È opportuna una premessa: la “concertazione” tra le cosiddette “parti sociali” sembra essere una modalità operativa che incontra un consenso alquanto diffuso, nei gangli vitali del Paese così come presso il mitico “uomo della strada” - a Milano come a Palermo - nella convinzione che la rappresentatività di alcune organizzazioni conferisca automaticamente ruoli di così ampio supporto al lavoro del potere legislativo. Eppure questa non parrebbe la via maestra.
È da considerarsi del tutto legittima ogni azione di lobby, nei modi rispettosi della legge, da parte di gruppi organizzati di persone che difendano specifici interessi. Peraltro, il compito di legiferare – meglio sarebbe, in Italia: delegiferare … - non spetta a soggetti ad esso non legittimati dalla volontà popolare: governo e parlamento sono liberi di consultare i latori di differenti opinioni, ma pare curioso che si deleghi ad altri il raggiungimento di accordi da trasferire in norma cogente erga omnes. Non è questo l'argomento qui trattato – e se ne potrebbe discutere in altra occasione – ma il cappello era doveroso per sgombrare il campo da possibili fraintendimenti in merito all'eventuale apprezzamento del metodo. Infatti, purtroppo, anche in quest'occasione ci si trova in una situazione di quel tipo.
È successo - com'è noto - che il governo abbia presentato il Ddl collegato sul lavoro, già approvato dalle camere epperò ad esse rimandato dal presidente Napolitano che non ne ritiene alcune parti - in particolare quelle che definiscono l'utilizzo dell'arbitrato - compatibili con il quadro normativo di riferimento in materia di diritti. Non s'intende -hic et nunc - discutere l'intero provvedimento, bensì prendere spunto dal motivo centrale del contendere per suggerire alcune considerazioni di tipo motivazionale. A partire dal fatto che una trentina di associazioni imprenditoriali e sindacali, dichiarando di condividere l'utilità dello strumento, si sono accordate per studiare insieme proprio le modalità di applicazione dell'istituto sul quale si è scatenata la bagarre. Ciò perché il disegno di legge prevede, allo scopo, una delega di 12 mesi entro i quali raggiungere un'opinione comune, onde evitare l'intervento del legislatore.
La strada non è priva di ostacoli, ad esempio per quanto riguarda l'introduzione dell'arbitrato secondo equità: da parte sindacale - e di Tiziano Treu, tra gli altri - non si gradisce la possibilità di una decisione che deroghi dalla rigida osservanza delle norme, per risolvere singoli casi valutandone le circostanze specifiche e riferendosi a principi più ampi di giustizia. Ovviamente, con l'esclusione di un successivo ricorso al giudice che – ça va sans dire - renderebbe inutile il nuovo percorso tornando ad allungare i tempi. Motivi di opportunità (rectius: ipersensibilità?) politica hanno suggerito anche di escludere il licenziamento dalle materie assoggettabili ad arbitrato: l'articolo 18 costituisce ancora un taboo - come tutto l'ormai troppo datato e di concezione vetero-sindacale “Statuto dei lavoratori”, del resto – e questo è un altro importante limite. Di quest'ultimo argomento, peraltro, si discute da più parti con l'intento di superare l'ostacolo, come si può ben leggere anche nella condivisibile analisi di Andrea Moro relativa alla proposta di “contratto unico” di Pietro Ichino, tutt'altro che risolutiva a causa della consueta pretesa di normare tutto rigidamente.
Non ostante le limitazioni al testo governativo preannunciate dai futuri protagonisti dell'accordo interconfederale, la CGIL ha fatto mancare la firma, e la cosa non stupisce se si pensa che lo stesso avvenne lo scorso anno per il nuovo quadro di riferimento degli assetti contrattuali. Va detto che quell'accordo ha, comunque, costituito il punto di partenza per i contratti collettivi firmati successivamente - che pur rimangono quell'anomalia già più volte citata, a prescindere dalle modalità di scrittura - e, nondimeno, Epifani e soci non hanno ritenuto di recedere dall'indisponibilità alla revisione dello status quo, confermata nell'attuale frangente. Collateralmente, si è notata pure la contrarietà di alcuni magistrati, forse motivata - quando non da posizioni ideologiche individuali - dal timore di perdere una fettina di potere, ed è quasi scontato che la sinistra politica si sia stracciata le vesti, gridando all'attentato contro i diritti dei lavoratori.
Si direbbe, dunque, soprattutto un problema culturale. Di quella cultura che concede fiducia alla sola mano pubblica per qualunque aspetto della vita, a dispetto delle millanta prove di scarsa qualità d'azione di cui ciascuno è stato testimone, non rinunciando al preconcetto nei confronti di tutto quanto abbia profumo di privato. Di quella cultura che vorrebbe normare qualunque cosa nei minimi dettagli, che non ama lasciare agli individui la libertà di accordarsi relativamente ad alcunché, che pretende di sapere sempre che cosa sia giusto per la collettività e che da tale convinzione muove ogni passo. In una parola, di quella cultura che solitamente vien definita “socialista” ma che - ahimé - non appartiene ad uno solo degli schieramenti in campo nello Stivale, come potrebbe essere normale, ma che invece tutti li accomuna.
Anche nel caso specifico, infatti, non si dimostra perché la giustizia che si otterrebbe con un arbitrato dovrebbe essere inferiore a quella fornibile da un giudice. Ci si limita a paventare le consuete disparità di “potere” tra parti ipotizzate più forti e parti definite a priori più deboli, come se le prime potessero agevolmente disporre a piacere di un contratto firmato. E, naturalmente, come se le condizioni fossero immutabili: modelli superfissi a go-go, con posti di lavoro che non possono che rimanere gli stessi in saecula saeculorum, sia per quanto riguarda il numero che le caratteristiche ... Si dimentica, anche, che il decisore concordato si deve limitare a verificare come l'oggetto del contendere sia trattato negli accordi posti in essere al momento dell'inizio di un rapporto di lavoro, i quali - particolare che non parrebbe trascurabile ... - mai possono essere in contrasto con la normativa vigente.
Non è detto, però, che tutto dipenda dall'impostazione ideologica. Una mente sospettosa, ad esempio, potrebbe anche essere indotta a ritenere che ad essa si affianchi una banale questione di visibilità presso i lavoratori, che qualcuno vorrebbe mantenere e possibilmente accrescere mostrando il proprio fattivo supporto. Il fine di avvantaggiarsene in termini d'iscrizioni - e dunque di potere contrattuale, anche in vista delle consuete spartizioni di poltrone - non pare, allora, da escludersi a priori. Anche perché l'intransigenza sembra pagare, almeno a giudicare dall'andamento del numero di tessere sottoscritte.
Quindi ecco, pian piano, che un dubbio s'insinua, a partire dalla constatazione che i tribunali del lavoro hanno comune nomea di pronunciarsi mediamente in modo gradito ai sindacati: non è che, magari, non pochi oppositori dell'arbitrato apprezzino proprio i tempi lunghi della giustizia ordinaria? Già, perché ciò conferisce evidentemente un potere di ricatto che consente di massimizzare il risultato economico: l'atmosfera dell'ambiente di lavoro risente di protratti contenziosi, dunque l'impresa potrebbe cedere più di quanto farebbe se i tempi si accorciassero, per evitare l'incancrenirsi di situazioni che avrebbero nefasta influenza su tutto lo staff. E, ancora una volta, ciò conferisce alla parte sindacale un'aura di efficacia nella difesa degli interessi dei propri iscritti, siano essi ragionevoli o meno. Il pallottoliere registra così altre iscrizioni, queste conferiscono forza rappresentativa ed i relativi vantaggi .....
Solo malizia?
Franco, secondo me, c'è un solo motivo (oltre a quelli da te già elencati delle tessere e del potere) per cui c'è un pregiudizio verso l'arbitrato: è tutto nebuloso, volutamente.
1)I costi: attualmente se si va in giudizio io azienda pago l'avvocato, e se perdo, pago le spese di giudizio, il lavoratore ha diritto al patrocinio iniziale gratuito di un avvocato (inizialmente il lavoratore non anticipa alcunchè all'avvocato), con l'arbitrato io pago: l'avvocato, il mio arbitro, più la metà del terzo arbitro, ma questo lo dovrebbe fare anche il lavoratore, per un'azienda non ci sono problemi, più difficile per un lavoratore neoassunto.
2)Poichè il terzo arbitro dovrebbe essere nominato dal Presidente del Tribunale e/o d'accordo fra le parti, nessuno mi dice che i tempi (visto che c'è di mezzo il Tribunale) siano più veloci, nè che continui la triste sequela per cui il lavoratore vince in primo grado e perde in appello (almeno a Napoli..).
3) E' francamente una presa in giro per tutti: l'azienda che non ha alcuna certezza, anche con l'arbitrato, il lavoratore che diventa ancora più debole e dovrà cacciare un sacco di soldi che oggi non caccia, il tutto a favore della nobile casta degli avvocati, non per niente la casta meglio rappresentata in Parlamento.
Personalmente rimango a favore della risoluzione del contratto di lavoro tramite penali, è chiaro, semplice, immediato e trasparente, il resto rimangono solo carte, che vanno diminuite, non aumentate.
Marco, tu poni corrette questioni relative alle modalità operative, sulle quali si può discutere al fine di ottimizzare lo strumento. Solo a titolo d'esempio, l'arbitro potrebbe essere unico - i costi scendono - e deciso dalle parti di comune accordo - i tempi si accorciano - con la nomina da parte del tribunale solo in caso d'insanabile contrasto anche sul suo nome, irrisolvibile anche tramite confronto tra i rappresentanti "sindacali" delle parti. Si potrebbe pure introdurre il principio della temerarietà di lite, per disincentivare conflitti pretestuosi che perderebbero convenienza: naturalmente della cosa andrebbero studiate le possibili conseguenze economiche e si potrebbe pensare anche in termini di "potere di spesa". And so on.
Però, pur se rimango anch'io favorevole alle soluzioni più semplici possibili (è sempre meglio avere poche norme chiare, facilmente applicabili e verificabili), qui non m'interessava valutare il provvedimento governativo in sé, quanto piuttosto porre l'accento sopra un aspetto della questione che non ho visto rilevare: siamo sicuri che dietro a posizioni espresse in nome di principi non si celino interessi di bottega?
a proposito del punto 3 riguardante la casta degli avvocati... oggi angelino alfano si è lanciato in una sequela di barocchismi & nonsense, degni di un corso di micro impartito dall'università di lorenzago!
Anche ammettendo che ci sia un pregiudizio ideologico contro l'arbitrato, secondo me questo non e' esattamente il punto rilevante.
Nelle controversie sul licenziamento va accertato se il lavoratore e' stato licenziato per giusta causa (o se altri suoi diritti sono stati violati). Questo accertamento dovrebbe avvenire in modo rapido ed efficiente: questo e' il vero nocciolo della questione.
Se i tempi si dilatano fino a raggiungere svariati anni, per l'azienda il rischio e' di dover pagare compensazioni esorbitanti e per il lavoratore di dover fare fronte a spese processuali insostenibili (soprattutto da disoccupato).
Quindi secondo me le domande chiave sono queste:
1) L'arbitrato velocizza la procedura? (In un paese civile una decisione definitiva dovrebbe essere presa in un paio di mesi al massimo)
2) I costi sono minori per entrambe le parti, o almeno per quella piu' debole? (Idealmente, un operaio o un co.co.pro. con moglie e tre figli dovrebbe pagare una cifra minima per verificare se i suoi diritti sono stati violati).
3) I criteri che gli arbitri possono seguire sono chiari, trasparenti e condivisi? (mi pare di capire, dagli articoli di giornale, che gli arbitri posso prendere decisioni anche in deroga al diritto vigente seguendo criteri di "equita'"; di che si tratta esattamente?).
4) Invece di soluzioni extragiudiziali, non sarebbe meglio rendere le procedure piu' efficienti (con notificazioni via e-mail ed udienze in teleconferenza) come suggerisce Capaneo in basso, e come ci si dovrebbe aspettare da un "governo del fare"?
5) Se poi si ritiene che il diritto del lavoro e lo Statuto dei Lavoratori in particolare e' un istituto antiquato non sarebbe piu' onesto dirlo a chiare lettere e riformarlo di conseguenza? Cento voti di scarto in Parlamento non sono sufficienti per fare riforme strutturali?