Una serie di premesse innanzitutto: Il mio ragionamento è un ragionamento strettamente da economista - tanto molti dei lettori di questo blog o lo sono o lo sono diventati (come Axel). Naturalmente ci sono alcuni economisti che non ragionano così e altri che addirittura non ragionano - come abbiamo imparato leggendo la Lettera degli Economisti. Nello stesso tempo non scrivo per economisti accademici - questi ultimi mi perdoneranno le necessarie imprecisioni (e magari anche qualche imprecisione non propriamente necessaria).
Cominciamo con il definire le preferenze: Per sistema di preferenze intendiamo un ordine (un ranking) tra gli elementi di un insieme di scelte possibili. Ad esempio, un individuo che deve dipingere i muri di casa propria ha un sistema di preferenze se sa mettere in ordine i colori: giallo meglio di rosso meglio di verde uguale a marrone, meglio di viola.... (si noti che l'ordine permette di essere indifferenti rispetto a due colori - qui lo dico e qui lo dimentico perché rende il tutto più complicato senza cambiare nulla nella sostanza).
La definizione implicitamente assume che un sistema di preferenze soddisfi una forma di razionalità - in particolare che l'individuo non si trovi mai nella situazione di non essere in grado di comparare, per esempio, giallo e verde (può essere indifferente, ma non può essere non-in-grado-di-decidere); e che l'individuo per cui giallo è meglio di rosso e rosso è meglio di verde sia sempre concorde che giallo è meglio di verde (altrimenti addio ordine, anche se, per i più sofisticati, qualcosa si può fare di ragionevole anche senza questo assioma che chiamiamo "transitività"). La forma di razionalità richiesta pare debole, e in un certo senso lo è; ma per insiemi complessi di scelte possibili lo è molto meno; discuterò di seguito il caso in cui gli individui siano meno che razionali.
Un sistema di preferenze implica tautologicamente (sottolineo tautologicamente) un meccanismo di scelta dell'individuo. Nell'esempio, l'individuo dipingerà la sua casa di giallo. E se giallo non fosse disponibile, la farà rossa.
Cosa fa quindi un microeconomista - uno di quegli economisti che studiano le scelte degli individui - nel caso più semplice? Fa un giochino semplicissimo: prende per dato (esogeno) un sistema di preferenze e studia come varia la scelta dell'individuo al variare dell'insieme di scelte possibili. Naturalmente, questo giochino non è sempre così semplice come nell'esempio - e c'è addirittura gente che viene pagata profumatamente ad esempio a Wall Street per risolvere versioni complesse del giochino in questione - ma concettualmente questo è.
Su questo giochino - ma chiamiamolo schema che fa più sofisticato - è costruita la microeconomia classica, da Alfred Marshall in poi (anche prima in realtà, ma questo è irrilevante rispetto alla presente discussione e ci porterebbe lontano).
Le preferenze sono date (esogene), ma questo non implica che non ci si possa ad esempio chiedere cosa sceglierebbe l'individuo se avesse un sistema diverso di preferenze. E lo si fa, eccome - ma le preferenze restano esogene rispetto alla scelta che l'agente fa. Insomma, gli agenti non si scelgono le loro preferenze, esse sono quel che sono. Meglio ancora: un agente e' identificato con un certo sistema di preferenze.
Le questioni positive in economia, ad esempio quali siano gli effetti di una politica economica sul Pil o sull'inflazione sono analizzate, solitamente, per-date-preferenze.
Lo stesso è per le questioni normative, ad esempio se una politica economica sia meglio di un'altra.
È così dai tempi dei classici. Le analisi normative in economia si fanno senza imporre un sistema di preferenze al "popolo", postulando invece che il "popolo" sia costituito da individui ognuno col suo proprio sistema di preferenze, esogeno rispetto al pianificatore o chi per lui. Come economisti accettiamo addirittura enormi limiti alla nostra capacità di confrontare situazioni e politiche in termini di benessere sociale, pur di non essere costretti a definire noi un sistema di preferenze sociali e pur di evitare di comparare le preferenze di diversi individui.
Si chiama Principio di Pareto e implica analisi normative deboli: in sostanza, la maggior parte delle volte, alla domanda se una politica economica sia meglio di un'altra non possiamo rispondere - alcuni perdono, altri guadagnano e le preferenze di diversi individui non si confrontano. [Poi anche gli economisti barano ogni tanto; assumendo ad esempio che tutti gli individui abbiano le stesse identiche preferenze - così che aggregare preferenze diventa facile - molto facile. Potrei lanciarmi in una difesa anche di questa pratica, ma lascio stare per rispetto del lettore che a questo punto sarà già distrutto dalla noia]
Questa ossessione che gli economisti hanno sulle preferenze individuali viene da lontano. L'idea che l'analisi di fenomeni aggregati debba essere costruita a partire dalle scelte degli individui singoli che dell'aggregato fanno parte (in un certo contesto tecno-istituzionale, chiaramente) e quindi in un certo senso dalle loro preferenze, si chiama individualismo metodologico ed è ciò che ci distingue originariamente dai sociologi (a chi è venuto da dire "ci distingue dalle scimmie", spetta una punizione - rileggere l'opera omnia di Emile Durkheim da cima a fondo - in francese!).
In prima approssimazione, questa è una posizione metodologica più che accettabile, ma soprattutto assolutamente centrale all'economia:
no methodological individualism, no economics as we know it.
Questo non significa naturalmente che non si possano studiare fenomeni economici o sociali altrimenti; alcuni lo fanno; così come molti sociologi e scienziati della politica aderiscono all'individualismo metodologico - le distinzioni tra le varie scienze sociali si sono fatte fortunatamente un po' confuse.
Ma quello che mi importa notare è che dal mettere l'individuo sul piedistallo metodologico dell'analisi economica positiva ad analisi normative deboli a' la Pareto, il passo è piccolo. Passo piccolo ma assolutamente fondamentale. Se in questo blog si potesse speculare senza ben sapere quello che si dice direi che questo passo, da un punto di vista etico, conferisce all'economia un grande vantaggio: un sana barriera alla giustificazione intellettuale di qualsivoglia totalitarismo. Non mi addentro nella questione filosofica non perché la questione sia fuori tema o poco rilevante ma perché non-sono-preparato-signora-professoressa. Mi limiterò quindi a scorrere rapidamente e superficialmente esempi di istituzioni storiche che si sono poste come obiettivo di cambiare il sistema di preferenze del "popolo" e cose così.
Esempio 1. I totalitarismi duri e puri e l'uomo nuovo di Lenin e Hitler; per non parlare della Cina maoista, per cui il termine "lavaggio del cervello" è stato introdotto (da un agente della CIA, ok; i dubbiosi si vadano a leggere una qualunque storia della Rivoluzione Culturale - il link è a wikipedia in inglese perché la voce Grande Rivoluzione Culturale in italiano ha poco o nulla - gli italiani preferiscono non ricordare).
Esempio 2. Le sette religiose (incluse quelle che convincono i membri a bere il kool aid in gruppo o a legarsi una bomba all'ombelico), la CIA e MKULTRA, il KGB, .... Io ho trovato divertente - con tanti esempi - il libro di Stefano Re dal bel titolo: Mindfucking.
Esempio 3. Le grandi multinazionali attraverso la pubblicità, come denunciano generazioni di marxisti e di loro figliocci post-moderni, da Paul Baran e Paul Sweezy a David Harvey, rispettivamente.
Il punto è semplice e diretto: tipicamente chi si è posto come obiettivo di cambiare il sistema di preferenze del "popolo", nella storia e nella pratica, non va in paradiso - Hitler, la CIA, le grandi multinazionali cattive,.... I rest my case.
Sto un po' barando. Ci sono esempi di manipolatori buoni delle preferenze: i genitori che educano i figli a qualsivoglia sistema di valori etici (ok, non proprio qualsivoglia); e quelli che paternalisticamente aiutano i poveri di spirito, i duri di comprendonio, gli individui emotivi o men che razionali. E infatti questi sono i casi tipici in cui gli economisti hanno affrontato la questione di come definire sistemi di preferenze appropriati che permettano un'analisi coerente. Ma lo hanno fatto con grande delicatezza, sapendo di entrare in un negozio di vetri e specchi, attenti a non rompere nulla. Ad esempio, cercando di definire metodi per rivelare un sistema di meta-preferenze che rimane invariato al variare delle preferenze di ordine inferiore.
Qui le cose si fanno parecchio delicate e una discussione ci porterebbe davvero lontano senza cambiare il punto: quello di modificare le preferenze del popolo è un sistema di questioni che gli economisti si pongono a fatica e per buone ragioni. Anche quegli economisti che vorrebbero farlo, quelli che vedono poveri di spirito men che razionali dappertutto, si trattengono e ci vanno piano, suggerendo di tanto in tanto una bottarella (nudge) invece che non un piano di conversione di massa alla razionalità. E, importante: le bottarelle sarebbero comunque da darsi alle scelte degli individui, non alle loro preferenze, per quanto pervase da sentimenti, emozioni, forme di irrazionalità ... In ogni caso, quello che penso sull'economia comportamentale, che supporta teoricamente le bottarelle, l'ho già detto su nFA.
Insomma, gli economisti, nello loro qualità di economisti, preferiscono non toccare le preferenze individuali (gioco di parole voluto), preferiscono considerarle come date (esogene). Questo permette loro di evitare di specificare un sistema di preferenze sociale. Gli estremisti monetaristi come me pensano addirittura che questa pratica sia una difesa intellettuale da molti mali assoluti, dal totalitarismo al capitalismo monopolistico.
Tutto ciò non significa, si badi bene, che l'economia non possa produrre argomenti riguardanti attitudini culturali e fenomeni tipo il razzismo o gli stereotipi sulle donne ed analizzarli dal punto di vista normativo. Un esempio servirà a chiarire.
Norme sociali. Supponiamo che il sistema di preferenze degli individui sia affetto da conformismo; l'individuo che deve dipingere i muri di casa propria, ad esempio, ha un sistema di preferenze rappresentato dal seguente ordine (ranking): giallo-se-la-casa-del-sindaco-è-gialla meglio di rosso-se-la-casa-del-sindaco-è-rossa meglio di giallo-se-la-casa-del-sindaco-è-rossa... Con sistemi di preferenze di questo tipo si possono facilmente avere situazioni in cui tutte le case del paese sono rosse ma sarebbe stato meglio per tutti se fossero state gialle. Nel caso che discuteva Andrea Ichino a Firenze, sarebbe possibile una società in cui tutte le mogli restano in casa a fare le domestiche per i mariti nonostante sia meglio per tutti (mariti e mogli) che le mogli vadano a lavorare. Naturalmente questa è solo una possibilità teorica: osservare una società in cui le mogli stanno a casa non significa che questo sia il caso. La teoria rimanda ai dati (e probabilmente i dati alla teoria un'altra volta...e così via).
Si noti che l'argomento non necessita di nessun sistema di preferenze sociali - non richiede che l'economista, il pianificatore, o chi per loro dica: tutta sta gente che vuole che le donne stiano a casa, maschilisti idioti, non sanno quello che pensano; mandiamoli ad una bella scuola dove li convincono che le donne sono uguali agli uomini.
Detto tra noi, si può fare di meglio per capire come e quanto le attitudini culturali nei confronti delle donne/mogli influenzino la struttura della società e per identificare le ragioni per cui alcune di queste attitudini risultino inefficienti, nel senso che riducono il benessere sociale. Due sole parole: statistical discrimination.
Tutto questo senza cambiare le preferenze del "popolo". Per questo la mia reazione, che ha irritato Andrea Ichino. Se tutte le volte che dico qualcosa che irrita qualcuno mi toccasse scrivere un trattato per giustificarmi ... sarei molto produttivo! Ma Andrea è un amico. E i lettori di nFA sono abituati a pistolotti e trattati noiosi.
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'<h' . (('2') + 1) . '>'Risposta di Andrea Ichino, 16 Luglio:'</h' . (('2') + 1) . '>'
Ringrazio Alberto per aver commentato il nostro scambio nell'incontro di Firenze. Il suo intervento a villa la Pietra non mi ha affatto irritato, anzi ha proprio colto nel segno delle riflessioni che volevo suscitare. Quanto alla veemenza delle mie risposte dipende solo dal fatto che mi piace partecipare con calore alle discussioni.
Evidentemente non mi sono espresso bene nel mio intervento (e sotto questo profilo forse non aiuta, per mia incapacita', il formato di questi incontri a meta' tra la discussione formale che sarebbe necessaria per essere veramente chiari, e l'opera di divulgazione alta che è forse l'obiettivo primario degli incontri)
Aggiungo inoltre, a mia colpa, che il filone di ricerche che ho presentato mi ha portato in aree di riflessione teorica che non sono veramente di mia competenza, essendo io persona che sa a malapena maneggiare dati.
Detto questo vorrei tentare chiarire il mio intervento a Firenze, se interessa ai lettori di questo blog, con le seguenti affermazioni.
1) Non è facile generare un modello che in equilibrio presenti differenze di genere "sistematiche" (ossia tutte in un senso solo) partendo dall'ipotesi che donne e uomini siano "identici" se osservati a qualche baseline iniziale (big bang).
2) Posto quindi che un granello di differenza da qualche parte si debba mettere, non e' irrilevante chiedersi che cosa questo granello sia (skills biologiche? preferenze? accidenti della storia? altro?).
3) Capire cosa questo granello di differenze alla baseline sia, è rilevante per valutare l'eventuale inefficienza dell'equlibrio osservato. So che Andrea Moro ha mostrato come modelli di statistical discrimination possano essere inefficienti. Ma la mia modesta esperienza di lavoro teorico in questo campo, si e' scontrata con la difficolta' di arrivare a equilibri inefficienti, se veramente consideriamo con attenzione che cosa ha generato la statistical discrimination a partire dala baseline e se vogliamo che i modelli producano sistematicamente discrimination in un senso solo.
4) È possibile (e sto lavorando alla verifica empirica di questa ipotesi) che le differenze di genere che osserviamo (almeno in Italia) corrispondano alle preferenze di donne e uomini e che, date queste preferenze, l'equilibrio sia efficiente.
5) Analogamente, è possibile che le differenze di genere in Afghanistan o Arabia Saudita corrispondano alle preferenze e che quindi vada tutto bene cosi' anche in quei paesi.
6) Se questo e' vero dobbiamo chiedereci perche' NFA (e non solo ovviamente) fa un incontro sulle differenze di genere. Se sono efficienti, va bene cosi' e occupiamoci d'altro.
7) Esiste pero' la possibilita' che le preferenze evolvano nel tempo e si concretizzino in un dato istante per l'effetto di una evoluzione storica che non e' l'unica possibile. Suggerivo quindi la possibilita' che anche nel caso in cui l'equilibrio osservato sia efficiente date le preferenze osservate oggi, possa aver senso chiedersi cosa sarebbe accaduto con una evoluzione diversa delle preferenze (Come sarebbe la situazione delle differenze di genere in afghanistan se Maometto non fosse nato?).
8) Il paper di Alessandra Fogli e Laura Weldkamp su Nature and Nurture (quasi forthcoming su econometrica), suggerisce ad esempio (se lo ho capito bene) che imperfezioni di tipo informativo (incertezza e scarsa conoscenza su cosa succeda ai figli se la mamma lavora) facciano si che le donne "preferiscano" non lavorare', anche se sarebbe efficiente che lo facessero. Un intervento di policy che induca le donne a lavorare, farebbe lavorare piu' mamme e mostrerebbe che il lavoro delle mamme non presenta rischi per i figli. Questo modificherebbe le preferenze e indurrebbe un equilibrio diverso, piu' efficiente nel paper di weldkamp e Fogli. Come diceva Alessandra, dopo la conferenza, il suo paper puo' essere visto proprio come una modificazione delle preferenze.
9) Sono il primo a rendermi conto della pericolosita' di ragionamenti di questo tipo anche senza scomodare gli esempi di Alberto (hitler, lenin, chiesa cattolica etc ...). Pero' rimane il fatto che le preferenze non sono date e immutabili, ma sono esse stesse endogene al processo di evoluzione storica che le ha formate. E non capisco cosa ci sia di sbagliato nel chiedersi che cosa sarebbe accaduto con una evoluzione diversa, e quindi che cosa accadrebbe in futuro intervenendo sul processo di formazione delle preferenze.
10) Infine, fare policy significa cercare di cambiare gli equilibri osservati quando sono inefficienti. lo si puo' fare cambiando i vincoli date le preferenze, ma risultati simili si possono ottenere anche cambiando le preferenze a parita' di vincoli. A priori non vedo perche' un metodo sia moralmente preferibile all'altro.
Ma non e' davvero il mio terreno e quindi mi fermo qui e lascio a chi ne sa piu' di me di ragionarci sopra.
Grazie per l'ospitalita'.
ciao andrea
- Show quoted text -
tu stai solo argomentando, sulla base di una posizione dogmatica ma decisamente prevalente in economics, riguardo a come secondo te andrebbe fatta ricerca sociale, e con quali limiti.
non è chiaro come questo possa costituire un argomento contro l'idea che la POLITICA (e non si parla di un gruppo di persone sedute dietro cattedre di economia) debba proporsi(o meno) come obiettivo di modificare le preferenze individuali.
non si capisce perchè, per esempio, i proprietari dei mezzi di comunicazione debbano avere maggiore libertà di provare(!) a cambiare le preferenze altrui, di un governo. perchè è ovvio che le preferenze sono in continuo cambiamento. non quelle basics of course (vedi sessualità), ma quelle di cui discuti tu, del tipo se imitare il sindaco o meno.
Credo che Alberto abbia argomentato su questo piano perche' Ichino e' economista.
Ricordo bene l' episodio: dopo una serie di analisi e commenti sulle preferenze sottostanti se ne e' uscito con una frae tipo: "come le cambiamo queste preferenze?", e quasi tutti i presenti si son chiesti "e PERCHE' dovremmo cambiarle???" non tanto per le ragioni espresse da Alberto sopra, ma perche' l' idea che lo stato intervenga per cabiarle ci faceva venire l' orticaria, puzza di paternalismo e pure di totalitarismo.
Per il semplice motivo che non dispongono di mezzi coercitivi.Non credo che nessuno abbia da ridire quando lo stato prova a cambiare le preferenze dei cittadini con la "Pubblicita' progresso" (magari dissento sul contenuto, ma non ho nulla contro il metodo).Quando si passa a campagne di informazione nelle scuole comincio ad inarcare un sopracciglio, se poi andiamo su obblighi legali sono totalmente contrario.
Tanto piu che poi si finisce per fare scelte ampiamente discutibili: per ridurre l'handicap delle donne manager si detassano? Finisce che una quota se la paga l'operaio con figli e moglie casalinga, o magari il padre single (saran pochi, ma perche' tassarli?).
Marcello ha ragione. Io sono scattato non perche' nessuno possa pensare di "modificare le preferenze", ma perche' gli economisti non lo fanno. E hai ragione, e' proprio una posizione dogmatica - che naturalmente potrei difendere - ma non e' questo l'obiettivo: si puo' discutere se "il popolo" debba poter abortire, ma i cattolici no, se anche loro lo fanno....!