Nel 1894 Cesare Pascarella compose ”La Scoperta dell’America”, poemetto in 50 sonetti. La storia del decisivo avvenimento è raccontata in un’osteria romana da un avvinazzato frequentatore del locale, nel pieno rispetto dei canoni della poetica aristotelica. Il sonetto XXIX descrive il primo contatto fra la ciurma delle tre caravelle, scesa finalmente a terra dopo tanto navigare, e le popolazioni indigene.
Veddero un fregno buffo, co' la testa
Dipinta come fosse un giocarello,
Vestito mezzo ignudo, co' 'na cresta
Tutta formata de penne d'ucello.
Se fermorno. Se fecero coraggio...
- A quell'omo! je fecero, chi séte?
- E, fece, chi ho da esse? Sò un servaggio.
Pascarella fa parlare il nativo nell’idioma dei nuovi arrivati. A prima vista sembra trattarsi di un elementare stratagemma per evitare che il memorabile incontro si impantani ancor prima di iniziare. Secondo i criteri post-strutturalisti, il cui tratto peculiare consiste nel rileggere il testo di un’opera mettendone in discussione l’unicità e l’omogeneità degli enunciati, non abbiamo a che fare con un semplice - e diciamolo, perfino banale - gioco linguistico. Il nativo è perfettamente consapevole della propria condizione. Usa le parole con icastica precisione per descrivere il suo stato: servaggio indica colui che vive nelle lussureggianti selve; niente quindi a che vedere con la spregevole connotazione che assumerà successivamente.
Proseguendo su questa linea ermeneutica é possibile elaborare un’interpretazione che giunge a conclusioni affatto diverse. E’ possibile intravedere negli endecasillabi un Pascarella geniale anticipatore di Frantz Fanon. La suggestiva tesi può apparire ardita ma ha un suo fondamento. Come é noto il nucleo centrale delle riflessioni dell’acuto pensatore della Martinica riguarda l’uso e il ruolo del linguaggio nella formazione della coscienza e della consapevolezza individuale. Più in particolare, egli indagò sull’uso della lingua del colonizzatore da parte dei colonizzati giungendo alla conclusione che per i nativi esprimersi in quella lingua significa accettare, poco importa se volontariamente o meno, la subalternità della propria cultura rispetto a quella dei nuovi arrivati.
Questo immediato riconoscimento della propria subalternità, tuttavia, non impedisce al tapino di manifestarsi incuriosito dell’altro
E voi antri quaggiù chi ve ce manna?
La risposta dell’equipaggio richiama immediatamente il nativo alle gerarchie sociali dell’epoca.
- Ah, je fecero, voi lo saperete
Quando vedremo er re che ve commanna.
Egli vi si adegua mansueto
E quello, allora, je fece er piacere
De portalli dar re, ch'era un surtano,
Vestito tutto d'oro: co' 'n cimiere
De penne che pareva un musurmano.
Grande è qui la maestria del poeta. I nuovi arrivati descrivono gli altri comparandoli con altre popolazioni: il sultano, i musulmani. Essi non sanno con chi hanno a che fare, rimestano nelle loro approssimative conoscenze per trovare un riferimento, un termine di paragone. Quale enorme differenza rispetto alla precisione del nativo, che con solo otto parole (E …chi ho da esse? Sò un servaggio) aveva detto tutto quello che c’era da dire.
E quelli allora, co' bone maniere,
Dice: - Sa? Noi venimo da lontano,
Per cui, dice, voressimo sapere
Si lei siete o nun siete americano.
L’equipaggio e il suo capitano erano partiti fiduciosi di giungere in Asia. Eppure ora domandano se quello è il continente chiamato America. Non solo. Usano una denominazione che verrà introdotta solo quindici anni dopo il loro sbarco dal cartografo Waldseemüller nella sua opera Cosmographiae Introductio. Imperdonabile imprecisione del poeta? Considerazione filistea di un poeta piccolo-borghese sulla proverbiale ignoranza della plebaglia romana? Impressione superficiale ed erronea. I versi che seguono lo dimostrano.
- Che dite? fece lui, de dove semo?
Semo de qui, ma come sò chiamati
'Sti posti, fece, noi nu' lo sapemo. –
I selvaggi cercano di riportare ordine nella confusa rappresentazione della realtà degli abitanti del vecchio mondo. Il nome, quel nome, ancora non esiste.
Ma vedi si in che modo procedeveno!
Te basta a dì che lì c'ereno nati
Ne l'America, e manco lo sapeveno.
Pascarella coglie con straordinaria efficacia espressiva il profondo senso di inconsapevole smarrimento dei marinai. In conseguenza del lungo peregrinare in nave, al di fuori dello spazio da loro conosciuto, giungono ad un punto di non ritorno, fino ad estraniarsi anche nel tempo. E che siano inconsapevoli (quale differenza rispetto alla piena coscienza di cui danno prova i loro interlocutori!) lo dimostra il loro ingenuo farsi beffe di coloro che non chiamano il loro territorio con un nome che ancora non esiste.
Gli abitanti del nuovo mondo smascherano, attraverso un ben calibrato Verfremsdungeffekt di brechtiana memoria (anche qui il Pascarella anticipa i tempi), l’equivoco nel quale gli abitanti del vecchio mondo sono intrappolati.
Il 27 gennaio di quattro anni fa alcuni compatrioti, nostri e dell’artefice di quell’ardita navigazione, concepirono il blog nel quale ora state leggendo questo post. Lo denominarono come quel continente a ragion veduta: uno spazio nuovo dove gli abitanti del vecchio mondo potessero aprire gli occhi sulle innumerevoli stupidate che i loro governanti continuano imperterriti a propinargli. Voglio celebrare la ricorrenza più che con un augurio, con un auspicio. Che gli autori del blog, come i nativi descritti da Pascarella, proseguano la loro opera di smascheramento. Gli abitanti del vecchio mondo continuano ad averne bisogno.
Prosit!