Dopo l'ennesimo ''chiarimento finale e risolutivo'' tra i papaveri del centrodestra è stata annunciata l'ultima manovra, una delle varie che si sono rese necessarie dopo che Giulio Tremonti aveva ''messo in sicurezza'' i conti pubblici. Sono 82 pagine scritte in legalese e probabilmente destinate a essere cambiate e trasformate nel dibattito successivo (sta già cambiando mentre scriviamo, infatti). Per questo non vale la pena perder tempo facendo un'analisi puntuale di tutti gli articoli. Ci fidiamo del riassunto fatto dal Sole 24 Ore e da Il Post.
Potremmo ridicolizzare vari dettagli. Lo sappiamo fare e lo abbiamo fatto per manovre precedenti, e non si può certo dire che questa manovra non ne offra occasione. Essa ripropone nei suoi dettagli alcune classiche ossessioni ideologiche di Tremonti, come la ''tecnofinanza'', e ne introduce altre a noi nuove, come gli Suv:
1. l'imposta di bollo pari allo 0,15% sulle transazioni finanziarie ad esclusione dei titoli di Stato;
2. la tassa sugli Suv e sulle auto con potenza che supera i 125 kilowatt;
3. la tassa del 35% sulle attività di trading speculativo svolte dalla banche;
4. il superenalotto "europeo".
Ma non vogliamo cascare nella facile ironia, questa volta. Non è proprio il caso. Questa volta la questione è davvero grave, così grave che potrebbe rappresentare un punto di non ritorno per il paese.
In particolare, ci riferiamo alla distribuzione temporale della manovra: secondo quanto riportato dal Corriere e da altri, dei 47 miliardi di intervento solo 2 riguardano il 2011 e 5 il 2012. Il resto, ossia il grosso, 20 nel 2013 e altri 20 nel 2014, è demandato ad un futuro senza certezze e senza dettagli.
Il significato di questo procrastinare la manovra, con la collocazione di 40 miliardi su 47 a date certamente successive alle prossime elezioni, non è sfuggito a nessuno (tranne, apparentemente, a Napolitano che evidentemente era così desideroso di dire qualcosa di bipartisan da accettare di far la figura della vispa teresa). La recita è andata avanti come da ormai collaudato copione. Tremonti, per l'ennesima volta, si è esibito nella solita stucchevole recita del rigorista che difende il bilancio dall'assalto dei golosi politicanti. (Almeno ci ha risparmiato la parte del genio preveggente - che provi vergogna?). Ha minacciato, prodotto bozze, protocolli d'intesa, e fogliettini per giornalisti amici con piani di assalto alla casta. Ma alla fine è apparso chiaro a tutti che minacce, bozzi, protocolli, e fogliettini non erano che un gioco delle parti, una rappresentazione di fantasia. È apparso chiaro a tutti che il significato di questo procrastinare la manovra è uno solo: sancire in modo inderogabile e assoluto la decisione del governo di nascondersi nell'inazione, almeno fino alle prossime elezioni.
Ma se il suo significato è chiaro a tutti, la rilevanza di questo procrastinare la manovra al 2013, questa sì, forse è sfuggita ai più. Da un punto di vista contabile, la manovra garantisce il pareggio tendenziale del bilancio al 2014, così come richiestoci dall'Europa e come previsto dal Documento di Economia e Finanza (D.E.F.) dello scorso aprile. Non ritorniamo sui dettagli che sono stati ben spiegati nel post di Aldo Lanfranconi della settimana scorsa. Ci sono però tanti modi in cui si possono soddisfare i criteri contabili, e la scelta di rimandare i tagli necessari al 2013 e 2014 è assolutamente irresponsabile perché tra due anni, nel 2013, potrebbe non esserci più il paese, nel senso che, senza agire sui conti pubblici, il paese si potrebbe trovare di qui al 2013, assolutamente impreparato, a dover affrontare una crisi vera e quindi a dover impostare una manovra di quelle che fanno male per davvero, con gente per la strada che tira molotov ai poliziotti e randellate alle vetrate delle banche.
Procrastinare la manovra al 2013 è irresponsabile perché di qui ad allora la situazione di bilancio sarà assolutamente instabile. Un nonnulla, un minimo accenno a una politica di bilancio non rigorosa, un colpo di tosse di una qualunque banca europea, un rallentamento della Cina, il proverbiale battito d'ali della farfalla in Giappone, e i tassi sui titoli del debito pubblico schizzerebbero alle stelle. Queste cose avvengono velocissimamente. E quando avvengono sembrano sempre arbitrarie, scatenate da un ministro che parla troppo senza saper quel che dice, da un irrilevante operazione dubbia di una qualche banca e via discorrendo. Non ci vorrebbero mesi, non ci vorrebbero giorni, ma minuti, almeno a mercati aperti. E le conseguenze pratiche, con immediato aggravio della spesa per interessi, si avvertirebbero alla prima asta dei titoli pubblici. Giorni, non mesi. E a quel punto, visto l'entità del nostro debito pubblico, una spirale viziosa ci porterebbe dritti e impreparati alla crisi vera e alla manovra di quelle che fanno male per davvero di cui si diceva sopra.
E questa instabilità che soffia al collo, sia ben chiaro, non è dovuta alla globalizzazione, alla ''tecnofinanza'' (e alla sua parente stretta, la ''speculazione''), o ai cinesi, tutti capri espiatori favoriti da Tremonti e dalle sinistre ignoranti. È dovuta prima di tutto alla politica di bilancio irresponsabile degli anni Ottanta, che portò il debito pubblico al 120% del PIL all'inizio degli anni '90. Politica, vale la pena ricordarlo, perpetuata anche con la complicità seppur minore di Tremonti, al tempo baldanzoso craxiano in carriera. Ed è dovuta anche al susseguirsi di manovre straordinarie, pezze e tamponi, da allora ad oggi. Dopo quasi vent'anni dalla manovra straordinaria autunnale del 1992, siamo ancora allo stesso punto. Debito al 120% del PIL, necessità di manovre straordinarie.
Il necessario rigore oggi non lo impone Tremonti, non lo impone l'Europa, e non lo impone la Spectre. Lo impone l'enorme debito pubblico e il fatto che i risparmiatori, a qualunque avvisaglia di irresponsabilità, non accetteranno di continuare a finanziare lo stato italiano per pochi punti di spread rispetto ai bund tedeschi.
Guardare ai mercati ieri, oggi, domani e tirare il fiato, pensare che l'abbiamo scampata, che ancora una volta la furbizia da gioco delle tre carte ci ha premiati, è stolta consolazione. Lo spread sui bund è oggi ai massimi storici, oltre 200 punti base sui titoli a 10 anni secondo i dati di Bloomberg. Impossibile prevederne l'andamento a breve, ma non è lontano il momento in cui i mercati chiederanno al Tesoro di "vedere" la garanzia collaterale al debito pubblico che esso da tempo, e neanche tanto implicitamente ormai, offre. No, non è il Colosseo. La garanzia collaterale al debito sono i risparmi privati, tassabili ad un tratto di penna patrimoniale. Ricordate Tremonti e i suoi scherani, tronfi, col petto gonfio, rassicurare la finanza internazionale che il debito pubblico italiano non è un problema perché compensato da una notevole ricchezza privata? O chiedere a gran voce che debito e ricchezza privata venissero considerati dalle istituzioni europee nel valutare la stabilità finanziaria di un paese? Ed è lì, a questo appuntamento, che arriveremo completamente impreparati. Che saremo costretti a interventi frettolosi, irrazionali, inefficienti, e per questo molto più dolorosi di quanto non sarebbe necessario oggi. Ed è lì che partiranno molotov e randellate alle vetrate.
Se non avessimo visto Tremonti ripetutamente in azione, e per giunta in situazioni politiche ben più favorevoli alla sua parte, potremmo pensare che la manovra sia solo un tentativo di stallo, in preparazione di interventi veri e seri. Ma non è solo la reputazione di Tremonti e del suo governo a darla via. Né sono solo le sgangherate urla di Lega, Responsabili, notabili e carampane della carovana del Pdl. È soprattutto il modo in cui è partita la discussione sulla riforma fiscale a non promettere assolutamente nulla di buono.
Di una seria riforma fiscale il paese ha un bisogno matto e disperatissimo. E come abbiamo argomentato fino a questo punto: ora, non domani. Ma nella riforma di cui il governo parla ci sono almeno tre punti che denotano una debolissima impostazione di fondo e che rafforzano l'impressione che abbiamo avuto dalla manovra: l'inazione come politica e come strategia. Per punti veloci:
1. È senza alcun fondamento empirico l'idea che sia possibile ottenere effetti aggregati di una qualche rilevanza semplicemente slittando le imposte da una parte all'altra. Questo punto è stato spiegato molto bene da Roberto Perotti sul Sole 24 Ore, per cui non è necessario ripetere. L'imposizione fiscale va abbassata - questa è l'unica strada onesta ed efficace. Ma abbassare le tasse richiede, data l'attuale situazione del debito pubblico, che si riducano prima le spese. Non ci sono tre carte o politiche creative che tengano: ridurre le spese per abbassare le tasse.
2. È assurdo parlare della riduzione del numero di aliquote come di una "semplificazione" del sistema tributario. La semplificazione non si fa sul numero di aliquote ma sulle innumerevoli clausole, cavilli, eccezioni, esenzioni, provvedimenti speciali e chi più ne ha più ne metta che compaiono nel codice tributario. Tremonti ha invece operato con coerenza a costruire invece che ad attaccare questa "Torre di Babele" delle esenzioni fiscali: dalle misure di esenzione di straordinari e premi di produzione promulgate subito dopo la formazione del governo (e, sembra, riconfermate in questa manovra), fino ai "bonus" per l'occupazione del recente decreto sviluppo. (E stendiamo un velo pietoso su altre imbecillaggini degli ultimi mesi, come la promessa di fare di Milano un centro finanziario esentasse o la minaccia di eliminare le detrazioni a chi compra macchine troppo grosse.)
3. Non ha alcun fondamento né teorico né empirico l'idea che sia sempre e comunque bene ridurre la tassazione diretta, ossia dei redditi, in cambio di un aumento dell'imposizione indiretta, ossia sui consumi. E, francamente, non è molto bello lo spettacolo di un ministro che racconta ai suoi cittadini di voler spostare la tassazione dalle "persone" alle "cose''. Risulta infatti che quelli che pagano le imposte indirette sono effettivamente persone. L'argomento a favore di uno scambio tra imposizione diretta e imposizione indiretta è che in tal modo si ottengono due risultati. Da un lato, la riduzione dell'imposizione sui redditi incoraggia una maggiore offerta di lavoro, visto che il reddito netto è più alto. Dall'altro, la maggiore tassazione del consumo dovrebbe incoraggiare gli italiani a risparmiare di più, con conseguente espansione dell'offerta di capitale e quindi della produttività. Entrambi questi effetti sono discutibili dal punto di vista teorico. Per l'offerta di lavoro ciò che importa è il salario reale netto, ossia il rapporto tra salario nominale e livello dei prezzi. Una diminuzione delle imposte dirette fa aumentare il salario nominale netto, ma un aumento dell'imposizione indiretta fa aumentare i prezzi e quindi riduce il salario reale. L'effetto netto non è chiaro. Per quanto riguarda l'aumento della propensione al consumo, va ricordato che il risparmio è in realtà consumo futuro. Se si ritiene che l'aumento della imposizione indiretta sia permanente, ossia il livello più alto delle imposte indirette continuerà nel futuro, allora non è affatto ovvio che vi sia un incentivo a risparmiare di più. Alla fine la questione diventa di stime empiriche dei differenti effetti, e al momento non si è visto nulla di particolarmente convincente a supporto di una maggiore tassazione "delle cose", come furbescamente dice Tremonti. E forse grossi sforzi di stima non vale nemmeno la pena di farli, dato che per forza di cose l'entità di qualunque manovra non potrà che essere assai limitata.
In sostanza, un'altra falsa partenza per un paese che invece ha disperato bisogno di una partenza vera. Dopo anni passati a raccontare fandonie sui conti in sicurezza e su un paese che stava facendo meglio degli altri è comprensibile che i nostri governanti siano riluttanti a dire la verità: non sia mai che prima o poi qualcuno capisca. Come diciamo in Amerika, you can't fool all the people all the time.
P.S. Ci siamo imposti di non cadere nella facile ironia su Tremonti. Abbiamo addirittura evitato di riferirci a lui con il nomignolo con cui è diventato celebre su questo sito. Ma ciononostante vorremmo ricordare ai lettori l'incipit della canzone dei Rolling Stones che abbiamo parafrasato nel titolo, nella speranza di generare almeno un sorriso in chiusura ad un post volutamente greve. Perché a noi sembra proprio di sentirlo mormorare in sottofondo, il ministro, mentre ci dice ''please allow me to introduce myself, I'm a man of wealth and taste...''
Ma se così fosse, perché non dichiararlo esplicitamente e vincere consensi nell'elettorato che beneficia di tale riforma?