Le nozze coi fichi secchi

/ Articolo / Le nozze coi fichi secchi
  • Condividi

Dove si argomenta a favore di un aumento delle tasse universitarie.

L’università italiana si è trovata negli ultimi anni a fronteggiare difficoltà crescenti. Da un lato la normativa ha offerto margini crescenti di autonomia agli atenei, dall’altro la domanda di formazione superiore è cresciuta a livelli precedentemente sconosciuti. Una illustrazione evidente delle difficoltà create da questi due sviluppi è data dall’andamento crescente del numero di iscritti e del numero dei professori universitari (inclusi gli assistenti ordinari ma esclusi i ricercatori) nell’arco degli ultimi anni. C’e’ stata a partire dagli anni ’80 una espansione di dimensioni paragonabili alla trasformazione dell’università da università di élite a università di massa che si era verificata alla fine degli anni ’60. Tuttavia, a differenza della espansione che si verificò mezzo secolo fa, questa volta le università, grazie alla maggior autonomia finanziaria, hanno potuto rispondere con una quasi contestuale espansione degli organici, che è stata anche l’occasione per le innumerevoli “parentopoli” (cioe’ dello svolgimento di concorsi truccati per immettere in organico parenti ed amici). L’aumento del personale docente segua e compensi un precedente aumento del numero di iscritti. È chiaro che la pressione creata dall’espansione della domanda delle famiglie su risorse finanziarie (che continuano a dipendere da un finanziamento centrale) e su una dotazione di infrastrutture pressoché fissa, crea delle criticità che diventano velocemente insostenibili, come dimostra la vicenda dei tagli introdotti dal finanziamento centrale dal Ministro dell’Economia. Questa situazione richiede a nostro parere una trasformazione della organizzazione del finanziamento delle università di pari portata.

 

Affrontiamo qui un aspetto per noi strategico, ovverosia quello della trasformazione dei contributi degli studenti al finanziamento dell’università. Questa proposta è giustificata da due considerazioni: da un lato rendere meno erratico il finanziamento agli atenei (basti pensare che ad oggi gli atenei non conoscono ancora quanto sarà il loro finanziamento relativo non al 2010, ma al 2009!), dall’altro garantire una diverso rapporto tra chi si serve dell’università e chi fornisce il servizio dell’istruzione superiore.

 

Proposte di aumentare le tasse universitarie sono state avanzate anche di recente (per esempio lo ha fatto ripetutamente Francesco Giavazzi dalle colonne del Corriere della Sera), forse alla ricerca di una soluzione del braccio di ferro Tremonti-Gelmini. Ne hanno parlato qui su nfa agli albori Alberto e Andrea. Noi vogliamo invece immaginare una soluzione che vada nella direzione di una modifica strutturale del sistema di finanziamento. Tendenze simili si sono già manifestate o sono in atto in diversi paesi (basti pensare alla riforma introdotta da Blair in Inghilterra). Anche negli Stati Uniti le grandi università pubbliche stanno fronteggiando i tagli ai bilanci universitari da parte degli stati con un aumento delle tasse di iscrizione degli studenti, avvicinando la proporzione del finanziamento proveniente dagli iscritti a quella delle grandi università private.

 

Si tratta innanzitutto di una scelta tra modelli di finanziamento. Diversi paesi adottano modalità diverse di finanziamento. Molto schematicamente: i paesi nordici offrono l’università gratuitamente, grazie ad un sistema di borse di studio; i paesi dell’Europa continentale (tra cui l’Italia) mantengono contribuzione bassa da parte degli studenti, con sostegno pubblico limitato o nullo; infine i paesi anglosassoni hanno livelli più elevati di contribuzione privata, accompagnati da vari sistemi di aiuto (o in forma di debiti o in forma di borse di studio).

 

Noi riteniamo che il sistema di finanziamento italiano sia attualmente inadatto a fronteggiare l’espansione che si è verificata contestualmente alla riforma del 3+2, e che una sua profonda trasformazione sia ormai inevitabile. Da un lato il finanziamento centralizzato è incapace di tempestività, controllo degli esisti ed indirizzo, risultando quindi del tutto inutile ai fini della promozione della qualità della formazione (per non parlare della ricerca). Dall’altro esso lascia nella sostanziale irresponsabilità gli studenti e le loro famiglie, che sono indotte ad accettare uno scambio del tipo: basso prezzo-basse aspettative-bassa qualità. Magari accontendandosi dell’illusorio identico valore legale del titolo di studio tra tutti gli atenei

 

Per questo riteniamo che aumentare le tasse universitarie a carico delle famiglie sia auspicabile, per due ragioni. Da un alto perché può fornire risorse aggiuntive e più tempestive agli atenei, permettendo loro di uscire dalla morsa delle negoziazioni ministeriali (cui stiamo assistendo in questo periodo). Dall’altra perché ci aspettiamo che quando gli studenti (e le loro famiglie) facciano una scelta di formazione universitaria pagando un prezzo più alto , essi divengano più esigenti sulla qualità della formazione che ricevono, scelgano più attentamente le facoltà dove si iscrivono, controllino più attentamente la qualità dei servizi prestati, e richiedano quei cambiamenti che dal centro nessuna riforma può riuscire ad imporre. Se gli studenti impareranno a “votare con i piedi” si produrrà quella concorrenza tra atenei che può aprire degli spazi per i più dinamici tra gli stessi.

 

Ovviamente questo pone immediatamente il problema delle possibili ricadute di questi aumenti sulla scelta di iscrizione universitaria, e prima di tutto il rischio di un effetto squilibrato a svantaggio dei settori della popolazione di più basso reddito. Ci sono tre modi di affrontare (o meno) il problema.

 

Il primo è quello di “non fare nulla”, aumentando le tasse di iscrizione e lasciando che gli studenti si occupino da soli del problema di far fronte all’aumentato costo. Questa via sarebbe ingiusta dal punto di vista sociale e inefficiente da quello economico, perchè aggraverebbe lo spreco di risorse umane che affluiscono all’istruzione superiore, selezionando sulla base del censo e non delle capacità.

 

Il secondo modo è il puro modello “mutuo’’. Lo studente ottiene un prestito, garantito da qualche risorsa esterna (spesso le proprietà della famiglia di origine). Così come quando si acquista una casa, gli studenti nel mercato dei capitali trovano un finanziamento privato da restituire nel tempo, indipendentemente dalle loro possibilità di restituzione effettiva. Questa soluzione ha molti degli aspetti negativi di ineguaglianza e inefficienza della prima soluzione.

 

La terza soluzione, indicata in letteratura come “tassa del laureato” (graduate tax) adottata per esempio in Inghilterra e in Australia, è quella di legare il pagamento del prestito al reddito che il laureato guadagnerà dopo la conclusione degli studi. I principi fondamentali di questo sistema sono tre, e molto semplici.

 

Primo, lo stato paga direttamente all’Università a cui lo studente è iscritto il costo del servizio. Lo studente accende un debito con lo stato che verrà restituito in parte immediatamente e in parte in seguito.

 

Secondo, i tempi del pagamento tengono conto del reddito che il laureato consegue quando entra nel mondo del lavoro. Per esempio, solo quando questo reddito supera una soglia minima scatta la restituzione del debito, con una frazione che aumenta con l’aumentare del reddito. In questo modo la collettività offre una assicurazione implicita contro i rischi di fallimento dell’investimento universitario.

 

Terzo, il programma è gestito in comune dal Ministero dell’Istruzione e della Agenzia delle Entrate, cosicchè l’evasione sui pagamenti è resa più difficile, e l’onere del prestatore di ultima istanza resta a carico della fiscalità generale.

 

Vediamo come il programma potrebbe applicarsi nella situazione italiana. Al momento il contributo medio dello studente è intorno agli 800 euro per anno di iscrizione all’università: per la precisione, 797 euro è la tassa media con una quota di esonerati totalmente pari al 9.7%. È una media che risulta da valori estremamente differenziati, per regione e per disciplina, ma dà un’idea delle cifre di riferimento.

 

Supponiamo che le tasse di iscrizione vengano raddoppiate. Questo equivale ad un gettito aggiuntivo per le università di 1.302 milioni di euro (come risultato di 800 euro per 1.8 milioni di studenti di cui 90.1% paganti 800€ aggiuntivi per studenti, meno l’esenzione per tutti quelli che sono stimati abbandonare per effetto della manovra). Tale importo è pari al 18.31 del finanziamento pubblico del 2007 (con un fondo finanziamento universitario di 7 miliardi di euro). Porterebbe la contribuzione degli studenti ai costi dei bilanci universitari dall’attuale 11% al 22%. La manovra coprirebbe completamente il taglio imposto dal decreto “Tremonti” fino al 2013.

Quali saranno gli effetti di un aumento dei costi di iscrizione? È vera in particolare la possibilità accennata precedentemente che le ripercussioni sarebbero più forti fra i redditi più bassi?

Una nostra prima stima dimostra però che essi potrebbero rivelarsi modesti. Dai dati dell’Indagine sui Bilanci delle Famiglie Italiane condotta dalla Banca d’Italia nel 2006 l’elasticità stimata della probabilità di iscriversi all’università al reddito dei genitori , tra chi vive in famiglia in età compresa tra 18-25 anni, è pari a 0.06: questo anche quando si controlla per istruzione del padre. Se si restringe la stima a chi ha già conseguito un diploma di maturità l’effetto diviene addirittura negativo. Se prendiamo l’istruzione dei genitori come proxy del reddito permanentee il reddito familiare come proxy del reddito transitorio, un incremento della spesa per istruzione di 800 euro equivale ad una riduzione temporanea del reddito familiare del 2% (alla media del campione). Se consideriamo le stime più sfavorevoli (cioè quelle che danno il maggior peso possibile ai vincoli di liquidità), una riduzione del reddito corrente delle famiglie pari al 2% riduce la probabilità di iscrizione media dello 0.11%, un decimo di un punto percentuale. Si tratterebbe quindi di meno di 2000 studenti, che potrebbero facilmente essere esonerati dall’incremento delle tasse.

 

A nostro parere non è quindi impossibile immaginare aumenti anche consistenti delle tasse universitarie italiane, a due condizioni: da un lato che vengano aumentate le possibilità di scelta delle famiglie (attraverso per esempio la costruzione di residenze universitarie finanziate con la destinazione vincolata di parte degli aumenti stessi); dall’altra che vengano tutelate le fasce economicamente deboli (attraverso meccanismi di borse di studio erogate non solo sulla base del reddito familiare, ma anche sulla base del contesto socio-culturale, per esempio sostenendo i figli di genitori che non abbiano completato l’obbligo scolastico).

Indietro

Commenti

Ci sono 152 commenti

 

La terza soluzione, indicata in letteratura come “tassa del laureato” (graduate tax) adottata per esempio in Inghilterra e in Australia, è quella di legare il pagamento del prestito al reddito che il laureato guadagnerà dopo la conclusione degli studi.

 

Nutro alcuni dubbi sulla praticabilita' di una tale soluzione. Il principale e' relativo all' incertezza sul salario medio di partenza dei laureati. Come sappiamo da alcune ricerche sono in media piu' bassi dei nostri colleghi europei, ed inoltre la progressione della retribuzione spesso segue l'anzianita' e non il merito dell'individuo.

Come pensate sia possibile ovviare a questi problemi strutturali?

 

Una domanda. Chi e come deve aumentare le tasse universitarie a carico delle famiglie? Non so se ci siano stati ulteriori interventi legislativi, ma la legge 537/1993 prevede che le tasse di iscrizione siano fissate dalle singole università. Cito il testo della legge:

13 .  A PARTIRE DALL'ANNO ACCADEMICO 1994-1995, GLI STUDENTI UNIVERSITARI CONTRIBUISCONO ALLA COPERTURA DEI COSTI DEI SERVIZI UNIVERSITARI DELLE SEDI CENTRALI E DI QUELLE DECENTRATE ATTRAVERSO IL PAGAMENTO, A FAVORE DELLE UNIVERSITÀ, DELLA TASSA DI ISCRIZIONE E DEI CONTRIBUTI UNIVERSITARI. DALLA STESSA DATA SONO ABOLITE LE TASSE, SOVRATTASSE ED ALTRE CONTRIBUZIONI STUDENTESCHE VIGENTI ALLA DATA DI ENTRATA IN VIGORE DELLA PRESENTE LEGGE.

14 .  LE SINGOLE UNIVERSITÀ FISSANO LE TASSE DI ISCRIZIONE IN BASE AL REDDITO, ALLE CONDIZIONI EFFETTIVE DEL NUCLEO FAMILIARE ED AL MERITO DEGLI STUDENTI. PER L'ESERCIZIO 1994-1995, LA TASSA MINIMA È FISSATA IN LIRE 300.000, QUELLA MASSIMA, PER LA FASCIA DI REDDITO SUPERIORE, NON PUÒ SUPERARE IL TRIPLO DELLA MINIMA.

Successivamente è stato posto un limite piuttosto curioso. Le tasse non possono superare il 20% del Fondo di Finanziamento Ordinario assegnato a ciascuna università, indipendentemente dal numero degli studenti iscritti (quindi per assurdo una università che attira tanti nuovi studenti ha limiti più stringenti).


Torno alla domanda. Cosa proponete? L'abolizione di tale limite? Un aumento generalizzato imposto dal centro? Noto incidentalmente che la prima misura avrebbe probabilmente un effetto scarso in pratica, dato l'alto costo politico che i rettori devono sopportare se decidono di alzare il livello delle tasse.

 

basterebbe stabilire l'obbligo della dichiarazione ISEE e fare pagare in base a fasce di reddito. chi ha un ISEE basso ha diritto a vitto, alloggio ed esenzione totale dalla tasse, chi ha un ISEE altissimo non prende una lira e paga tasse altissime. tassazione progressiva per scaglioni di reddito insomma. le esenzioni attuali sono ridicole: per ottenerle bisogna essere evasori o sâdhu. poi nulla vieta di modulare in parte i massimi della tassazione in base al reddito medio futuro per la categoria o al costo che il determinato corso di studio ha per l'università. i massimi, non i minimi. per quello che mi riguarda quegli 800 euro si potrebbero anche decuplicare, basta garantire il diritto all'università a chi non può, cosa che oggi non avviene.

 

non solo sulla base del reddito familiare, ma anche sulla base del contesto socio-culturale, per esempio sostenendo i figli di genitori che non abbiano completato l’obbligo scolastico).

 

è una sorta di discriminazione positiva? si crea un gruppo specifico al di là del reddito e si promuove quel gruppo? a me non piace come soluzione se rimane slegata totalmente dal reddito stesso. il piastrellistra con la 5 elementare che guadagna 4 mila euro al mese o l'idraulico che fa il frontaliere in svizzera l'università del figlio dovrebbero pagarla lo stesso. o no?

 

 

 

Il professore Francesco Giavazzi alcuni giorni fa dalle colonne del Corriere della Sera ha proposto di eliminare il tetto alla contribuzione degli studenti agli atenei, imposto per legge, pari al 20% del finanziamento ordinario annuale dello Stato, con l'obiettivo di permettere così alle università di incrementare a loro piacimento le rette universitarie. Queste “oggi - sostiene l'economista - sono (in media) inferiori ai mille euro l'anno”.

L'economista della Bocconi ricava questa cifra, evidentemente, dalla tabella B5.1a (che si riferisce all'anno accademico 2004-5) del rapporto Education at a Glance 2008 che, effettivamente, calcola a 1017 dollari l'ammontare delle tasse universitarie che, in media, uno studente universitario italiano paga annualmente.

Eppure se si scorre quella tabella ci si accorge che, tra i Paesi dell'Ocse, rette più alte di quelle italiane si praticano in Australia, Canada, Giappone, Corea, Nuova Zelanda, Olanda, Regno Unito, Stati Uniti e Cile, mentre sono più basse in Norvegia, Polonia, Spagna, Svezia, Turchia, Austria, Belgio, Repubblica ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Islanda e Irlanda. Anzi, nella Repubblica ceca, in Danimarca, Finlandia, Irlanda, Norvegia, Polonia, Svezia non sono proprio previste tasse d'iscrizione.

Anche se non sono disponibili i dati per molti Stati dell'Ocse e difficile è il raffronto con un Paese importante come la Germania, dove le tasse variano significativamente da Land a Land, è opportuno ricordare che tra i 19 Paesi dell'Ocse che sono anche membri dell'Unione europea per i quali sono disponibili i dati solo nel Regno Unito e in Olanda le rette superano i 1100 dollari (il dato si riferisce, in assenza di quello relativo alle università pubbliche, alle “government-dependent private institutions”, vale a dire quelle che ricevono più della metà dei loro finanziamenti dallo Stato)!

Se è del tutto legittimo proporre, come fa Giavazzi, di incrementare le rette studentesche per i più agiati per finanziare borse di studio per i meno abbienti più meritevoli (come è stato recentemente sottolineato in un utilissimo volumetto, Malata e denigrata. L'Università italiana a confronto con l'Europa, l'Italia è agli ultimi posti in Europa per residenze universitarie, borse di studio, prestiti agevolati, servizi vari agli studenti come trasporti, pasti e housing), lo è meno presentare l'università in Italia come “gratuita” lasciando intendere che all'estero essa sia generalmente più costosa che da noi.

Luca Tedesco

 

 

 

[....] l'Italia è agli ultimi posti in Europa per residenze universitarie, borse di studio, prestiti agevolati, servizi vari agli studenti come trasporti, pasti e housing), lo è meno presentare l'università in Italia come “gratuita” lasciando intendere che all'estero essa sia generalmente più costosa che da noi.

Pienamente corretto - sottoscrivo interamente il commento. Purtroppo è un fatto - dimostrabile da molto tempo - che Giavazzi non conosce i sistemi universitari, e non ci sono segni positivi da nessuna parte si sbatta la testa nel dibattito sulle politiche universitarie in Italia.

Sul tema specifico ci sono dei dati freschi e molto interessanti che, nel contesto del Processo di Bologna, sono stati messi a disposizione da una indagine congiunta EUROSTAT-EUROSTUDENT (meglio, una elaborazione Eurostat di dati esistenti propri + dell'indagine Eurostudent che è una ricerca mediante somministrazione di questionari gestiti in modo diffuso da diversi gruppi di ricerca in vari paesi europei). Non ho tempo di commentare ora alcune delle informazioni e delle tabelle più interessanti, ma segnalo solo che si tratta di dati di estremo interesse. Quando sono stati presentati in marzo per la prima volta al Bologna Follow-Up Group c'erano alcuni delegati che hanno avuto un po' di soprassalto.

Purtroppo lo sclerotizzato e ideologizzato dibattito di public policy italiano è del tutto sconnesso.

RR

 

 

Eppure se si scorre quella tabella ci si accorge che, tra i Paesi dell'Ocse, rette più alte di quelle italiane si praticano in Australia, Canada, Giappone, Corea, Nuova Zelanda, Olanda, Regno Unito, Stati Uniti e Cile, mentre sono più basse in Norvegia, Polonia, Spagna, Svezia, Turchia, Austria, Belgio, Repubblica ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Islanda e Irlanda. Anzi, nella Repubblica ceca, in Danimarca, Finlandia, Irlanda, Norvegia, Polonia, Svezia non sono proprio previste tasse d'iscrizione.

 

Quanto scrivi coincide con quanto ricordo dalla lettura del rapporto. Andando a memoria (dovrei controllare) mi sembra che in generale la frazione dei costi universitari sostenuta dalle famiglie italiane sul totale della spesa per l'istruzione universitaria (inclusiva di vitto e alloggio per gli studenti che devono muoversi per accedere ad una sede universitaria) sia relativamente elevata se confrontata con la media OCSE. In ogni caso e' vero che Stati con tasse universitarie inferiori a quelle italiane hanno universita' (e societa') nettamente migliori di quella italiana e alcuni sono ai vertici sia come numero di laureati sia come risultati nella ricerca.

In generale mi sembra molto improbabile che un puro e semplice aumento delle tasse possa migliorare la situazione italiana, anche perche' la piu' plausibile e probabile interpretazione che ne dara' il governo e' quella di un semplice aumento delle tasse universitarie per reperire risorse aggiuntive a quelle gia' derivate dal budget statale, senza fare alcuna riforma che provveda i corretti incentivi meritocratici ad universita' e ricerca, e magari anche le condizioni opportune perche' un'istruzione qualitativamente buona divenga piu' correlata con il reddito e in generale il successo nella societa' italiana.

Per completezza tuttavia non va omesso il fatto che alcune universita' particolarmnente nel Sud Italia hanno delle tasse universitarie mediamente molto basse (c'e' un'articolo del Corriere della Sera dei giorni scorsi su questo fenomeno) e funzionano sul principio "chiediamo molto molto poco e in cambio diamo molto molto poco". (Incassando stipendi pubblici lavorando molto molto poco, aggiungo io).

L'articolo e' interessante. Condivido genericamente l'idea che di aumentare le tasse universitarie e abbinare a questo provvedimento l'elargizione di sussidi agli studenti. Mi rimangono tuttavia perplessita', domande e considerazioni. Soprattutto tra le varie proposte possibili, non mi sembra la piu' urgente. Penso che il vero punto nodale per l’universita’ riguardi il meccanismo di ripartizione del budget pubblico. Senza queste riforme raddoppiare le tasse universitarie non mi sembra suffciente, forse controproducente.

1- Il ritorno economico dell'istruzione universitaria in Italia e' mediamente relativamente basso: e' logico pensare che un raddopio delle tasse universitarie provochi una immediata riduzione delle famiglie disposte ad investire sull'istruzione terziaria dei figli. Da profano (sono un medico) la stima che fornite di questo effetto della manovra mi ha sorpreso. Potreste fornire maggiori dettagli sulla stima vostra e sui dati di Bankitalia che utilizzate? Come spiegate una elasticita’ cosi’ bassa della probablita’ di iscriversi all’universita’ al reddito dei genitori? La probabilita' di iscriversi e' associata linearmente al reddito familiare o in modo non lineare (mi immagino una curva a bassa pendenza per i redditi bassi e medi e poi un impennata per i redditi alti)? Come la forma della relazione puo' influenzare le vostre stime

2- Parlando di sussidi e prestiti. Mi pare esistano gia' mutui a tasso agevolato per lo studio ma non mi pare che abbiano avuto un grande successo. Mi sbaglio? Il meccanismo del prestito con tasso condizionale (mi ridai indietro una quota in base a quello che guadagni) puo’ funzionare in un paese dove gli albergatori dichiarano di guadagnare come i pensionati?

3- Un decreto centralizzato non farebbe che aumentare la dotazione finanziaria degli atenei senza incidere sugli incentivi. Una riforma di questo tipo, isolatamente, non cambierebbe il rapporto costo/beneficio di scegliere l'universita' A rispetto all'universita' B. Semplicemente entrambi aumenterebbero il copayment...Perche' questo dovrebbe indurre gli studenti a scegliere in modo diverso da come scelgono ora? Se lo scopo e' quello di far "votare coi piedi", non sarebbe meglio lasciare che i singoli atenei decidano autonomamente le loro rette e congiuntamente sussdiare le universita' in base al numero di iscritti (anche sussidare direttamente gli studenti e lasciare che spendando il loro "ticket to study" dove credono puo' andare..

4- Nell'articolo si fa cenno alla grande variabilita' delle rette universitarie nel nostro paese. Sembrerebbe quindi che gia' oggi le Universita' godano di un certo grado di autonomia da questo punto di vista. Quali sono le ragioni per cui le rette rimangono relativamente piu' basse che altrove? Esistono degli impedimenti legali ad un'ulteriore differenziazione? Esistono tetti che impediscono alle universita' di variare la proporzione del budget finanziate tramite le rette?

5- Perche' in Italia non vi e' un mercato delle Universita' private piu' ampio? La Bocconi e l'Universita' Vita e Salute e la Cattolica di Milano mi pare decidano autonomamente la loro retta che infatti e' molto piu' alta che in Statale. Perche' esistono relativamente poche Universita' private che offrono un servizio di eccellenza? Il mio sospetto e' che ci sia un problema di domanda....(basso ritorno in istruzione e il fatto che l'Italia e' un esportatore netto di laureati da anni, nonostante si facciano meno laureati di altri in termini assoluti). Se invece esistono delle limitazioni alla liberta' di impresa che frenano lo sviluppo di un mercato privato dell'universita', perche' non affrontare questo aspetto direttamente?

 

NON, ripeto NON, scrivete i commenti in MS Word (o altra cianfrusaglia equivalente) per poi fare cut-and-paste nell'editor di nFA. Gli effetti sono, molto spesso, l'introduzione delle tonnellate di spazzatura che si osservano in testa a questo commento (e che questa volta non sono state ripulite da uno di noi :-)).

Sarò anche un rompicoglioni, ma è tanto difficile scrivere direttamente sul sito usando l'editor on line? Se proprio la connessione vi cade spesso, basta fare CTRL+C di tanto in tanto ...

Non sapevo che le tasse universiatrie fossero così basse, ma credo che 800 euro siano una media nazionale, falsata da università che già oggi costano molto (LUISS, Bocconi, ad esempio) e Università praticamente gratuite che campano di Fondo Ordinario. Anche se, l'Università di Napoli "federico II" ha quasi questa media, partendo dai 320 euro minimo ISEE ai 1.020 del massimo (redditi oltre i 35.000 euro), ma credo che la media ponderata sia proprio intorno agli 800 euro.

La proposta è giusta e interessante, solo se si paga direttamente si diventerà "clienti" e si pretenderà di più, se qualcosa è gratis, o costa poco, non ha valore.

Io lavorerei anche sulla direttrice dell'abolizione del valore legale del titolo di studio, così solo chi è veramente interessato si iscrive, e comunque la combinazione nonvalorelegaledeltitolo-altetasseuniversitarie scremerebbe un pò l'attuale situazione.

E' anche giusto che sia lo studente a pagarsi in qualche modo gli studi (con il debito da ripagare nei confronti dello Stato), sgravando le famiglie da un onere che potrebbe diventare, per qualcuno, insostenibile. Ovviamente i più meritevoli dovrebbero essere "sgravati" dal rimborso del debito, combinato anche con la situazione economica-familiare. Insomma si tratta di generare quel mix di incentivi-disincentivi-merito che attualmente non esiste, e che invece proprio l'istruzione dovrebbe formare, tanto più quella Universitaria. Poi non ci meravigliamo se si sceglie la strada della raccomandazione e del familismo: è proprio l'Università a mostrare come si va avanti, da qui poi tutti i mali della società italiana. Senza istruzione...

P.s.

Resta il fatto che 99 Università sono tante.

 

E' anche giusto che sia lo studente a pagarsi in qualche modo gli studi (con il debito da ripagare nei confronti dello Stato), sgravando le famiglie da un onere che potrebbe diventare, per qualcuno, insostenibile.

 

perchè se risulta insostenibile per la famiglia non dovrebbe esserlo anche per lui?

Ovviamente i più meritevoli dovrebbero essere "sgravati" dal rimborso del debito, combinato anche con la situazione economica-familiare.

ecco, di solito quando si parla di merito ci si scorda la situazione economica e familiare.
vuoi sapere come sono fatte le cose in certe parti d'italia? all'università di bologna su proposta di CL, hanno sottratto dai fondi destinati alle borse di studio una bella sommetta per premiare gli studenti con le medie più alte, al di là di ogni considerazione sulla loro situazione economica. il premio non è automatico ma bisogna fare domanda e la cosa non è pubblicizzata per nulla. Mi sono convinto che parlare di massimi sistemi serva davvero a poco. Bisogna vedere nella pratica come si affrontano i problemi perchè le dichiarazioni di principio sono sistematicamente alterate.

oppure ancora: possiamo anche sostenere che un disincentivo per i fuori corso sia ragionevole ed utile me questo bisogna farlo solo dopo che ci sia la sicurezza che le fasce isee più basse non siano costrette a lavorare durante l'università sottraendo tempo agli studi e quindi non potendo competere decentemente con tutti gi altri che non hanno bisogno di lavorare al mac donalds di sera e nel week end. altrimenti anche la finzione delle pari condizioni di partenza va a farsi definitivamente benedire.

 

Ti posso dire, per quanto mi riguarda da studente di Laurea Specialistica all'Università di Brescia, i contributi universitari per uno studente il cui indice isee è superiore a 45.000  l'anno, quindi tutti i figli di due dipendenti/pensionati con una casa di proprietà,paga 2359 euro l'anno, con le stesse caratteristiche familiari alla laurea triennale se ne pagano 1905. 

Gli studenti putroppo non hanno coltelli dalla parte del manico, non hanno ne coltelli ne manico, nemmeno di plastica, ho fatto il rappresentante degli studenti nei consigli di corso di studio (e sto facendo il secondo mandato), e quindi non possono agire come clienti, le proposte fatte nel mio caso ad esempio nella riforma dei corsi di laurea non combaciavano con gli interessi personali dei docenti(e politiche di dipartimento) e quindi sono state ignorate (ad esempio fare un corso di laurea magistrale tutto in inglese, o non mettere esami in alternative senza senso tipo econometria e diritto del lavoro) quindi gà pagando il doppio o più dello studente napoletano le cose non cambiano.

se studia, e studia bene, sicuramente avrà un reddito diverso dai genitori

ti contesto questo. dipende da cosa studia e poi, in generale, la riuscita professionale in italia e probabilmente ovunque ma in misura diversa dipende più dal capitale sociale ed economico della famiglia che da quello culturale "istituzionale"del singolo (il merito è tutto qui, il resto è rendita di posizione che nessuno vuole né può - ovviamente - mettere in discussione) . e poi magari si scopre anche che il secondo è dipendente dal primo.

 

Ho il sospetto si sia insistito troppo su creare tanti corsi di laurea per sistemare tanti professori invece di migliorare rispetto a ciò che chiedono gli studenti una buona preparazione di base che sia riconosciuta dal mondo del lavoro... e invece all'estero i titoli italiani non sono neanche riconosciuti. Poi come è capitato a me senti che quelli che vanno ad un'altra università (PD) dicono che la loro università è meglio di quella a cui vado io e il selezionatore casca dalle nuvole e premia l'opportunismo, e poi dai dati emerge che quelli dell'altra università sono stati valutati come migliori e i selezionatori ne terranno conto in futuro.

L'aumento delle tasse universitarie ce lo si deve guadagnare e no che devo andare a fare il master perchè l'università snobba il mondo delle imprese.

Tra l'altro i corsi aggiuntivi per sistemare questo o quel professore con pochi alunni non sono neanche innovativi e non possono assolutamente essere messi in una triennale.

Potrei anche avere i migliori professori del mondo ma se non mi è riconosciuto non ti pago, anzi cerco un'università telematica low-cost in giro per il mondo e va** Italia.

Mi spiegate come può venirgli a uno la voglia di studiare se per chi assume è come se si fosse fatto una vacanza, la scuola di palo alto di mai dire gol di qualche anno fa :x. Finisce che sei ancora più sovraqualificato per il lavoro che andrai a fare e quindi molto meno produttivo.

Una cosa buona del prezzo è invece proprio il discriminare, un 50% dei laureati è già condannato a non fare un lavoro da laureati e ad essere insoddisfatto e demotivato, con costi per l'azienda (assenteismo e turnover) e sociali (emarginazione e devianza).

 

ma una progressive graduate tax che effetto avra'

1) sull'incentivo ad accumulare human capital?

2) e sulla scelta della major universitaria? non ci sara' un'enorme distorsione a favore delle lauree improduttive, che ti fanno cazzeggiare tanto prima e guadagnare poco dopo (tipo sociologia, filosofia, antropologia, scienze della comunicazione) rispetto a quelle che ti fanno cazzeggiare meno ma guadagnare di piu' dopo? in altre parole non avremmo una allocazione ancora piu' distorta di quella che gia' abbiamo del talento?

3) e sui comportamenti post-graduation? vogliamo veramente una tassa on top of the other taxes on the most productive members of our society?

secondo me un sistema di mutuo distorce meno su molti di questi margini (per esempio, rispetto al margine 2) allinea gli incentivi) e se si e' preoccupati di possibili inequita' lo si complementa con un sistema di prestiti pubblico che enfatizza il merito sul collateral.

 

 

Grazie dell'articolo. Credo che la questione del finanziamento dell'universita' sia cruciale. Mi permetto di lasciarvi un paio di considerazioni.

 

Sul fronte delle ENTRATE, in un paese di evasori ed elusori, collegare la quota rimborsata al reddito (dei genitori, futuro, ecc.) NON mi convince.

Perche' non legare invece il pagamento delle tasse alla performance dello studente?

Si potrebbe: 

(1) esonerare dalle tasse il miglior X per cento degli studenti ogni anno.

(2) far pagare i crediti separatamente (Y euro/credito) aumentando il costo ogni volta che lo studente ripete l'esame. Tra i vantaggi: maggiore flessibilita' per lo studente che puo' scegliere di rallentare senza perdere le tasse pagate per l'intero anno; minore affollamento agli esami, viene meno l'incentivo a 'provarci' visto che la bocciatura si traduce in maggiori costi.

 

Sul fronte delle SPESE, perche' non ridurre (dimezzare!) il numero di atenei?

Si risparmierebbero un sacco di soldi utilizzabili per migliorare i servizi offerti dagli atenei rimanenti  (alloggi per gli studenti, laboratori, ecc.)

 

 

Sul fronte delle SPESE, perche' non ridurre (dimezzare!) il numero di atenei? Si risparmierebbero un sacco di soldi utilizzabili per migliorare i servizi offerti dagli atenei rimanenti  (alloggi per gli studenti, laboratori, ecc.)

 

A me sembra che ridurre gli Atenei riduca le spese dello Stato ma non la spesa totale per l'istruzione in Italia, parte della quale e' sostenuta dalle famiglie (vitto e alloggio fuori casa, viaggi); forse la spesa totale aumenta.

Certamente vanno eliminati gli Atenei troppo piccoli, quelli che hanno un bacino di utenza naturale troppo ridotto e/o sono talmente malcondotti da essere evitati anche dai locali.

 

(2) far pagare i crediti separatamente (Y euro/credito) aumentando il costo ogni volta che lo studente ripete l'esame. Tra i vantaggi: maggiore flessibilita' per lo studente che puo' scegliere di rallentare senza perdere le tasse pagate per l'intero anno; minore affollamento agli esami, viene meno l'incentivo a 'provarci' visto che la bocciatura si traduce in maggiori costi.

 

Questo metodo funzionerebbe in un mondo ideale, ma nel mondo reale esistono in tutti gli atenei alcuni corsi che sono notoriamente piu' difficili da passare indipendentemente dall'impegno, vuoi per la mancanza di materiale, vuoi per la palese volonta' del professore di essere molto pignolo. Tutto questo senza considerare i corsi in cui il professore boccia studenti in base a simpatie o a criteri palesemente deviati del tipo "non hai comprato il mio libro, allora non passi l'esame", etc.

 

Il Ministro ha appena reso nota la distribuzione del famoso 7% del FFO alle università meritevoli. Traduzione in italiano: il 7% del finanziamento è distribuito sulla base di un mix di criteri - 2/3 alla performance di ricerca e 1/3 didattica. La ricerca è misurata per metà sui risultati valutati dal CIVR e per metà sulla capacità di attrarre finanziamenti nazionali ed europei. La cosa è seria, con percentuali variabili da +11% rispetto al  finanziamento a legislazione invariata a Trento (Miracolo!!!) a - 3% per Palermo, Messina, Foggia e Macerata. Dato che la spesa per stipendi è in media il 90% del totale sono percentuali rilevanti - ed anche tanti soldi (Roma I col -2.1% perderebbe circa 12 milioni su 585).

 Mi sembra un'ottima notizia. Ora vediamo come reagiscono i professori italiani

Non dubito che nel Paese del campionato di calcio giocato ogni giorno dai tifosi, e del Campanile, le classifiche "purchessia" produrranno un animato dibattito.

Come sappiamo bene, le classifiche ominicomprensive in cui si mescola "allegramente" un po' tutto, didattica, ricerca, discipline, aree, contesti non servono ad una vera politica per la qualità. Del resto non si fa così da nessuna parte del mondo - e in particolare do ve di valutazione ne sanno e ne praticano molto più che in Italia e dalle parti del Ministero. La qualità e la valutazione sono concetti troppo importanti per lasciarli in mano a chi non ne sa niente.

Comunque, sicuramente, il merito di aver acceso una nuova "fase" del dibattito e delle discussioni in materia di politiche universitarie va riconosciuto, e vi parteciperemo con rinnovato entusiasmo...

RR

Mi sembra veramente un'ottima notizia.  Non mi stupisco di Trento, provocatoriamente si puo' osservare che piu' lontano si va da Roma e piu' vicino si va al Nord-Europa e piu' i risultati delle attivita' statali italiane migliorano.  A Bolzano perfino la giustizia funziona molto meglio del Botswana e non molto peggio dell'Austria, grazie ad Axel e colleghi.  Per quanto riguarda Roma, so che hanno facolta' di Fisica ai vertici italiani ed europei, e ipotizzo che le facolta' al livello del Botswana siano forse altre come medicina, legge. Spero che l'evidente constatazione della diversita' interna agli Atenei stimoli qualcuno a proporre, come sarebbe estremamente opportuno, che i finanziamenti vadano primariamente ai Dipartimenti, sulla base di confronti tra Dipartimenti delle stesse discipline, piuttosto che agli Atenei che al loro interno sono molto compositi.

 

 Mi sembra un'ottima notizia. Ora vediamo come reagiscono i professori italiani

 

I professori italiani hanno quello che in gergo si chiama posto fisso; il 90% del fondo di finanziamento ordinario va a pagare gli stipendi quindi semplicemente tagliare sul fondo non puo' che portare scompensi perche' a) il personale docente fancazzista (PDF) rimarra' comunque al proprio posto b) dovendo l'universita' continuare a pagare il PDF si trovera' costretta ad azzerare le altre forme di spesa del fondo ordinario che vanno dalla carta igienica alle due lire date alla ricerca. Immagino quindi che il personale amministrativo e i ricercatori a contratto / assegnisti saranno gli unici a venire fatti da parte per mancanza di fondi.

Io avrei applaudito una riforma che togliesse di mezzo il PDF: mandateli al ministero dei buchi vuoti, dategli una pensione di invalidita' , non mi interessa. Ma toglieteli di torno. Finche' sono loro a mantenere il posto fisso niente cambia.

Aggiungo: i criteri di valutazione sono troppo fumosi e gli incentivi ad assumere personale di valore ancora troppo deboli. In soldoni, io ho un criterio molto pragmatico per valutare la bonta' di una riforma. Mi pongo la domanda: aiuta uno come me a tornare in italia dopo anni fuori, e avendo un buon CV? La risposta e', anche questa volta, no.

 

 

Anche io sono scettico sul rimborso del prestito in base al reddito .... vista la facilità dell'evasione in Italia.

Sono stato confrontato con il sistema universitario svizzero (quello federale dei due politecnici di Zurigo e Losanna) e vedo che rette abbastanza basse (1400 CHF sono meno di 1000€) non si trasformano in bassa qualità. Anni fa avevo calcolato il costo medio per studente (i costi dei sistema universitario federale diviso per gli studenti frequentanti) ed era attorno ai 100'000 CHF. Quindi le tasse sono una minima parte. La qualità è funzione quindi di ben altro: in un politecnico ritengo dipenda dalla qualità dei professori, dei ricercatori, della strumentazione di laboratorio, dei collegamenti con le imprese tecnologiche di punta ed i progetti di ricerca che ne scaturiscono.

In CH vige un sistema di borse di studio cantonali che coprono le rette ed il materiale didattico per chi ha una sede scolatica vicina alla residenza ed anche vitto, alloggio e trasporti per chi è fuori sede e torna ogni w-e. E' anche possibile chiediere un prestito, da rendere dopo gli studi.

Tuttavia la borsa di studio viene erogata solo se uno studente è in regola con il piano di studi.
Se si perde l'anno e bisogna rifarlo, quello non sarà finanziato dalla borsa di studio.
Se si perde l'anno una seconda volta è il politecnico ad accompagnarti alla porta e ti devi cercare un'altra università. A livello universitario ci sono anche istituti privati (fondazioni) con rette di 8'000 CHF.

Chiaramente esiste un concetto di "anno". Tutti gli esami quindi devono essere conclusi positivamente. Non esiste il concetto di fuori corso. Uno è sempre in un corso ed al massimo puo' ripetere un anno una sola volta. Per questo motivo professori "stronzi" che si divertono bocciare per sfizio non esistono. Se esistessero credo sarebbero eliminati in modo darviniano dagli studenti e dall'università stessa. Non mi sembra quindi che questo possa essere un problema.

Tornando al tema del finanziamento dell'Università, ritengo che rette elevate siano la soluzione per università private o per quelle pubbliche in affanno ma che cio' che conti veramente sia la qualità dell'insegnamento. Questa è a mio avviso in funzione al 99% dell'investimento complessivo (dei capitali messi a disposizione) e non della retta. Lo studente che si iscrive perché la retta è bassa ed ha una borsa di studio, deve essere incanalato in un piano di studi rigoroso e con cui non puo' giocare. Deve sapere che se non passa è fuori ed ha una sola possibilità di errore.

Ciao,
Francesco

Ciao a tutti,

sono uno studente in Economia Politica fuori corso da molti anni: approfitto di questo spazio per segnalare alcuni punti dal mio "basso" punto di vista. Ho visto la riforma 3+2 trasformare esami "bibbia" da 1000 pagine, fondamentali per il corso, difficilissimi da superare (scritto + orale) anche dopo 3 mesi di lezioni, in dispensine da 150 pagine, superabili dopo un test vero/falso e 1,5 mesi di lezioni. Ho visto compagni di corso diventare, una volta laureati, veri e propri "portaborse" del proprio mentore, allettati da qualche esercitazione in aula e un assegno a rinnovo (forse, dipende dai rapporti con il prof) annuale. Ho sentito il prof di Eco Politica II dirci a lezione:"Voi avete poco perchè pagate poco", svalutando così noi studenti, se stesso, il suo Phd a Yale, la materia che insegnava (o meglio, di cui ci riferiva), le buone professionalità e soprattutto usando una scusa per lavorare meno. Tutto questo per dire che non saranno maggiori rette pagate dalle famiglie a cambiare tutto questo: vogliamo veramente credere che chi redige gli orari delle lezioni sarà più incentivato a non sovrapporli ? O che il prof sarà più sereno e tranquillo per fare ricerca a go-go oppure per fare più seminari ed essere più presente al ricevimento studenti ? Nossignori: ci sarà moral hazard, perchè il carrozzone universitario (che nessuno controlla e valuta) potrà restare in piedi grazie al maggior contributo delle famiglie, che peraltro hanno pochi strumenti di valutazione ex ante (la fama del campus ? il passaparola ? gli amici ? i blog su internet ? il massimo dell'attendibilità !!). Per quanto riguarda l'eccelso Dip di Fisica di UniRoma, segnalo una puntata della trasmissione di Rai3 "W L'italia" poi ripresa da "Report" dove si mostrava una ragazza di roma laureata alla sapienza in fisica dei nanomateriali: la si mostrava a Princeton (se non ricordo male) ad insegnare e soprattutto a gestire un budget di svariati milioni di dollari datole dal Pentagono per studiare i materiali superconduttori: si mostravano poi i laboratori parzialmente funzionanti negli scantinati del dip di fisica di roma e gli uffici affollati dei dottorandi: questo per dire che Roma non è proprio il massimo ...Scusate se non riesco ad essere più preciso

Grazie per lo spazio e grazie per la vostra passione

Cristian

sono uno studente in Economia Politica fuori corso da molti anni: approfitto di questo spazio per segnalare alcuni punti dal mio "basso" punto di vista. Ho visto la riforma 3+2 trasformare esami "bibbia" da 1000 pagine, fondamentali per il corso, difficilissimi da superare (scritto + orale) anche dopo 3 mesi di lezioni, in dispensine da 150 pagine, superabili dopo un test vero/falso e 1,5 mesi di lezioni

Colgo l'occasione di questo intervento per un ulteriore commento sulle importanti questioni didattiche. I docenti italiani non sanno insegnare - nel senso che non hanno le conoscenze e le competenze adeguate alle necessità e alle sfide della professione che svolgono. Nel merito, si legge e si sente dire che "la riforma 3+2 ha obbligato... questo e quest'altro". Questo tipo di ragionamento è fatto a bella posta per porre in atto uno schema autoassolutorio nei confronti dell'opinione pubblica e delle autorità politcihe. La riforma 3+2 non ha obbligato praticamente niente di quello che si dice - in particolare il c.d. "sminuzzamento" di corsi ed esami. Quello che "avrebbe" obbligato a fare - se fosse stato fatto bene - è solo la stima del tempo di apprendimento dello "studente tipico" dei loro corsi, ai fini della distribuzione del carico didattico in modo più appropriato alla programmazione degli obiettivi didattici e della relative attività formative.

In particolare, tanto per essere chiari, l'unico obbligo vero e proprio era quello di congegnare dei corsi e degli obiettivi adeguati a formare baccellieri in 3 anni e maestri in altri 2, anzichè maestri in 4-5. Se un corso di profilo accademico superiore veniva prima propinato con l'ausilio di un testo di 1000 pagine e (immagino) una interrogazione su tutti i contenuti ivi riportati, suppongo che la stima ragionevole del tempo di apprendimento di tale corso avrebbe dovuto aggirarsi sui 20 crediti. Allora, delle due l'una: o c'era un errore di progettazione del corso prima, che andava quindi comunque corretto, oppure la competente autorità didattica (il Consiglio di Corso di Laurea) avrebbe comunque potuto autorizzare un simile corso, affiancato però da altri corsi di contenuto più modesto, in modo da rispettare il tempo nozionale di apprendimento dello studente "tipico" rappresentato in 60 crediti per l'intero anno. Tutto il resto è fuffa.

Ho sentito il prof di Eco Politica II dirci a lezione:"Voi avete poco perchè pagate poco", svalutando così noi studenti, se stesso, il suo Phd a Yale, la materia che insegnava (o meglio, di cui ci riferiva), le buone professionalità e soprattutto usando una scusa per lavorare meno.

Dica a quel Professore che in Europa si paga quasi sempre meno che in Italia, e si insegna meglio. Andasse ad imparare i ferri del mestiere dai suoi colleghi olandesi, inglesi, scozzesi, irlandesi, scandinavi, ma anche tedeschi e francesi (e se vuole più sole, anche in Catalogna).

RR

 

Per quanto riguarda l'eccelso Dip di Fisica di UniRoma, segnalo una puntata della trasmissione di Rai3 "W L'italia" poi ripresa da "Report" dove si mostrava una ragazza di roma laureata alla sapienza in fisica dei nanomateriali: la si mostrava a Princeton (se non ricordo male) ad insegnare e soprattutto a gestire un budget di svariati milioni di dollari datole dal Pentagono per studiare i materiali superconduttori: si mostravano poi i laboratori parzialmente funzionanti negli scantinati del dip di fisica di roma e gli uffici affollati dei dottorandi: questo per dire che Roma non è proprio il massimo ...

 

Con citazioni aneddotiche si puo' mostrare tutto e il contrario di tutto. Se leggi pag.40 del rapporto 2007 del Centre for Higher Education Development tedesco puoi constatare che La Sapienza di Roma e' ai vertici europei per risultati di eccellenza in Fisica.  Ovviamente Roma si trova in Italia, anzi per molti aspetti e' l'esempio dello sfascio dello Stato italiano, per cui e' scontato che gli edifici e i laboratori siano sporchi e fatiscenti, le infrastrutture insufficienti e di qualita' scadente, gli investimenti miserabili, l'organizzazione inefficiente e demenziale, il personale parauniversitario di dubbia qualita' e tendenzialmente inoperoso. Tuttavia per ottenere buoni risultati di fisica teorica non sono indispensabili ne' laboratori puliti e moderni, ne' grandi investimenti, e nemmeno una buona organizzazione di squadra.  Servono risorse umane di qualita' e una tradizione decente di insegnamento se non di massa almeno d'elite: a Roma La Sapienza questi due fattori ci sono. C'e' poi un'intera tradizione di Fisica delle particelle che era ai vertici mondiali negli anni '30 e si mantiene di livello piu' che dignitoso ancora oggi, usando indicatori obiettivi.  Tutto cio' non significa che non si possa migliorare tantissimo anche a Fisica alla Sapienza di Roma, dove il numero di Nobel in attivita' diviso il totale degli studenti sara' infimo o nullo in confronto ad Harvard. Ma per migliorare qualcosa nell'Universita' italiana e' necessario almeno riconoscere quali Dipartimenti competono onorevolmente e quali sono invece sgomitano ai livelli del Botswana.

 

 

 

Il dibattito sulla proposta che Daniele e io abbiamo fatto e’ stato intenso, e secondo me,  interessante. Inizio a rispondere io, prima che l’interesse cada. Naturalmente la responsabilita’ dei commenti e’ solo mia.

 

Procedo concentrandomi sulle osservazioni critiche, riassumendo l’obiezione in una frase, esponendo quello che a me pare il senso della critica, e poi presentando la risposta. In molti casi, come si vedra’, a me pare che la proposta iniziale possa essere modificata in meglio.

 

"Inutile e dannosa"

Il punto piu’ generale che e’ emerso in diversi interventi, e anche da conversazioni avute direttamente con esperti ed economisti, e’ che la riforma delle tasse universitarie da sola e’ inutile o dannosa o tutte e due le cose. La ragione per cui sarebbe inutile e’ che il nuovo finanziamento sarebbe semplicemente una sostituzione dei fondi pubblici, o addirittura darebbe il pretesto per ulteriori riduzioni dei fondi pubblici all’istruzione universitaria. Le ragioni per cui sarebbe un peggioramento e’ che niente cambia del resto. Per esempio, la riforma non cambia nulla del vantaggio per lo studente di scegliere una universita’ migliore, perche’ tutte le universita’ aumenterebbero le tasse in modo proporizionale.

 

Rispondo che la riforma delle tasse di iscrizione universitaria non e’ mai stata pensata come un provvedimento unico. Un aumento dell’efficienza e della competizione fra universita’ e’ necessario. Lo strumento della valutazione della qualita’ dell’insegnamento e soprattutto della ricerca e’ una riforma che va realizzata in parallelo. Ma noto che la riforma delle tasse di iscrizione da’ uno strumento in piu’ alla realizzazione di competizione nell’ universita’. L’aumento percentuale delle tasse di iscrizione potrebbe essere collegato alla valutazione data dal CIVR o dall’ organismo che lo sostituira’: migliore la valutazione di una certa universita' (o meglio ancora, come e' stato notato nel dibattito, di un certo dipartimento),  piu’ alto l’ aumento permesso. Su questo punto ritorneremo, ma l’idea e’ chiara.

 

Secondo, c’e’ una tendenza generale, che e’ anche in atto negli USA, e anche nelle scuole pubbliche, a sostituire i fondi pubblici con quelli privati. Questa tendenza si realizzera’ anche in Italia, ed e’ oggi resa piu’ forte dalla crisi. La nostra proposta mira a regolare questa trasformazione. Prima di tutto riducendo l’effetto che potenzialmente ha di limitare la partecipazione di studenti capaci ma con risorse economiche limitate. Poi di migliorare gli incentivi che studenti e genitori hanno di controllare la qualita’ dell’istruzione offerta. Si e’ notato giustamente (come da dati riportati di recente dal Corriere, e qualche tempo fa dal Sole 24 Ore) che c’e’ in atto un patto implicito per cui gli insegnanti nelle universita’ meno efficienti chiedono poco per avere la garanzia di dover lavorare poco. Osservazione giusta, e patto indegno. Ma l’offerta di istruzione universitaria, cosi’ come l’offerta di ogni altro bene, e’ differenziata per qualita’ e prezzo. Con l’abolizione del valore legale del titolo di studio (che auspico) la garanzia formale del valore di certi titoli universitari sara’ persa. Rimarra’ il valore di mercato di un titolo a basso costo e di bassa qualita’.  Naturalmente anche la garanzia di uno stipendio pubblico indipendente dalla qualita' del servizio offerto andra' rivista.

 

"Siamo in Italia".

In Italia i redditi non si conoscono, per l’evasione fiscale generalizzata, quindi l’idea centrale che la riscossione dipende dal reddito accertato e’ ingenua.

Il problema c’e’ ma per quello che abbiamo in mente non e’ grande come l’obiezione sembra suggerire. Per i redditi da lavoro indipendente l’evasione c'e' ma e’ ridotta, anche al sud. Per i redditi da lavoro indipendente l’evasione e’ enorme. L’evasione ha punte di 80 per cento per attivita’ come ripetizioni private, ma anche (piu’ rilevanti per noi) del 45-50 per cento per avvocati, architetti, psicologhi, intorno al 30 per avvocati medici e notai e cosi’ via. L’evasione, ripeto particolarmente nel caso del reddito da lavoro indipendente, e’ grossa. Ma il pagamento collegato al reddito non richiede la valutazione esatta del reddito. Il pagamento scatta quando si supera una soglia minima. I dati che ho riportato dimostrano che l’evasione puo’ rallentare questo pagamento, non eliminarlo. Il punto da determinare e’ la soglia del reddito alla quale scatta l’obbligo di iniziare i pagamenti. In Australia oggi e’ intorno ai 42 mila dollari australiani, un po’ sopra il PIL procapite (che e’ di 37 mila dollari USA, in Italia e’ intorno ai 31 mila). A me questa soglia pare generosa, forse troppo, e molto generosa e’ anche la condizione che sul prestito non si paghi interesse. Questi aspetti dell’esperienza australiana e inglese potrebbero dover essere modificati.

 

"Incentivi al rendimento".

Un punto collegato e importante e’ che sarebbe utile collegare il pagamento al rendimento negli studi. Per esempio, citando testualmente uno dei commenti, si potrebbeesonerare dalle tasse il miglior X per cento degli studenti ogni anno, o far pagare i crediti separatamente (Y euro/credito) aumentando il costo ogni volta che lo studente ripete l'esame.

 

Io sono d’accordo con queste che vedo integrazioni della proposta originaria. La condizione che il prestito venga pagato solo quando il reddito raggiunge una certa soglia e’ un incentivo in parte perverso, perche’ premia (oltre che all’evasone) un rendimento peggiore: piu’ basso e’ il rendimento piu’ basso il costo. Il legame al rendimento negli studi corregge questo collegamento.

 

"Il provvedimento e’ illegale per la legislazione vigente".

E’ un punto che affrontiamo nell’articolo: sono necessarie per l’attuazione di questa proposta, o di proposte simili, alcuni cambiamenti della legislazione esistente.

 

 

 

 

 

Secondo, c’e’ una tendenza generale, che e’ anche in atto negli USA, e anche nelle scuole pubbliche, a sostituire i fondi pubblici con quelli privati. Questa tendenza si realizzera’ anche in Italia, ed e’ oggi resa piu’ forte dalla crisi.

 

Una piccola osservazione. Come mostra questo grafico, in Italia la tendenza generale si è in parte realizzata. Inoltre siamo in linea con la media OECD e solo leggermente sotto il Regno Unito.

 

... sono gli accademici italiani che scrivono (e pubblicano, colleghi de La Voce, e pubblicano ...) articoli senza capo né coda come questo.

A parte che confronta patate con cavoli (quante università italiane hanno ora e potrebbero avere in un sistema competitivo aperto, dei corsi di dottorato confrontabili con quelli degli atenei USA che l'autore dell'articolo usa per fare i suoi confronti?); a parte che la varianza negli USA è grande (anche negli atenei d'elites che usa per il confronto) mentre essa è zero in Italia, quindi confrontare medie è insensato; a parte che il carico di lavoro non è nemmeno confrontabile (quanti corsi insegna il professore di ruolo "medio" italiano? Quante ore di ricevimento studenti fa?); a parte che negli USA la varianza è notevole anche per discipline (anzi, forse soprattutto per discipline) e quindi la composizione per discipline va tenuta in considerazione ed i confronti fatti adeguatamente (lo storico medio italiano non guadagna molto meno dello storico medio USA, nemmeno di quelli di elite); a parte che un tasso di cambio 1,1 sembra fuori luogo assai visto che i dati sono 2007/08 ...

... a parte tutti gli errori precedenti, che rendono il confronto insensato, la cosa veramente, come dire, notabile è il commento politico finale con proposta di riforma:

 

[...] è perciò necessario, per molti settori di ricerca, un deciso innalzamento del profilo retributivo non solo dei ricercatori, ma anche dei livelli di ingresso dei ruoli di associato e di ordinario.
Gli attuali profili retributivi dei ricercatori e gli ostacoli alle promozioni ai ruoli successivi  attraverso un sostanziale rallentamento della cadenza delle procedure di valutazione e il blocco del turn-over, appaiono invece la ricetta sicura per perpetuare il continuo e progressivo allontanamento dall’accademia italiana dei migliori talenti. Premiare il merito significa anche retribuirlo in modo congruo: [...]

 

P.S. Si', ho letto, alla fine-fine dice anche che ci vorrebbe il tenure-track all'entrata invece del posto fisso subito. Ottimo. Ma anche lo stipendio fisso e gli avanzamenti garantiti per il resto della carrieta vanno tolti, altro che innalzamento dei profili retributivi! E magari tre corsi da insegnare all'anno, quando non son quattro? Chissà perché non menziona di quanto si ridurrebbero gli stipendi di molti accademici italiani se il modello USA venisse importato!

Quello che mi colpisce di piu' di quell'articolo e' che da' per scontato che i migliori in italia non ci tornano perche' non vengono pagati abbastanza - in realta' non e' nemmeno quello il punto. Tornare in Italia e' impossibile soprattutto perche' il sistema e' talmente clientelare che chi arriva da fuori, senza connessioni, e' guardato con sospetto.

Io sono sul job market in questi mesi: ci ho pure provato a mettermi in contatto con alcuni posti e provare a investigare un rientro in Italia. Nisba. Il massimo che ho rimediato e' un "Ottimi lavori. Ci faccia sapere quando passa da queste parti che forse la invitiamo ad un seminario".

Qualcosa mi dice che, stando cosi' le cose, se una posizione da ricercatore o da associato diventasse economicamente piu' appetibile sarebbe pure peggio per chi vuole tornare.

 

Caro Michele

Guarda che l'articolo è utile. anche se fatto con i piedi. Siamo in Italia. I professori italiani (specie "anziani") sono convinti di essere sottopagati. Giusto stamani ho mandato un link ad una lista di discussione molto corporativa (UNILEX@list.cineca.it) -iscriviti se vuoi capire l'università italiana) ed ho aggiunto

"Ricordo che il PIL medio italiano pro-capite (pre-crisi) è pari al 60% di quello americano (circa 19000 euro in PPP vs 31000). Quindi, tutti i redditi dovrebbero essere circa due terzi di quelli USA. La proporzione è rispettata verso la fine della carriera in ciascun ruolo (ricercatori anziani, professori associati anziani, professori ordinari anziani) non all'inizio"

Risposta di un professore di ingegneria, lunghetta ma merita

"Per quanto riguarda l'utlima analisi di Federico sulla comparazione delle
retribuzioni, mi permetto tre considerazioni:

- quale PIL? Ci mettiamo anche il 30% in nero?
- lo stipendio "lordo lordo" italiano (quello a carico del datore di lavoro) e'
mediamente 2.2 volte lo stipendio netto. Come ne teniamo conto?

(e infine, piu' importante di tutte)

- la mercede è concordata sulla base delle reciproche necessita' e
disponibilita' di datore di lavoro e lavoratore nella societa' nazionale, non
su basi automaticamente identificabili in sede internazionale da un singolo
indicatore economico (che, per di piu', gode di cattiva stampa tra i veri
tecnici come, d'altra parte - per cose che ci riguardano, i vari indici di
valutazione delle pubblicazioni e delle riviste).


NB PARMA, alla faccia delle università del Nord

 

 

 

Consiglio a Giovanni di togliere il nome dell'autore e limitare al minimo la citazione se l'autore del messaggio non ha dato consenso per la diffusione.

Ho scritto un commento piuttosto acido sul sito de lavoce.info in risposta all'articolo citato da Michele, notando fra l'altro che il pil pro capite ppp degli USA e +40% rispetto a quello italico. Quell'intervento e' realmente indifendibile.  Non include i contributi previdenziali nel confronto, che pesano molto piu' per l'Italia, e per gli USA considera solo le universita' che danno i dottorati di ricerca.  Ma sia il sistema USA sia quello italiano sono sistemi di massa, che danno istruzione ad una frazione comparabile di tutti i 18-24enni: perche' mai i compensi italiani dovrebbero essere agganciati solo ai compensi della frazione piu' valida e ben pagata degli USA?

Sembra che parecchi commentatori (immagino quelli che non vivono, in Italia, dello stipendio italiano?) siano fortemente concentrati sulle nostre retribuzioni, a loro parere eccessive. Tra l'altro, sono sdegnati del nostro diffuso malcontento a proposito di queste stesse retribuzioni.

Ma non si capisce perchè io debba essere impressionato dal fatto che un mio collega UK o USA guadagni quanto me. Dopotutto, la professione accademica è materialmente screditata anche lì, e se, per dire, vendessero prodotti finanziari sarebbero probabilmente assai più ricchi.

Poi getto uno sguardo ai miei compagni di corso all'università e scopro che in termini reali "stanno" invariabilmente meglio di me. Molto motivante. Se volete introdurre miglioramenti qualitativi usando la leva dello stipendio, fatelo verso l'alto, non verso il basso con intenti che sembrano esplicitamente punitivi. 

 

Ho spesso visto molti ricercatori pensare che ci dovrebbe essere qualcun altro (e.g. il Governo) che pensi a loro (e.g. come organizzarli) e che dovrebbe dargli di piu' (e.g. piu' finanziamenti e piu' soldi).

E' un atteggiamento sbagliato, e penso che abbia contribuito in maniera importante alla situazione attuale. A questo mondo niente e' dovuto a nessuno! Il mondo della ricerca dovrebbe giustificare i soldi che chiede, come succede in altri ambiti del mondo "normale".

Se un ricercatore non va fuori dall'accademia a sporcarsi le mani e spiegare perche' la ricerca e' importante, la gente non lo capisce e non gli da i soldi.

Se un ricercatore non spiega a fronte di quali risultati e di quali obiettivi bisognerebbe aumentargli lo stipendio, la gente non lo capisce e non gli da i soldi.

Quello che vedo nell'universita' Italiana e' spesso persone in ultima analisi arroganti che operano in un sistema inefficiente e con pochi risultati.

Se una persona si stufa di stare in questo sistema e di guadagnare poco, e' libera di lasciarlo, immagino.

 

Sembra che parecchi commentatori (immagino quelli che non vivono, in Italia, dello stipendio italiano?) siano fortemente concentrati sulle nostre retribuzioni, a loro parere eccessive. Tra l'altro, sono sdegnati del nostro diffuso malcontento a proposito di queste stesse retribuzioni.

 

Potresti citare nel dettaglio cosa contesti?  Le retribuzioni italiane sono assurde perche' troppo basse ad inizio carriera ed eccessive per gli ordinari a fine carriera.  Inoltre rispetto agli USA sono maggiori i differenziali tra ricercatori, associati e ordinari.

Il sistema italiano accomuna quindi eccessi di tipo diverso: ricercatori a inizio carriera con salari miserabili e ordinari a fine carriera con salari medi eccessivi tenuto conto che la loro attivita' non e' stata praticamente mai seriamente valutata.

Pertanto e' possibile criticare il sistema italiano sia perche' sottopaga i giovani ricercatori (e quindi recluta nel mercato internazionale o nessuno o i peggiori) sia perche' superpaga gli ordinari a fine carriera, senza controllare la loro attivita' e quindi richiama dal resto del mondo improduttivi professori a fine carriera e desiderosi di non far nulla.

Avrebbe dovuto leggere più attentamente prima di commentare.

Non ricordo se in questo articolo, ma più volte su questo sito si è insistito sul fatto che gli stipendi da ricercatore in Italia sono esigui, mentre quelli da ordinario eccessivi.E si è sempre criticato il fatto che vengano fissati per legge anzichè trattati caso per caso.

Sembra che parecchi commentatori (immagino quelli che non vivono, in Italia, dello stipendio italiano?) siano fortemente concentrati sulle nostre retribuzioni, a loro parere eccessive.

Anch'io ho scritto una risposta di getto alla voce appena visto l'articolo, credo si troveranno con un bel po' di commenti simili :-) ... ho sottolineato che il problema non e' che sono eccessive, in media, il problema e' che la varianza e' zero! Le tabelle mostrano solo che la media non e' poi tanto bassa. Quindi alzare le retribuzioni a tutti serve a poco. Bisogna alzarle a qualcuno, e abbassarle a qualcun altro.

io non ho le vostre competenze in fatto di gestione aziendale (scrivo questo mio primo commento con un po' di imbarazzo), sono solo uno che dopo un phd ha insegnato e fatto ricerca con contrattini per qualche anno e poi ha deciso/capito che non era una vita compatibile con una famiglia (bimbi piccoli e mutuo grosso ti fan dire "più non posso"!).

è stato probabilmente un errore rimanere in italia quando invece c'era l'opportunità di sconfinare.

non credo però che toccare le tasse universitarie sia una soluzione.
il vero problema dell'università italiana è la totale assenza di controllo, a tutti i livelli.
quando ero docente (ho insegnato sia informatica che linguistica, entrambe nel settore umanistico) ho dovuto insistere e faticare per avere i risultati delle valutazioni su di me fatte dai miei studenti! è assurdo: vengono investite risorse (carta, distributori di schede, scrutatori o lettori ottici, macchine e ancora carta per la stampa in quadricromia delle torte) per produrre delle valutazioni che dovrebbero servire prima di tutto ai docenti e che non solo non sono state recapitate ma sono anche finite in cassetti per aprire i quali è stato necessario chiedere a tre diverse persone, aspettando perché cercassero, trovasssero e richiamassero!
adesso lavoro come tecnico informatico: mi capitano docenti e colleghi dell'area amministrativa che non sono in grado di modificare una tabella di word, che non capiscono che il computer è acceso anche se lo schermo è nero (spento) e, addirittura, in una occasione sono stato chiamato in un'aula da un docente che mi ha chiesto dove potesse trovare una presa elettrica (è stato il giorno in cui ho capito la differenza tra un lavoro umile ed uno umiliante)! e io vengo pagato per fornire knowhow che già tutti dovrebbero possedere!

il problema non è che un docente costi 200.000 euro all'anno (certo, se mi avessero pagato più di 1180 euro netti per un corso di linguistica generale da 60 ore di lezione frontale - esami per 80 studenti, ricevimento e produzione di materiali didattici esclusi -- avrei gradito), e in realtà non è neppure un problema il fatto che la maggior parte dei concorsi sia una farsa (tutti quelli che hanno fatto il mio stesso dottorato e che non avevano già prima lavorato nel gruppo di ricerca hanno in vari modi danneggiato il dottorato stesso). il problema è la mancanza della logica della valutazione e della volontà della valutazione.
tutto il resto, ma proprio tutto, viene dopo.
imho, ovviamente.

 

Sono arrivato tardi a questa discussione e utilizzo una connessione incerta e lenta. Ecco tuttavia le mie osservazioni.

 La distribuzione di una (piccola) porzione del FFO delle università sulla base di criteri ritenuti "obiettivi" o "di merito" non è nuova. E' prevista da una legge del 1993 ed è stata applicata per la prima volta al FFO del 1995. La formla per la distribuzione è cambiata nel 1998, e poi ancora nel 2004, quando la "nuova" formula è stata presentata come una grande innovazione meritocratica nel corso di una trasmissione televisiva (porta a porta) da Berlusconi e Letizia Moratti. L'attuale formula innova rispetto alla formula Moratti, ma non raggiunge la percentuale raggiunta nel 1998 o 99, che era il 9%. Tutta questa storia può essere ricostruita sulla base dei documenti contenuti nel sito www.cnvsu.it

Tutte le formule di distribuzione mirate penalizzavano e penalizzano l'eccesso di personale non docente tipico delle sedi del sud e l'esistenza di una facoltà di medicina con policlinico a gestione diretta. Infatti mentre nel finanziamento storico del 1995 era compresa l'attività assistenziale (stipendi di infermieri ecc.) questa attività non è mai comparsa nelle formule di distribuzione mirata.

L'attuale struttura degli stipendi che prevede stipendi iniziali (anche di prima fascia) bassi e stipendi finali (per anzianità) alti è un effettivo impedimento al reclutamento di personale esterno al sistema italiano, anche perché, ad esempio, un "interno" può trascinare nella nuova posizione il suo stipendio attuale e "ricostruire la carriera", mentre un esterno non lo può fare. Che sia un impedimento lo sa bene chi ha tentato di reclutare esterni (ad esempio i matematci)

La mancata diversificazione del nostro sistema universitario che consente a tutti i docenti di godere dei privilegi e degli stipendi che ad es. negli SU sono goduti solo dai docenti delle "PhD granting institutions", è una diretta conseguenza di decisioni politiche prese alla fine degli anni sessanta e all'inizio degli anni settanta sotto la spinta di sindacati di docenti che avevano ben previsto che una diversificazione del sistema avrebbe avuto come conseguenza che non tutti dli assistenti e professori incaricati di allora avrebbero potuto essere promossi nelle "vere" università.

La mia esperienza personale è che l'attività didattica negli SU è più intensa ma meno faticosa specialmente perché il docente non si deve preoccupare dell'organizzazione pratica e perché gli esami sono infinitamente meno gravosi.

Penso che le tasse universitarie debbano essere aumentate, specialmente quelle delle università meridionali. Trecento euro annuali di tasse sono un pessimo messaggio agli studenti. Giustamente Freud sosteneva che una psicoterapia che non costa nulla al paziente non può essere efficace.

 

 

 

Penso che le tasse universitarie debbano essere aumentate, specialmente quelle delle università meridionali. Trecento euro annuali di tasse sono un pessimo messaggio agli studenti. Giustamente Freud sosteneva che una psicoterapia che non costa nulla al paziente non può essere efficace.

 

Si ma Freud si riferiva a un effetto tipo placebo.  Ad esempio nei medicinali un prezzo piu' alto porta alcuni a credere che un analgesico sia piu' efficace contro il dolore. E funziona !-)

 

ciao a tutti

mi inserisco a fine dibattito solo per condividere qualche idea:

1. da responsabile dell'ufficio acquisti in un'azienda e da padre di famiglia quale sono (lo so, non l'ho scritto nel CV, chiedo venia), non me la sento proprio di erigere un monumento alle improbe fatiche di UnRicercatore e di quelli come lui: lo invito a lavorare in azienda 10 ore al giorno (se non è la mia andrà bene quella di un mio amico ingegnere con 3 reparti di stampaggio, 100 persone nei soli 3 reparti and so on ...) per capire che la sua, già solo per l'inesistente verifica della produttività del suo lavoro, è una posizione privilegiata. Segnalo inoltre che:

- da quanto scrive non risulta stia cercando di cambiare/migliorare la situazione

- il "basso stipendio in ingresso" è fenomeno diffuso nel mondo del lavoro, quando si incomincia e non si sa fare praticamente nulla: non capisco perchè gli apprendisti (anche laureati, fino a 30 anni di età) debbano avere basso salario ed il ricercatore no (che inoltre, a quanto dichiarato, non ricerca proprio nulla)

- anch'io non vivo nè di aria nè di gloria (ma forse di un po' d'amore)

2. da laureando fuori corso (lo so, non l'ho scritto nel CV, chiedo venia), testimonio che grazie al cielo non tutti concedono e conducono le tesi con i metodi e le finalità di UnRicercatore: il mio prof non è così (e non solo con me). Forse perchè in futuro non dovrò portargli le borse, sicuramente perchè non è di nazionalità italiana ... anche se ho qualche italico esempio simile

3. chiedo a chi ci lavora se è giusta la mia impressione: l'università USA ha un'identità nel territorio ed un progetto, quella italiana no. Io ho vissuto la seconda ed ho letto i post di UnRicercatore: credo che a parità di crediti insegnati, o di ore frontali erogate, la qualità dell'insegnamento sia diversa. Secondo me la qualità dell'insegnamento dipende (ed allo stesso tempo influenza) la volontà e la  capacità di fare ricerca, di sfornare bravi laureati, di far crescere i laureati, di avere un impatto sul territorio (locale/globale). E' un circolo virtuoso che in Italia non esiste perchè la cultura è diversa: mi spiegate dove si va con persone che aspettano il 27 del mese (netto, ovviamente) ?

4. aldo dice "aumentiamo le tasse alle famiglie (in vari modi) ma valutiamo le università": riusciremo mai ad avere un ente serio ed indipendente, scevro da influssi corporativi, che riesca ad effettuare questa attività ? Secondo me no. Inoltre, per effetto di moral hazard, si aumenteranno le tasse universitarie, nessuno sarà incentivato a migliorare, la valutazione sarà solo una farsa ma intanto si avranno più risorse che andranno tutte in stipendi e UnRicercatore sarà contento.

Forse è vero che la riforma 3+2 non imponeva obblighi particolari, ma, non so come, deve essere passata l'idea che "più laureati sforniamo più facciamo vedere che siamo bravi e più soldi riceviamo": il finale non è stato questo.

Preferisco la strada delle università che si mettono in gioco partecipando con dei progetti di ricerca ai bandi di finanziamento europei, quelle che in sinergia con aziende o istituzioni elaborano /sviluppano/finanziano idee: non mi piacciono quelle che trovano lo sponsor da mettere in quarta di copertina al libretto universitario. In merito a quelle che vorrebbero intitolare singole cattedre o corsi a eminenti personalità del territorio in cambio di finanziamenti ci devo pensare, non sono ancora così americano.   

Grazie per lo spazio e saluti a tutti

Cristian

 

@Cristian

Non capisco come da una semplice discussione sulle ore insegnate (mi ero limitato a dimostrare come -almeno in un particolare contesto- non si facciano meno ore delle università USA) abbia potuto scoprire tante e tali mancanze (nessuna propensione al miglioramento, scarsa qualità didattica, ricerca insistente). Complimenti per la chiaroveggenza, e alcune brevi precisazioni:

1. "Improbe fatiche?": certo non le mie, e temo neanche quelle dell'ufficio acquisti (dove in genere si usa più Microsoft Outlook che non i macchinari del suo amico imprenditore). Però, da ingegnere, sulla linea ci sono stato, anche durante il terzo turno con quelli che non parlano neanche alla macchinetta del caffè. Conosco la puzza che lascia il sapore in bocca ed il rumore che da solo ti stanca se non hai le cuffie. Ho ancora le scarpe antinfortunio (la tuta no, era irrecuperabile), e so certamente di essere un privilegiato rispetto a chi fatica ogni giorno.

2. Diversi tra i miei migliori laureati erano fuori corso, ma non per questo hanno fatto tesi di cartapesta. Questione di tempo a disposizione, forse: certo non li ho costretti io a mettersi alla prova.

3. Quella del basso stipendio in generale è una peculiarità italiana, specie per i laureati (in termini relativi). Certo, se "non sanno praticamente nulla" è ben strano che li si assuma: vien da chiedersi perchè certuni facciano la fatica di studiare lavorando, tra l'altro.  

Cordiali saluti

 

 

 

- il "basso stipendio in ingresso" è fenomeno diffuso nel mondo del lavoro, quando si incomincia e non si sa fare praticamente nulla: non capisco perchè gli apprendisti (anche laureati, fino a 30 anni di età) debbano avere basso salario ed il ricercatore no (che inoltre, a quanto dichiarato, non ricerca proprio nulla)

 

Giustissimo che il salario sia basso quando l'impresa (o l'universita') deve formare il dipendente.  Ma oltre a questo in Italia c'e' una progressione salariale abnorme, che si estrinseca ben oltre il tempo di formazione (~2 anni?), e che accompagna il lavoratore lungo i 30-35 anni del suop rapporto, senza alcuna relazione con la sua produttivita'. Da questa abnorme progressione salariale risultano le note barzellette del sistema Italia, come le grandi industrie colluse con lo Stato per prepensionare i dipendenti anziani a spese dei contribuenti, i 50enni licenziati che non trovano posti come dipendente, le universita' che pagano professori improduttivi a fine carriera 3 volte i ricercatori che come produttivita' competono a livello mondiale.  E' ovvio che c'e' un patto implicito (non ben compreso secondo me da nessuna delle parti in gioco, dipendenti, datori di lavoro e sindacati) per cui salari relativamente piu' alti a fine carriera compensano salari miserabili d'ingresso, ma questo patto implicito non ha senso ed e' particolarmente stupido nel produrre infinita rigidita' nella conservazione del rapporto di lavoro, elevate penalizzazioni per chi viene estromesso dal sistema produttivo come dipendente, bassa occupazione nelle classi di eta' elevate e molto altro.

Quindi va benissimo la formazione con salari bassi, va bene anche una moderata progressione di anzianita' simile a quella degli altri Paesi, va male, e' stupido nocivo e controproducente avere come in Italia salari miserabili ad inizio carriera compensati da salari molto maggiori ad anzianita' elevata senza.

 

Ciao a tutti,

volevo porgere a tutti quanti le mie più sincere scuse a nome di UnRicercatore: nel rispondere al mio post è stato colto da un precoce e acuto attacco di BB (Bile del Barone), quella sindrome molto debilitante che attanaglia alcuni docenti universitari quando si confrontano con qualcuno che non dà loro ragione in modo pedissequo e fa traballare il piedistallo su cui si ergono a difesa dei loro minutaggi di ore frontali e stipendi netti. La sindrome è tale che:

- ci si ricorda della qualità didattica solo se esplicitamente interrogati sul tema (vedi post di michele, 03/08, ore 23.27);

- ogni contatto esterno viene vissuto nell'ottica "io sto sul piedistallo / tu no", "io so usare Autocad e Solidworks / tu no", annullando ogni forma di umiltà scientifica (base primaria di ogni spinta alla ricerca ed all'innovazione) ed impedendo così ogni sereno confronto che nelle comunità umane più civili serve a crescere e migliorarsi;

- ogni persona ritenuta assente dal piedistallo viene trattata come una matricola del 1° anno, i cui interventi non sono minimamente considerati e la cui vita (universitaria e personale) può essere commentata e valutata a piacere (anche quella personale !!);

Chissà che UnRicercatore abbia il tempo e la forza di rileggere e di comprendere il post di Michele,30 luglio, ore 20.26 che mi trova proprio d'accordo

A parte tutto, considero chiusa ogni polemica con chicchessia: in futuro cercherò di inserire post dagli intenti più costruttivi

Grazie per lo spazio e saluti a tutti

cristian

 

 

sono d'accordo, purtroppo comandano persone di 65-70 anni, quando l'educazione era una cosa di elite e potevano tirarsela o avere attenzione dicendo cose quasi ovvie nel modo più complicato possibile. il professore non è più il depositario della conoscenza e fin da piccole le persone sono esposte a molti segnali che lo rendono "più esperto" e prodotti fatti molto bene che gli creano alte aspettative, l'università di un tempo oggi non avrebbe neanche uno studente.

le imprese si lamentano della scarsa qualità dei laureati, è necessario arrivare ad una qualità minima altrimenti uno studia e poi deve passare x anni per dimostrare che sa fare cose elementari perchè gli esami di profitto sono inefficaci. Un certificato di inglese costa 200-500€, penso che il valore di mercato di 3-5 anni di università possa essere molto maggiore ma non ho mai sentito nessuno sottolineare questo. altrimenti si creano una serie di giochi da market for lemons dove tutti i gatti sono grigi e vince il più opportunista.

gli stessi argomenti che si trattano dovrebbero essere stabiliti di concerto con le imprese e non per logiche interne di piazzare le persone

all'università non si chiedono grandi cose, eppure stenta ad orientarsi al mercato.

poi mancano gli strumenti per valutare il potenziale di una persona (la favola dei talenti andate a raccontarla a chi crede alla mano invisibile) per cui sprechiamo un sacco di risorse a far laureare tutti. Poi i più furbi e fortunati vincono la lotteria e gli altri lavoreranno male, demotivati e maledicendo il tempo perso a studiare. E poi se becchi un lavoro da laureato magari serviva un altro tipo di laurea ma alla selezionatrice interessano le robe psico-sociologiche.

Gli autori si aspettano che quando gli studenti (e le loro famiglie) faranno una scelta di formazione universitaria pagando un prezzo più alto, essi divengano più esigenti sulla qualità della formazione che ricevono. Questa è una aspettativa assai ragionevole che mi sentirei di condividere personalmente ma che, purtroppo, trovo azzeccata per una frazione limitata della domanda. Temo che la realtà sia diversa: una frazione della domanda è principalmente interessata ad una formazione accademica vicino a casa; un'altra frazione della domanda non è proprio in grado di valutare la qualità della formazione né mai lo sarà; una ulteriore frazione della domanda teme la qualità del servizio didattico, invece che desiderarlo. Insomma, la realtà che conosco io è molto varia e non corrisponde alla situazione presa come riferimento dagli autori. Propongo quindi di capire meglio quali siano le effettive caratteristiche della domanda. Se però la domanda non reagisse come immaginato, verrebbero a cadere le indicazioni di policy.

E' vero che la qualità di un buon pezzo dell'università italiana è deteriorata. Ma non credo che la causa sia la disattenzione degli studenti (e delle loro famiglie) indotta dal prezzo limitato. Ci sono ottime occasioni di formazione accademica a prezzo limitatissimo, pessime a prezzo veramente alto.