degli italiani". Caspita!

Per dirla tutta del libro avevo sfogliato anche qualche pagina che mi aiutasse a districare il mistero e mi ero imbattuto in una chiave di volta decisamente poco convincente: "Tizio probabilmente vorrebbe fare qualcosa che non fa per quanto già oggi sia libero di farla. Come possiamo aiutarlo noi economisti?". La mia lettura non è proseguita oltre.

Io il libro di alberto e andrea lo avevo letto (e recensito!). Mi era piaciuto parecchio. E non vi avevo visto alcun obiettivo a "cambiare le preferenze". 

 

E i lettori di nFA sono abituati a pistolotti e trattati noiosi.

 

Questa frase è chiaramente una captatio benevolentiae del tipo paraculus, faccio finta di non averlo notato, perchè ci tengo a rassicurarvi: gli articoli di nfa NON sono noiosi neanche vagamente. Ad esempio questo (che io mi sarei risparmiato, ad Ichino bastava dire, citando il poeta: "è difficile capire se non hai capito già.") è godibilissimo da leggere e pieno di spunti interessanti. Spiace che questo sia un anno particolare è quindi il supporto alla fondazione non è quello che meritereste.

PS

"Mindfucking" pensavo di averlo comprato solo io !

Grazie, corrado. La captatio benevolentiae l'ho messa perche' giorgio topa mi ha detto che il post era noioso e pomposo. ho trovato avesse ragione ma non ho avuto la forza di riscriverlo. da questo la paraculata.

PS: come si fa a non comprarlo un libro che si intitola Mindfucking - se lo vedi esposto. :) 

Metodologicamente, pur essendo un lurido scienziato politico, sono abbastanza vicino all'economia anche se non sono sicuro che il metodo dei neoclassici sia l'individualismo metodologico. Il discorso è lungo, ma poichè le preferenze sono esogene e le forze di mercato spiegano il comportamento degli individui, il termine corretto è individualismo ontologico che, di fatto, implica un ruolo per le variabili rilevate da Durkheim (sistemiche). Ma lasciamo perdere per il momento.

Io noto un semplice elemento. Negli anni '70 e '80, molte case automobilistiche giapponsei aprirono delle filiali negli USA. Al tempo, il Giappone era una società chiusa e maschilista. I giapponesi che andarono negli USA, pian piano, si aprirono ai modi e costumi del posto. Ciò incluse anche una maggiore considerazione per le donne. Progressivamente, questo cambio di costumi si diffuse a tutto il Giappone.

Faccio questo esempio non per sottolineare l'utilità dell'analisi sociologica, ma per rilevare che certi processi hanno più successo se nascono da soli. Se vengono stimolati, il rischio è solo di reazioni contrarie.

D'altronde, Ichino come reagirebbe se io dicessi: bisogna cambiare la mentalità di certi economisti che che vorrebbero cambiare le preferenze degli individui? Giustamente, a) si sentirebbe offeso: chi sono io per dirgli cosa deve fare o pensare? e b) non sarebbe per nulla disposto a cambiare le proprie preferenze. Quindi paradossalmente la mia azione rischia solo di allontanare il fine che voglio raggiungere.

Un giorno me la spieghi questa dell'individualismo ontologico?

Caro monetarista,

sono d’accordo con l’impostazione di fondo del tuo articolo.

Mi permetto di dare un piccolo (e spero utile) contributo alla discussione.

Intanto: cosa deve intendersi per norma sociale (parlerò di convenzione come sinomino di norma sociale, cioè di regola di comportamento ad attuazione spontanea, anche se vi sono delle sottili differenze tra le due cose)?

Dal punto di vista formale una convenzione può essere vista come un equilibrio stabile dal punto di vista evolutivo (Sugden, 1986, 1989), nel senso che se una piccola proporzione della popolazione devia dal comportamento prescritto dalla regola, deve ottenere un minor successo rispetto a chi vi si attiene. Il concetto di stabilità evolutiva è stato introdotto dai biologi Maynard Smith e Price (1973).

Ad esempio, prima di essere formalizzata come regola giuridicamente vincolante nei codici della strada, “guidare a destra” si è stabilita come convenzione (non in UK evidentemente, dove la convenzione è diversa).

In una popolazione in cui tutti guidano a destra, se una piccola proporzione della popolazione devia, otterrà un minore successo (nella stragrande maggioranza dei casi, chi devia rischierà di scontrarsi con chi viaggia in senso opposto).

Perché “guidare a destra” si impone su “guidare a sinistra” (nonostante ci siano tutti sti marxisti in giro ;-))? Ovvero: perché si impone la regola di dipingere di giallo le case invece che di rosso? Molte sono le spiegazioni che possono essere addotte. Ad esempio, Young (1996), ricorda come la regola di guidare a destra si sia imposta in Francia dopo la rivoluzione (le carrozze dei nobili viaggiavano sulla sinistra).

Basandoci sull’idea di Schelling (1960) dei focal points, si potrebbe dire che alcune strategie, per varie ragioni che sarebbe eroico qui riassumere, s’impongono alla nostra attenzione come la scelta obbligata (vi sono delle chiare analogie, ad esempio, tra il principio “last in, first out” e “first come, first served” – entrambi alla base di ben note convenzioni). Quando una quota rilevante della popolazione (cosa che può anche avvenire per puro caso) comincia a giocare in accordo con una certa regola,  diviene conveniente per gli altri aderire alla stessa regola; quando la regola si è stabilita, è possibile che essa sia stabile nel senso sopra specificato (anche se non è socialmente efficiente, perché, ad esempio, l’equilibrio che si determina è Pareto-dominato).

Quando ho potuto, ho personalmente criticato le recenti posizioni di Andrea Ichino. Specialmente una sul Sole24ore (http://www2.dse.unibo.it/ichino/art_sole_sud_finale.pdf), in cui i problemi del Sud venivano ricondotti alle ben note tesi del familismo amorale e della scarsezza di capitale sociale.

In particolare, mi aveva dato fastidio il suggerimento di educare i bambini meridionali alla regola di non copiare in classe (come se al Sud, diversamente che al Nord, i genitori in realtà insegnassero a seguire proprio questa regola, o se il copiare fosse generalmente tollerato dagli insegnanti: cosa che non è). Sulla necessità poi di educare i propri figli a non tenere un atteggiamento omertoso, il coraggio evidentemente, non si ha vivendo altrove. E al Sud ci sono molte persone che denunciano, sapendo che questo potrebbe mettere a repentaglio la propria vita e quella dei propri familiari (sono certo che  queste persone non hanno mai, da bambini, denunciato alla maestra il loro amico autore di una marachella: ma questa è una mia convinzione personale).

A mio modo di vedere, in ogni caso - e lasciando da parte i problemi legati alla discriminazione - la questione della scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro - così come il problema del familismo (ma anche quello delle organizzazioni criminali, come ha di recente messo in evidenza, con grande acume, il magistrato Gratteri), sono prevalentemente da spiegare sulla base dei prezzi, cioè delle convenienze.

Si tenga presente, in generale, che se mutano le convenienze allora è possibile che la convenzione venga meno, perché la quota di individui che devia dalla regola ottiene un maggior successo rispetto a chi vi si attiene, e la nuova regola si diffonde (nelle scienze sociali si suppone che gli individui imparino a giocare la strategia migliore – in biologia si suppone invece che gli individui che giocano la nuova strategia si riproducano più velocemente ed invadano la popolazione).

Saluti   

 

Maynard Smith J. and Price G.R., (1973), “The logic of animal conflict”, Nature, 246 (2), 15-18.

Schelling T., (1960), The strategy of conflict, Cambridge:  Harvard University Press.

Sugden R., (1986), The Economics of Rights, Cooperation and Welfare, Palgrave-Macmillan, New York.

Sugden R., (1989), “Spontaneous Order”, TheJournal of Economic Perspectives, 3 (4), 85-97.

Young P., (1996), “The economics of convention”, TheJournal of Economic Perspectives, 10 (2), 105-122.

Sergio Beraldo grazie!

Grazie per la segnalazione dell'articolo di Ichino (e Alesina). Veramente delle perle di saggezza e delle proposizioni che denotano riflessione profonda.... e io che ho sempre pensato che gli economisti si limitassero a fare considerazioni da comune uomo della strada...

Non sono uso commentare in assenza degli interessati, ma volevo osservare che ho molto apprezzato l'articolo di Ichino (e Alesina) in particolare, nei punti in cui osservano, riportanto uno studio di Banchitalia, che la presenza di un numero maggiore di avvocati al Sud fà si che ci siano molti più contenziosi che intasano i tribunali... Peccato vivo vicino Montepulciano (un tribunale inutile dall'articolo), se no quasi quasi pure io una "sparatina" con questo caldo me la facevo... Tanto conosco decine di avvocati... E che dire dall'acuta osservazione che invocando il brocardo "societas non potest delinquere" chiede che ai bambini delle elementari venga insegnata "la responsabilità" personale attraverso punizioni ad personam e non collettive... Un concentrato di ethos direi inusuale in chi è stato educato magari al Parini di Milano e non all'istituto professionale dello Zen di Palermo...

Questa lettura mi ha arricchito e ha fatto vacillare i miei preconcetti sugli economisti. Beraldo ancora grazie!

Compagno Sergio,

l'interpretazione evolutiva di norme e convinzioni non mi convince - ma le mie critiche sono di secondo ordine - per il resto concordo. Sul familismo amorale etc. non so quanto sia cultura e quanto prezzi. Concordo pero' che agire sui prezzi sia la cosa da farsi. Scusa la fretta, vado a portare i fiori alla tomba di Pinochet :)

Saluti comunisti.

alberto

 

Sergio, ed Alberto, arrivo con ritardo, complice un'isola e le sue attrazioni ...

Due o tre dubbi al volo.

- Occorre cercare di fare uno sforzo, sia empirico che teorico, per distinguere le "preferenze individuali" da "norme, convenzioni, o sistemi sociali di valori" (o tutto cio' che e' "dato" alla maturita' fisica dell'agente). Parlo a spanne, ma credo mi capiate. Se TUTTO e' costruito socialmente non solo andiamo a sbattere contro l'evidenza empirica (che cresce oramai rapidamente) che esiste una "natura umana" piu' o meno biologicamente e naturalmente determinata. Li', in qualche parte di questa natura umana, siedono le nostre preferenze che NON sono un costrutto sociale. Ossia, siedono quelle preferenze che io, voi, socrate, napoleone, lady machbet e ramsete abbiamo in comune e che ci permette, infatti, di capire il senso, la dimensione MOTIVAZIONALE delle azioni di costoro e milioni di altri che sono vissuti a migliaia di anni e di miglia distanti da noi. Se le preferenze, qua dato naturale, non ci fossero e tutto fosse una costruzione sociale, la probabilita' che tre come noi fossero in grado d'intendere perfettamente bene i motivi che agitano i protagonisti di, tanto per dire, Iliade ed Odissea, sarebbe molto prossima a zero. A me sembra, Sergio, che tu sovrapponi le due cose. Forse mi sbaglio, ma l'impressione e' quella. La creazione sociale di norme e convenzioni deve, a mio avviso, essere sempre ricondotta ad un sottostrato di preferenze stabili per risultare utile, non ti pare? Altrimenti everything goes e, platealmente, gli studi empirici su morale, religione, norme di scambio, eccetera, mostrano l'opposto: very, very few things go as social norms!

- Detto questo, pero', su quali basi empiriche rigetti a priori che Andrea, e tanti altri, abbiano torto nell'attribuire certi outcomes sociali a sistemi culturali e di valori esistenti, di cui il cosidetto familismo amorale e' un esempio ben definito? Prima di andare alle teorie, siamo o non siamo d'accordo che la frequenza misurata empiricamente di comportamenti del tipo A e del tipo B e' sostanzialmente differente fra, say, Napoli e Verona? Se lo e', visto che assumiamo che veronesi e napoletani abbiano delle deep preferences comuni e praticamente identiche, non e' il caso di chiedersi perche' questa differenza si osserva?

- La tua risposta sembra essere "incentivi", e la condivido. Ma e' monca: gli incentivi stessi sono determinati in equilibrio, non sono dati. Punizioni e rewards sono il prodotto di strategie d'equilibrio dei vari soggetti. Siccome l'apparato legal-istituzionale e' lo stesso non possiamo appellarci ad esso per spiegare incentivi diversi. Quindi, da dove vengono gli incentivi diversi? Io sospetto (sulla base di abbondante evidenza) che vengano da norme sociali diverse, ossia da equilibri diversi nello spazio dei beliefs, quindi delle strategie d'equilibrio, quindi degli incentivi e dei comportamenti

 

Alberto Bisin scrive:

 

Cominciamo con il definire le preferenze: Per sistema di preferenze intendiamo un ordine (un ranking) tra gli elementi di un insieme di scelte possibili.

 

Scusa Alberto, ma oggi non ho voglia di fare niente, ci sono 38°, il condizionatore sembra andare a carbonella e ho voglia di "sfriculiare"...

E' vero che premetti di non scrivere per accademici, però proprio la prima frase mi induce a sfruculiarti. Per come mi hanno insegnato e per quel pochissimo che ho capito un sistema di preferenze è una maniera (relazione binaria) di confrontare coppie di elementi di un dato insieme la quale (maniera) INDUCE un (pre)-ordine (completo) sugli elementi stessi dell'insieme. Voglio dire le preferenze non sono l'ordine, ma sono banalizzando il" generatore" dell'ordine stesso.

Una cosa che poi non ho capito anche se fai gli esempi dopo è quando dici:

 

Ma quello che mi importa notare è che dal mettere l'individuo sul piedistallo metodologico dell'analisi economica positiva ad analisi normative deboli a' la Pareto, il passo è piccolo. [...] questo passo, da un punto di vista etico, conferisce all'economia un grande vantaggio: un sana barriera alla giustificazione intellettuale di qualsivoglia totalitarismo.

 

stai forse alludendo ad una qualche interpretazione del teorema di Arrow che però non riesco a capire (l'interpretazione e a volte anche il teorema)?

Se ho colto il senso del tuo post (non ero presente al dibattito fiorentino), tu saresti contrario all'idea di educare le masse, nel senso di cambiare le preferenze del popolo. Ora dai lavori recenti di Monjardet e di Danilov & Koshevoy sull'esistenza e la costruzione di "Maximal Condorcet Domains" si ricava la lezione che sarebbe "positivamente e normativamente opportuno" presentare alle masse solo un numero limitato di profili di preferenze su cui scegliere. In altre parole, senza entrare troppo nel merito di cosa si intende per opportuno, l'indicazione che ne ricavano è esattamente che "sarebbe bene" educare le masse, cosa che - mi dice uno degli autori - fa rizzare di solito i capelli ai sostenitori della democrazia presenti fra il pubblico del seminario.

 

 

 

 

 

 

 

Sfrucullia, sfrucullia. Che io sto a 5 gradi sottozero (di aria condizionata). Ok, sulla precisa distinzione tra preferenze e ordine. 

Sto alludendo ad Arrow? Anche. Ma dico che accettare preferenze individuali rende piu' "buoni". :)

Non conosco Monjardet e di Danilov & Koshevoy . Me lo guardo.

 

Un 'Maximal Condorcet Domain' e' un dominio di profili di preferenze (cioe' un elenco delle possibili combinazioni di preferenze individuali in un gruppo di individui) in cui la regola di maggioranza 'funziona' (in tecnichese, un dominio in cui la majority relation e' aciclica, e quindi ammette un Condorcet winner). 'Maximal' vuol dire che se aggiungi anche un solo altro profilo di preferernze al dominio, la majority relation diventa ciclica). C'e' una vecchia letteratura (tecnica) cominciata da Peter Fishburn negli anni 70 in cui si studia come costruire questi maximal domains.

A me sembra di capire che quello che dicono i tipi citati manchi completamente il punto. 'Educare' per loro vuol dire 'scremare' preferenze (cioe' dire: tu, tu e tu, non potete avere queste preferenze) fino a quando c'e' un Condorcet winner.

Per un umano normale, invece, 'educare' vuol dire grosso modo aiutare gli individui ad avere preferenze bene informate.

Sono due cose ben distinte: puo' benissimo darsi che tre individui con preferenze benissimo informate generino il Condorcet paradox!

 

Io sono confuso, perché vivo in Danimarca è ho la percezione che lo Stato cerchi di continuo di cambiare le preferenze dei cittadini.

Per dire, c'è una tassa del 180% sull'acquisto dell'auto. Significa che se una macchina costa 10000€, per comprarla se ne devono pagare 28000, quasi il triplo.

Ora sarei confuso, si stanno modificando le preferenze o, come dice Andrea Moro, si sta modificando l'equilibrio?

Credo che qui si stia solo agendo sul vincolo di bilancio dei consumatori, abbassandoglielo usando le tasse. Però, grazie a questa tassa, c'è un'altissima percentuale della popolazione che usa la bici. 

Ora, mi sto confondendo perché mi faccio questa domanda: se al periodo 1 con la tassa sull'auto le preferenze erano f(y), dopo che molti cittadini hanno sviluppato l'uso della bici, se al periodo 2 la tassa viene tolta, si ritorna sempre a f(y)?

Ora sarei confuso, si stanno modificando le preferenze o, come dice Andrea Moro, si sta modificando l'equilibrio?

Si stanno modificando i prezzi relativi, e dunque l'equilibrio. Non é che ai danesi le macchine piacciano di meno perché costano di piú. 

se al periodo 1 con la tassa sull'auto le preferenze erano f(y), dopo che molti cittadini hanno sviluppato l'uso della bici, se al periodo 2 la tassa viene tolta, si ritorna sempre a f(y)?

Si. 

 

Grazie a questa tassa, c'è un'altissima percentuale della popolazione che usa la bici. 

Secondo me sbagli la conseguenza. E' un cambio di equilibrio perche' non e' detto che a con il vincolo di bilancio "normale" un danese acquisterebbe l'auto: la Danimarca ha una estensione ristretta. In piu' mettici problemi di spazio (parcheggi per dove vai, box per tenerti la macchina a casa) che in Danimarca hanno di sicuro, problemi di inquinamento e magari anche di costi di importazione e di stoccaggio. Lo Stato sta "solo" rinforzando dei vincoli che gia' ci sono, anche se non economici.

In Giappone, fino a qualche anno fa (adesso non so come sia) mi risulta che quando acquistavi un automobile dovevi indicare (non so se "dimostrare") che avevi spazio per metterla sia a casa sia al lavoro. Questo perche' la popolazione e' estremamente concentrata in alcune aree urbane, quindi anche se economicamente te la potevi "strettamente" permettere era necessario alterare l'equilibrio per evitare problemi ulteriori di sovraffollamento.

 

 

La metto nel testo del post.

Sarò provocatorio,  però ieri ho preso una botta alla testa a rimbalzo e quindi sono nervoso, ma una domanda mi frulla nell'angusto spazio che la mia testa dedica alla materia grigia: c'è una relazione fra aumento dell'incidenza delle donne nel mondo del lavoro e declino dell'Italia?

In webstreaming ricordo che una relatrice mostrava che negli anni a partire dal '97-98 le donne che lavorano sono in aumento, sia pure molto al di sotto della media europea, ora è da quel tempo che non cresciamo più, e se avessimo causa ed effetto su un piatto d'argento? A questo punto non sarebbe meglio cambiare le preferenze e fare in modo che le donne tornino a fare la calza?

Disclaimer 1: questo commento a mia moglie non lo faccio leggere.

Disclaimer 2: ieri ad un pre-esame di Advanced Car Design della Facoltà di Architettura c'erano sette donne e un maschio. Il peggiore del gruppo. Che tristezza...

Accettando per vera la tua premessa non le rimetterei a casa, a stretto contatto con la prole. Rischiamo che, con la loro incompetenza, rovinino la formazione delle generazioni future. Propongo il lavoro manuale nei campi o in ambito meccanico.

PS

In realtà credo la causa del declino sia il campionato di serie A 97-98 che ha creato un trauma dal quale la nazione non si è più ripresa

 

Caro Alberto Bisin, le preferenze individuali di cui parli sono statiche nonchè esogene... ora, io ho sempre pensato che le preferenze dei manuali siano esogene più per comodità che per realismo... infatti, considerare le preferenze come "date in un punto del tempo" semplifica, e di molto, la vita dell'economista... non dobbiamo spiegare con i nostri modelli perchè le preferenze sono quelle che sono e come cambiano nel tempo. Per il modello da libro di testo tutto avviene "esogenamente", cioè da qualche altra parte, per ragioni che inizialmente l'economista non sa e non vuole indagare. Invece, le preferenze del mondo reale cambiano nel tempo e, verosimilmente, il cambiamento può dipendere: 1. dalle scelte precedenti dello stesso individuo (formazione di abitudini attraverso il consumo precedente, scelte attuali che dipendono dagli stocks di beni durevoli accumulati in precedenza); 2. da cambiamenti culturali e psicologici autonomamente decisi (come quando uno smette di fumare perchè non sopporta più la puzza di fumo sui vestiti); 3. da scelte autonome ma influenzate dal comportamento di altri individui (effetti di imitazione, mode subliminali etc.); 4. da cambiamenti istituzionali, culturali e psicologici indotti da altri (come quando uno smette di fumare perchè vede il teschietto sul pacchetto delle sigarette o perchè è vietato in quasi tutti i luoghi pubblici).
Stando così le cose, credo sia giusto riconoscere che, per come lo hai costruito, il tuo ragionamento contro il paternalismo incontra alcune difficoltà. Il tuo argomento, mi sembra, usa l'esogeneità delle preferenze come se tale assunzione fosse implicitamente anche una dimostrazione del fatto che l'individuo: 1. forma le sue preferenze in modo libero, cioè non condizionato dalla volontà di terzi e: 2. che anche i cambiamenti delle preferenze sono strettamente dipendenti dalla volontà dell'individuo. Su queste premesse poco realistiche e comunque indimostrate, seguendo Arrow, ti scagli contro ogni forma di paternalismo (o dittatura delle preferenze) sia statico (che ignora le preferenze individuali date), sia dinamico (il "cambiare le preferenze del popolo" di Ichino). 
Ora, io penso che la teoria economica abbia poco da dire su questi aspetti etici. Persino nel caso dell'indottrinamento cinese un economista "puro" dovrebbe limitarsi a prendere atto del cambiamento esogeno delle preferenze senza costruirci sopra una teoria normativa di nessun genere. Ripeto per chiarezza, l'unico modo per trarre conseguenze normative dall'assunzione di esogeneità delle preferenze è assumere anche che le preferenze siano, oltre che esogene, "libere" o comunque "immodificabili" da terzi per forti ragioni morali (nel tuo argomento, sembri voler dire che le preferenze sono libere perchè sono esogene, una cosa che davvero non capisco).
Sono proprio queste forti ragioni morali che mancano nel tuo argomento, secondo me. Anzi, tu stesso fai alcuni controesempi (come l'educazione dei figli). Probabilmente, per affrontare la radice del problema dovremmo chiederci quale nozione di libertà è implicata da questo tipo di ragionamenti contro il paternalismo. A me sembra venga spesso evocata una nozione di libertà piuttosto vaga, che grosso modo corrisponde ad una visione libertarista ingenua del tipo: "l'individuo è sempre in grado di scegliere se accettare o meno una determinata influenza esterna oppure no, quindi, se ha l'insieme di preferenze R, tali preferenze sono liberamente scelte". Ancora più ingenuo assumere in aggiunta che le preferenze R siano anche le migliori possibili (magari proprio perchè libere). Ragionare in questo modo costituisce un puro atto di fede, del tutto acritico e irrazionale. La storia dimostra che è fin troppo facile, purtroppo, influenzare le preferenze e le scelte delle persone. E' un grosso problema, perchè capisco che abbiamo bisogno di forti argomenti per impedire al Grande Fratello di metterci l'anello al naso. Allo stesso tempo, mi sembra una grossa forzatura il voler costruire questi argomenti in modo tale da poterli usare anche contro qualsiasi scelta collettiva che non rientri nel nostro personale sistema di preferenze (nota che così ci attribuiamo un potere di veto che dipende unicamente dal nostro status professionale e dalla nostra formazione culturale, un problema deontologico piuttosto serio, anche se forse ineliminabile).
Per riassumere, a me sembra che per criticare il paternalismo si usa troppo spesso un espediente logico che consiste nell'identificare arbitrariamente le preferenze come le migliori possibili, per esempio perchè si assume siano "libere" in un senso molto vago. Un po' poco vista l'importanza dell'argomento. 
Un cordiale saluto. Marco

Caro Marco, non l'ho fatto nel post per (falsa) modestia, ma dai un'occhiata ai titoli delle mie pubblicazioni accademiche, quelle con Thierry Verdier e altri co-autori incluso Giorgio Topa, e vedrai che sono l'ultimo nella professione a pensare che le preferenze non si muovono nel tempo. E' che questa non e' l'economia da manuale, ma letteratura recente. 

Concordo completamente con tutte le tue osservazioni. 

Cavillo pro domo mia, in forma di domanda retorica. Perche' la razionalita' include l'essere in grado di comparare?

 

Il paper di Alessandra Fogli e Laura Weldkamp su Nature and Nurture (quasi forthcoming su econometrica), suggerisce ad esempio (se lo ho capito bene) che imperfezioni di tipo informativo (incertezza e scarsa conoscenza su cosa succeda ai figli se la mamma lavora) facciano si che le donne "preferiscano" non lavorare', anche se sarebbe efficiente che lo facessero.  Un intervento di policy che induca le donne a lavorare, farebbe lavorare piu' mamme e mostrerebbe che il lavoro delle mamme non presenta rischi per i figli. Questo modificherebbe  le preferenze e indurrebbe un equilibrio diverso, piu' efficiente nel paper di weldkamp e Fogli.  Come diceva Alessandra, dopo la conferenza, il suo paper puo' essere visto proprio come una modificazione delle preferenze.

 

Non ho letto il paper della Fogli, lo faro' al piu' presto, ma l'argomentazione per questo caso non mi convince. In questo caso cambia l'informazione che le mamme avrebbero sull'outcome per i propri figli conditional al lavorare o meno. Cambia il valore atteso dello stare a casa a prendersi cura dei propri figli, a causa della nuova informazione. Non cambia le preferenze delle mamme di avere figli il piu' possibile intelligenti. E' come se un investitore stesse comprando bond greci tutto contento sicuro di fare un sacco di soldi per i rendimenti alti, poi legge il giornale e si accorge del rischio associato e cambia strategia. Forse che tutto insieme ha cambiato le sue preferenze?

Se le donne non partecipano perche' hanno informazioni distorte della realta', allora e' facile indurre alla partecipazione semplicemente facendo piu' informazione, o no?

Ichino scrive:

 

Il paper di Alessandra Fogli e Laura Weldkamp su Nature and Nurture (quasi forthcoming su econometrica), suggerisce ad esempio (se lo ho capito bene) che imperfezioni di tipo informativo (incertezza e scarsa conoscenza su cosa succeda ai figli se la mamma lavora) facciano si che le donne "preferiscano" non lavorare', anche se sarebbe efficiente che lo facessero.  Un intervento di policy che induca le donne a lavorare, farebbe lavorare piu' mamme e mostrerebbe che il lavoro delle mamme non presenta rischi per i figli. Questo modificherebbe  le preferenze e indurrebbe un equilibrio diverso, piu' efficiente nel paper di weldkamp e Fogli.  Come diceva Alessandra, dopo la conferenza, il suo paper puo' essere visto proprio come una modificazione delle preferenze.

 

A Firenze non c'ero, quindi magari dalla presentazione si capiva questo, pero' ho appena scorso il paper di Fogli-Weldkamp, e in supporto all'argomento di Vincenzo, non mi pare che nel paper il punto sia che le preferenze cambiano. Le preferenze sono date, quello che "cambia" sono i beliefs sull'effetto dell'occupazione sugli outcomes dei figli, che a loro volta inducono la scelta della mamma (se occuparsi oppure no). Quindi eventualmente, sempre stando al paper, misure di policy inducono delle modifiche nel comportamento (tramite modifiche dei beliefs), ma non delle underlying preferences. E si, c'e' "cultural transmission" da una generazione all'altra, ma sempre di beliefs.

 

Andrea Ichino scrive:

"Infine, fare policy significa cercare di cambiare gli equilibri osservati quando sono inefficienti.  lo si puo' fare cambiando i vincoli date le preferenze, ma risultati simili si possono ottenere anche cambiando le preferenze a parita' di vincoli.


Una possibile fonte di cautela la fornì Edward Glaeser (al momento non trovo l'articolo originale), sfruttando l'esempio dato da una policy in vigore in alcuni stati US. Più o meno la storia, per come l'ho capita io, è la seguente:

Viene avviato un programma di educazione nelle scuole con l'obiettivo di ridurre i casi di gravidanza in età giovanile. Il programma si basa su un ciclo di lezioni in cui si spiega che fare sesso da giovani è male (semplifico e banalizzo, ma neppure troppo).

In conseguenza del programma educativo, una parte dei discenti avrà modificato le proprie preferenze e si asterrà dall'accoppiamento fino all'età adulta. Per questi ragazzi, assumiamo che si ottenga un miglioramento della loro condizione, data la minore incidenza di gravidanze indesiderate. Un'altra parte degli studenti continuerà invece a fare sesso.
È, questa, una situazione migliorativa (in senso paretiano) della condizione preesistente? Lo è solo se il secondo gruppo non subisce altri effetti, cosa che può avvenire se, ad esempio, sviluppano senso di colpa o stigma sociale che riducano l'utilità ricevuta dal "consumo" di sesso. Se questi effetti sono rilevanti, il miglioramento non è paretiano (alcuni soggetti stanno peggio di prima).

Altre policy che operino sull'effetto prezzo (es. sussidiando i condoms) o sulla regolamentazione (ad es. degli aborti non terapeutici), col fine di modificare i vincoli senza alterare le preferenze, non provocano senso di colpa o social stigma. Il ragionamento di Glaeser si applica anche al consumo di sigarette, di alcolici, di droghe. Può applicarsi, forse, anche al lavoro femminile, se le donne che scelgono "la famiglia" alla carriera, sviluppano un senso di inferiorità rispetto a quelle che lavorano, a causa di programmi di educazione volti ad incrementare il tasso di partecipazione femminile.

Se le preferenze sono molto eterogenee, questi "costi" del paternalismo non sono trascurabili.

 

EDIT - ecco l'articolo di Glaeser che citavo sopra: QUI il paper completo, e QUI la sintesi non tecnica e decisamente più scorrevole da leggere.

 

Mi colpisce, ripensando a questa discussione nel suo complesso, quanto sia sfuggente, per chi non ha la (s)ventura di lavorarci da mane a sera, il concetto apparentemente banale di 'preferenza'.

Ci sono stati due esempi in cui un cambiamento attribuito alle preferenze era in realta', in un caso, un cambiamento dell'insieme di scelta (vincoli), e nell'altro, un cambiamento delle informazioni (dei beliefs) dell'agente. Le preferenze sono piu' 'toste' di quanto non sembri a prima vista...

Ma non sara', mi chiedo allora, che molti di coloro che invocano interventi sulle 'preferenze', con tutte  le connotazioni Orwelliane che questo comporta e che fanno rizzare i capelli in testa a persone come Alberto, intendano in realta' qualcosaltro?

Quando si parla, ad esempio, di 'interven[ire] sul processo di formazione delle preferenze' (Ichino), penso che spesso si intenda semplicemente una di due cose: o esporre le persone ad informazioni nuove ('guarda queste statistiche, nei paesi in cui le donne lavorano non si sta poi malaccio'); o modificare i vincoli per indurre a comportamenti che permettono l'apprendimento di nuovi dati (paper della Fogli).

Rimane pero' cruciale, secondo me, vedere l'errore logico in affermazioni come questa:

 

Infine, fare policy significa cercare di cambiare gli equilibri osservati quando sono inefficienti.  lo si puo' fare cambiando i vincoli date le preferenze, ma risultati simili si possono ottenere anche cambiando le preferenze a parita' di vincoli. A priori non vedo perche' un metodo sia moralmente preferibile all'altro.

 

L'errore (ripeto, logico, non necessariamente morale) sta nel fatto che se davvero si modificano le preferenze, si svuota il concetto stesso di efficienza. L'efficienza (Paretiana) e' ben definita solo per preferenze date. Per questo, come spiegato nel post di Alberto, l'esercizio base di tutta la microeconomia e' di studiare cosa succede cambiando l'insieme di scelta tenendo ferme le preferenze. Altrimenti, cambiando le preferenze sarebbe possibile rendere qualunque situazione Pareto efficiente: se il marito picchia la moglie, basta convincere la moglie (magari insegnandoglielo fin da piccola) che e' bello e giusto che sia cosi', e son tutti e due contenti (Amartya Sen usava proprio la 'sindrome da donna sottomessa' per criticare il concetto di efficienza di Pareto, ma questo e' un altro discorso).

Il processo di formazione culturale delle preferenze, e della trasmissione dei valori, e' cosi' fondamentale proprio perche' e' in base all'esito di quel processo che si giudichera' dell'efficienza o meno di certi equilibri. Gli economisti (come Alberto) possono contribuire a chiarire, usando il linguaggio e le tecniche dell'economia, quei meccanismi. Ma siamo davvero agli albori di questo tipo di studi.

Questo tuo commento di rara chiarezza andrebbe messo come premessa all'articolo!

Stavo là là per inserire un commento sulle linee del tuo. Mi sono fermato perché ho fatto questo pensiero. E' sacrosanto che il concetto di efficienza (ma anche quello di massimizzazione, se fossimo in teoria della scelta individuale) dipende dalle preferenze. Quindi, cambiando queste, si puo' razionalizzare qualsiasi allocazione, almeno se siamo disposti a  porre non troppi vincoli sulle preferenze che siamo disposti ad accettare come ragionevoli. Tuttavia, questa interpretazione di quello che dice Ichino presuppone che l'obiettivo sia quello, appunto, di Pareto-razionalizzare un equilibrio. Cioè, l'equilibrio resta fermo, e troviamo un insieme di preferenze per cui quel particolare equilibrio resta equilibrio, ed è Pareto-efficiente. D'altronde, c'è una interpretazione di quello che dice Ichino (una versione 2.0, diciamo) che non porta necessariamente ad un errore logico. Supponi che "cambiare le preferenze" significa escludere tutti quei profili per cui l'equilibrio (comunque lo si intenda) è Pareto inefficiente. Se fossimo nell'ambito di voting, potresti pensare ad eliminare tutti i profili di preferenze che portano ad un ciclo di Condorcet per voto a maggioranza, o cose del genere. Il punto fondamentale è che, cambiando le preferenze, cambiano le allocazioni Pareto efficienti, ma cambia anche l'equilibrio. Questa interpretazione, credo, non cade necessariamente in errore logico. Che poi sia un'assurdità dal punto di vista etico, questo è un altro discorso.

 

Altrimenti, cambiando le preferenze sarebbe possibile rendere qualunque situazione Pareto efficiente: se il marito picchia la moglie, basta convincere la moglie (magari insegnandoglielo fin da piccola) che e' bello e giusto che sia cosi', e son tutti e due contenti (Amartya Sen usava proprio la 'sindrome da donna sottomessa' per criticare il concetto di efficienza di Pareto, ma questo e' un altro discorso).

 

Io ci starei molto attento ad assumere che certi principi sono universali. Amartya Sen, come molti altri esposti alle societa' industrializzate contemporanee, postula che non sia nell'interesse delle donne essere sottomesse: ma visto che lo sono (o sono state) nella vasta maggioranza delle societa' preindustriali, senza che si siano formati movimenti di emancipazione (le suffragette seguono di qualche decennio la rivoluzione industriale), forse in quel tipo di societa' alle donne conviene davvero essere sottomesse. E' proprio per questo che interventi come quello dell'attuale guerra in Afghanistan sono secondo me destinati al fallimento: nella migliore delle ipotesi sono figli della stessa ideologia secondo cui noi sappiamo meglio degli altri cos'e' nel loro interesse. Non per niente, molti Neo-con vengono dalle fila del Trozkismo.

 

L'errore (ripeto, logico, non necessariamente morale) sta nel fatto che se davvero si modificano le preferenze, si svuota il concetto stesso di efficienza. L'efficienza (Paretiana) e' ben definita solo per preferenze date.

 

il punto che sollevi e' interessante, ma le conseguenze che trai sono secondo me un po' estreme. e' infatti del tutto possibile pensare ad un modello dinamico dove le preferenze si modificano nel tempo e cio' non ostante  l'insieme di decisioni sociali pareto efficienti e' ben definito in ogni momento.

per esempio considera il seguente modello dove una policy x(t) in X=[0,1] deve essere implementata in ogni moment of time. assumi che ci siano due individui e che ognuno di essi abbia una sua preferred policy in time t, chiamale p_1(t) e p_2(t). assumi che le preferenze di i siano rappresentate da [p_i(t)-x(t)]^2 for every t. in ogni moment of time il set di pareto efficient policies e' dato dall'intervallo [p_i(t),p_j(t)], assumendo wlog che p_i(t)<=p_j(t).

in che senso il concetto di pareto efficiency perde valore se p_i(t) cambia nel tempo, per esempio in modo continuo? dove sta l'errore logico? un problema potrebbe sorgere solo se la decisione viene presa in time t ed implementata in time t'>t.

 

Altrimenti, cambiando le preferenze sarebbe possibile rendere qualunque situazione Pareto efficiente:

 

indeed. supponi che il planner possa modificare le preferenze degli individui spendendo risorse ed usando la tecnologia p'_i(t)=c (cioe' cambiando le preferenze in modo continuo ad una speed data dall'ammontare di risorse spese). basterebbe fare in modo che p_1(t')=0 e p_2(t')=1 perche' tutte le policies in X siano pareto efficienti, from t' onward.

perche' la microeconomia non dovrebbe (essere in grado di) studiare uno scenario come quello che ho descritto sopra?

 

Il processo di formazione culturale delle preferenze, e della trasmissione dei valori, e' cosi' fondamentale proprio perche' e' in base all'esito di quel processo che si giudichera' dell'efficienza o meno di certi equilibri.

 

concordo pienamente sulla prima parte del tuo post e su quanto dici sopra rispetto all'importanza del processo di trasmissione dei valori.

ps...mi scuso con i lettori per la mia prosa bastarda....

 

Il problema logico che sollevavo e' che se la policy cambia le preferenze da P a Q, facendo passare dalla vecchia scelta p (che era inefficiente secondo P) ad una nuova scelta q che e' efficiente secondo Q, non c'e' nessuna garanzia che la scelta q non sia inefficiente secondo P, e di conseguenza non si puo' affermare che si e' risolto il problema iniziale, che era un'inefficienza secondo P, non secondo Q (se poi la scelta rimane la stessa e l'efficienza secondo Q si raggiunge semplicemente cambiando le preferenze a Q, allora sicuramente rimane l'inefficienza secondo P).

Se per esempio si dice che sarebbe piu' efficiente se le donne lavorassero invece di stare a casa, si sta dicendo che tutti, incluse le donne e gli uomini con le loro attuali preferenze, starebero meglio se le donne lavorassero. Questo e' il significato di inefficienza di Pareto. Se c'e' bisogno che gli uomini cambino  le proprie preferenze per poter dire che quando le donne lavorano anche loro sono contenti, mentre non sarebbero stati contenti se fossero rimasti quei vecchi bread-winners pelosi e un po' rozzi che erano prima di emanciparsi, si potra' forse dire che c'e' stato progresso sociale, forse, ma non si puo' dire che c'e' stato un miglioramento di Pareto secondo la definizione di miglioramento di Pareto.

Non credo che si possa ragionevolmente sostenere che le policies in generale debbano 'risolvere' l'inefficienza facendo piacere al popolo quello che altrimenti non gli piacerebbe. In alcuni casi, si', si puo' formare un consenso sociale piu' o meno generale sul fatto che certe preferenze P sono indesiderabli ed e' quindi un bene in se' cambiarle verso Q (NOTA: la giustificazione qui non e' sulla base di Pareto, ma di qualche argomento etico esterno). Ma come la vivace discussione fra Enzo e Corrado attesta, tale consenso sociale e' molto difficile a raggiungersi!

Premesso che, oltre all'articolo, ci sono interventi così lucidi e chiarificatori da farmi rimpiangere, per motivi anagrafici, di aver studiato economia quando il web non era ancora nato, vorrei intervenire sul tema delle preferenze ricordando che, nella realtà, quello che dice Bisin

 

Le preferenze sono date (esogene), ma questo non implica che non ci si possa ad esempio chiedere cosa sceglierebbe l'individuo se avesse un sistema diverso di preferenze.  E lo si fa, eccome - ma le preferenze restano esogene rispetto alla scelta che l'agente fa. Insomma, gli agenti non si scelgono le loro preferenze, esse sono quel che sono. Meglio ancora: un agente e' identificato con un certo sistema di preferenze.

Le questioni positive in economia, ad esempio quali siano gli effetti di una politica economica sul Pil o sull'inflazione sono analizzate, solitamente, per-date-preferenze.

 

è una mera ipotesi semplificatoria (utile ma pericolosa).

Se darsi questo metodo è necessario per affrontare con coerenza formale (logico-matematica) determinati problemi, ciò non significa che i modelli studiati siano aderenti alla realtà. Forse la approssimano, ma non si è in grado di stimare con quale grado di approssimazione (infatti le politiche economiche non producono mai gli effetti desiderati, se non nella direzione, nelle quantità previste). Identificare un agente con un "certo sistema di preferenze"  è un ipotesi semplificatoria non banale. Ben prima della formalizzazione dell' "economia comportamentale" agli economisti aziendali erano noti da decenni le difficoltà di individuare modelli di comportamento univoci e standardizzati  degli agenti economici (imprese e consumatori). Tutta la letteratura sulle strategie d'impresa è volta a capire e a normare il sistema di fini che l'impresa si deve dare in base a determinati contesti ambientali per avere successo (lo stesso concetto di successo cambia tra impresa ed impresa e nel tempo). Gli studi sul controllo di gestione sono finalizzati a trovare i meccanismi più efficaci ed efficienti per orientare il comportamento dell'azienda ai fini strategici (attenzione attenzione) manipolando le preferenze degli attori coinvolti. Poi, mai sentito parlare di vision, mission, valori dell'azienda, etc. etc.? A prescindere dall'efficacia di questi apparati, il loro scopo è  una manipolazione "culturale" (?) per orientare le preferenze e di conseguenza il comportamento degli agenti (risorse umane, manager compresi). E cosa dire del marketing? Non serve forse ad orientare (manipolare?) le preferenze dei consumatori verso i prodotti dell'impresa?

Certo, tenere conto di tutto ciò forse è impossibile, soprattutto se si vuole mantenere coerenza tra micro e macroeconomia: ciò non significa che non sia possibile andare avanti con ipotesi semplificatorie, l'importante è tenerne conto. Fare delle ipotesi per semplificare la realtà può essere utile dal punto di vista metodologico e possono anche scaturirne modelli funzionali, ovviamente nei limiti di quanto approssimano la realtà. L'importante è capire dove arrivano questi limiti.

 

quando le cose non sono semplici, non sono chiare, pretendere la chiarezza, la semplificazione a tutti i costi, è faciloneria, e proprio questa pretesa obbliga i discorsi a diventare generici, cioè menzogneri. Invece lo sforzo di cercare di pensare e di esprimersi con la massima precisione possibile proprio di fronte alle cose più complesse è l'unico atteggiamento onesto ed utile.

 

Italo Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, p.307

Non basta usare un linguaggio matematico per dare rappresentatività ad un modello: la matematica dà solo coerenza interna obbligando a seguire dei percorsi logici una volta stabiliti gli assiomi di base. Ma se tra questi e la struttura della realtà ci sono delle ipotesi semplificatorie anche i risultati del modello saranno, per forza di cose, semplificati rispetto alla realtà.

Con questo non voglio dare ragione ad Ichino (di cui ho letto tutto il libro e la cui analisi trovo comunque molto interessante); anzi, fondamentalmente la penso come Bisin, ma non per motivi economici, ma etici. Se vogliamo veramente cambiare le preferenze bisogna intervenire con l'educazione. Un popolo più istruito è un popolo che ha preferenze più intelligenti, ma questo è un altro discorso. Il rischio del paternalismo è elevato se si comincia a ragionare di politiche macroeconomiche in termini di bottarelle, e questo offende pesantemente la mia concezione di libertà. Mentre posso accettare di essere oggetto di manipolazione da parte di una multinazionale delle bollicine, mi diventa difficile non vedere ombre orwelliane in una manipolazione da parte dello stato, seppur a fin di bene (quale bene?).

Non so.... certe cose puzzano, sarà che sono cresciuto ascoltando i Genesis....,

 

«This is an announcement from Genetic Control:
"It is my sad duty to inform you of a 4ft. restriction on humanoid height."

 

"I hear the directors of Genetic Control have been buying all the properties that have recently been sold, taking
risks oh so bold.
It's said now that people will be shorter in height,
they can fit twice as many in the same building site.
(they say it's alright),
Beginning with the tenants of the town of Harlow,
in the interest of humanity they've been told they must
go-go-go-go."»

 

da Foxtrot (1972), Get'em out by Friday, per il resto del testo vedi qui.

 

ma quando ti dicono che fanno le cose nell'interesse dell'umanità è meglio stare attenti.

Vorrei contribuire alla discussione sulle motivazioni al lavoro delle donne citando un anonimo gigante del pensiero, immeritatamente relegato dalla sorte al mestiere di taxista in Milano, il quale anni orsono, mentre la classica sciuretta milanese ci tagliava la strada, profferì le seguenti, immortali parole: <<Eh, dutur, da quando la Findus ha fa' i 4 Salti In Padella, son tutte in giro in macchina>> che mi pare riassuma in maniera eccellente il paradigma comportamentale neoclassico di ottimizzazione del trade-off tempo libero/lavoro, con preferenze convesse e libera contrattazione tra le parti. Absit injuria ;-)

 

Forse un semplice approccio di "statistical discrimination" non piace perchè dipinge il problema non tanto come un problema fra gruppi (uomini/donne) ma come un problema esclusivamente femminile. O forse perchè le soluzioni più evidenti sarebbero piuttosto sgradevoli (per esempio il contratto di lavoro che impegna la donna a non avere figli o robe del genere). Tutta roba che molti giudicano inaccettabile perchè non aiuterebbe le donne come gruppo sociale ma solo le donne realmente desiderose di lavorare ad alti livelli.

Alberto, proviamo a riepilogare perche' io alla fine di quest'altra tenzone sono un po' confuso.

(1) Il tuo punto e' che le preferenze vanno prese come date se no, da un punto di vista positivo, e' il caos perche' si puo' spiegare qualunque cosa facendo cambiare le preferenze e, da un punto di vista normativo, si spalanca la porta a qualunque aberrazione.

(2) Poi concedi due punti, che in realta' sono lo stesso punto, ossia che preferenze date per lo scienziato sociale non significa preferenze esogene nel modello:

(2a) Primo, concedi che in situazioni di interazione "strategica" c'e' un senso in cui le preferenze sono endogene: l'ordine sull'insieme di scelta varia con i possibili profili di scelta degli altri. Naturalmente uno puo' ridefinire le preferenze come contingenti e allora sempre date sono, ma le implicazioni di policy sono non triviali, come nei giochi di coordinamento con un equilibrio inefficiente. Se tutti a Ostuni colorano la casa fucsia Hollywood perche' vogliono imitare il sindaco a cui piace tanto quel colore ma Ostuni fucsia Hollywood rende infelice il genere umano, allora ha senso concedere al sindaco un credito fiscale per indurlo a colorare la casa di bianco (e abbiamo fior-fior di legislatori che sanno scrivere leggi ad-personam)

(2b) Secondo, concedi che le preferenze sono endogene nei modelli (dinamici) di trasmissione culturale a la Bisin-Verdier. Non perche' c'e' learning ma perche' e' effettivamente possibile per qualcuno manipolare indirettamente le preferenze. I genitori, ad esempio, possono investire risorse nei processi di socializzazione intrafamiliare ed extrafamiliare per orientare le preferenze dei figli. Se possono farlo i genitori possono farlo anche altri. Possono farlo i governi. Puo' farlo nFA. Ci piaccia o no.

Quindi, alla fin della tenzone, la linea che separa la tua posizione da quella di Andrea (Ichino) mi pare molto sfocata. O no?

 

 

Primo, concedi che in situazioni di interazione "strategica" c'e' un senso in cui le preferenze sono endogene: l'ordine sull'insieme di scelta varia con i possibili profili di scelta degli altri. Naturalmente uno puo' ridefinire le preferenze come contingenti e allora sempre date sono, ma le implicazioni di policy sono non triviali, come nei giochi di coordinamento con un equilibrio inefficiente. Se tutti a Ostuni colorano la casa fucsia Hollywood perche' vogliono imitare il sindaco a cui piace tanto quel colore ma Ostuni fucsia Hollywood rende infelice il genere umano ha senso concedere al sindaco un credito fiscale per indurlo a colorare la casa di bianco (e abbiamo fior-fior di legislatori che sanno scrivere leggi ad-personam)

 

Ma questo non e' assolutamente un caso di preferenze endogene! Nessuno ha mai detto che le preferenze devono essere definite sul proprio insieme di scelta. In generale le preferenze sono definite su uno spazio di alternative, che varia col contesto. In un gioco, come nel tuo esempio, le alternative sono i profili di strategie (o le conseguenze associate a quei profili, che e' la stessa cosa dato che ogni profilo identifica una sola conseguenza), e le preferenze son defnite li', ben fisse e ben esogene.  Nota di nuovo che puoi parlare di 'equilibrio inefficiente' in un gioco di coordinazione proprio perche' le preferenze sono date.

Preferenza endogena vuol dire un'altra cosa, cioe' si fissa un spazio di definizione delle preferenze, e nel modello le preferenze sono determinate dalle condizioni di equilibrio insieme alle altre variabili endogene. Nei giochi standard, come quello del tuo esempio, invece, le preferenze determinano l'equilibrio.

"Secondo, concedi che le preferenze sono endogene nei modelli (dinamici) di trasmissione culturale a la Bisin-Verdier. Non perche' c'e' learning ma perche' e' effettivamente possibile per qualcuno manipolare indirettamente le preferenze. I genitori, ad esempio, possono investire risorse nei processi di socializzazione intrafamiliare ed extrafamiliare per orientare le preferenze dei figli. Se possono farlo i genitori possono farlo anche altri. Possono farlo i governi. Puo' farlo nFA. Ci piaccia o no."

Credo che la distinzione qui sia tra analisi positiva e normativa: puoi benissimo fare un modello in cui le preferenze sono endogene e usarlo per spiegare alcuni fenomeni empirici; ma poi potresti non essere in grado di dire se certi outcomes sono "efficienti" (perche' potrebbero essere efficienti rispetto alle preferenze di partenza e non rispetto a quelle di arrivo o viceversa). 

Non capisco, Giulio, il fatto che si fossa fare (cioe' che esista una tecnologia per farlo) non significa che sia opportuno farlo o anche chiedersi di farlo. Il punto di vista normativo e' assolutamente intatto. Il punto di vista positivo anche, nel senso che quello ovviamente dipende dalla questione che mi pongo. Se mi interessa l'identita' etnica, ovvio che devo pensare a preferenze endogene (o a meta-preferenze esogene), se mi interessa invece una norma sociale - come l'attitudine verso le donne - e' molto piu' proficuo cercare di capire l'equilibrio che supporta la norma sociale stessa.