L’università italiana si è trovata negli ultimi anni a fronteggiare difficoltà crescenti. Da un lato la normativa ha offerto margini crescenti di autonomia agli atenei, dall’altro la domanda di formazione superiore è cresciuta a livelli precedentemente sconosciuti. Una illustrazione evidente delle difficoltà create da questi due sviluppi è data dall’andamento crescente del numero di iscritti e del numero dei professori universitari (inclusi gli assistenti ordinari ma esclusi i ricercatori) nell’arco degli ultimi anni. C’e’ stata a partire dagli anni ’80 una espansione di dimensioni paragonabili alla trasformazione dell’università da università di élite a università di massa che si era verificata alla fine degli anni ’60. Tuttavia, a differenza della espansione che si verificò mezzo secolo fa, questa volta le università, grazie alla maggior autonomia finanziaria, hanno potuto rispondere con una quasi contestuale espansione degli organici, che è stata anche l’occasione per le innumerevoli “parentopoli” (cioe’ dello svolgimento di concorsi truccati per immettere in organico parenti ed amici). L’aumento del personale docente segua e compensi un precedente aumento del numero di iscritti. È chiaro che la pressione creata dall’espansione della domanda delle famiglie su risorse finanziarie (che continuano a dipendere da un finanziamento centrale) e su una dotazione di infrastrutture pressoché fissa, crea delle criticità che diventano velocemente insostenibili, come dimostra la vicenda dei tagli introdotti dal finanziamento centrale dal Ministro dell’Economia. Questa situazione richiede a nostro parere una trasformazione della organizzazione del finanziamento delle università di pari portata.
Affrontiamo qui un aspetto per noi strategico, ovverosia quello della trasformazione dei contributi degli studenti al finanziamento dell’università. Questa proposta è giustificata da due considerazioni: da un lato rendere meno erratico il finanziamento agli atenei (basti pensare che ad oggi gli atenei non conoscono ancora quanto sarà il loro finanziamento relativo non al 2010, ma al 2009!), dall’altro garantire una diverso rapporto tra chi si serve dell’università e chi fornisce il servizio dell’istruzione superiore.
Proposte di aumentare le tasse universitarie sono state avanzate anche di recente (per esempio lo ha fatto ripetutamente Francesco Giavazzi dalle colonne del Corriere della Sera), forse alla ricerca di una soluzione del braccio di ferro Tremonti-Gelmini. Ne hanno parlato qui su nfa agli albori Alberto e Andrea. Noi vogliamo invece immaginare una soluzione che vada nella direzione di una modifica strutturale del sistema di finanziamento. Tendenze simili si sono già manifestate o sono in atto in diversi paesi (basti pensare alla riforma introdotta da Blair in Inghilterra). Anche negli Stati Uniti le grandi università pubbliche stanno fronteggiando i tagli ai bilanci universitari da parte degli stati con un aumento delle tasse di iscrizione degli studenti, avvicinando la proporzione del finanziamento proveniente dagli iscritti a quella delle grandi università private.
Si tratta innanzitutto di una scelta tra modelli di finanziamento. Diversi paesi adottano modalità diverse di finanziamento. Molto schematicamente: i paesi nordici offrono l’università gratuitamente, grazie ad un sistema di borse di studio; i paesi dell’Europa continentale (tra cui l’Italia) mantengono contribuzione bassa da parte degli studenti, con sostegno pubblico limitato o nullo; infine i paesi anglosassoni hanno livelli più elevati di contribuzione privata, accompagnati da vari sistemi di aiuto (o in forma di debiti o in forma di borse di studio).
Noi riteniamo che il sistema di finanziamento italiano sia attualmente inadatto a fronteggiare l’espansione che si è verificata contestualmente alla riforma del 3+2, e che una sua profonda trasformazione sia ormai inevitabile. Da un lato il finanziamento centralizzato è incapace di tempestività, controllo degli esisti ed indirizzo, risultando quindi del tutto inutile ai fini della promozione della qualità della formazione (per non parlare della ricerca). Dall’altro esso lascia nella sostanziale irresponsabilità gli studenti e le loro famiglie, che sono indotte ad accettare uno scambio del tipo: basso prezzo-basse aspettative-bassa qualità. Magari accontendandosi dell’illusorio identico valore legale del titolo di studio tra tutti gli atenei
Per questo riteniamo che aumentare le tasse universitarie a carico delle famiglie sia auspicabile, per due ragioni. Da un alto perché può fornire risorse aggiuntive e più tempestive agli atenei, permettendo loro di uscire dalla morsa delle negoziazioni ministeriali (cui stiamo assistendo in questo periodo). Dall’altra perché ci aspettiamo che quando gli studenti (e le loro famiglie) facciano una scelta di formazione universitaria pagando un prezzo più alto , essi divengano più esigenti sulla qualità della formazione che ricevono, scelgano più attentamente le facoltà dove si iscrivono, controllino più attentamente la qualità dei servizi prestati, e richiedano quei cambiamenti che dal centro nessuna riforma può riuscire ad imporre. Se gli studenti impareranno a “votare con i piedi” si produrrà quella concorrenza tra atenei che può aprire degli spazi per i più dinamici tra gli stessi.
Ovviamente questo pone immediatamente il problema delle possibili ricadute di questi aumenti sulla scelta di iscrizione universitaria, e prima di tutto il rischio di un effetto squilibrato a svantaggio dei settori della popolazione di più basso reddito. Ci sono tre modi di affrontare (o meno) il problema.
Il primo è quello di “non fare nulla”, aumentando le tasse di iscrizione e lasciando che gli studenti si occupino da soli del problema di far fronte all’aumentato costo. Questa via sarebbe ingiusta dal punto di vista sociale e inefficiente da quello economico, perchè aggraverebbe lo spreco di risorse umane che affluiscono all’istruzione superiore, selezionando sulla base del censo e non delle capacità.
Il secondo modo è il puro modello “mutuo’’. Lo studente ottiene un prestito, garantito da qualche risorsa esterna (spesso le proprietà della famiglia di origine). Così come quando si acquista una casa, gli studenti nel mercato dei capitali trovano un finanziamento privato da restituire nel tempo, indipendentemente dalle loro possibilità di restituzione effettiva. Questa soluzione ha molti degli aspetti negativi di ineguaglianza e inefficienza della prima soluzione.
La terza soluzione, indicata in letteratura come “tassa del laureato” (graduate tax) adottata per esempio in Inghilterra e in Australia, è quella di legare il pagamento del prestito al reddito che il laureato guadagnerà dopo la conclusione degli studi. I principi fondamentali di questo sistema sono tre, e molto semplici.
Primo, lo stato paga direttamente all’Università a cui lo studente è iscritto il costo del servizio. Lo studente accende un debito con lo stato che verrà restituito in parte immediatamente e in parte in seguito.
Secondo, i tempi del pagamento tengono conto del reddito che il laureato consegue quando entra nel mondo del lavoro. Per esempio, solo quando questo reddito supera una soglia minima scatta la restituzione del debito, con una frazione che aumenta con l’aumentare del reddito. In questo modo la collettività offre una assicurazione implicita contro i rischi di fallimento dell’investimento universitario.
Terzo, il programma è gestito in comune dal Ministero dell’Istruzione e della Agenzia delle Entrate, cosicchè l’evasione sui pagamenti è resa più difficile, e l’onere del prestatore di ultima istanza resta a carico della fiscalità generale.
Vediamo come il programma potrebbe applicarsi nella situazione italiana. Al momento il contributo medio dello studente è intorno agli 800 euro per anno di iscrizione all’università: per la precisione, 797 euro è la tassa media con una quota di esonerati totalmente pari al 9.7%. È una media che risulta da valori estremamente differenziati, per regione e per disciplina, ma dà un’idea delle cifre di riferimento.
Supponiamo che le tasse di iscrizione vengano raddoppiate. Questo equivale ad un gettito aggiuntivo per le università di 1.302 milioni di euro (come risultato di 800 euro per 1.8 milioni di studenti di cui 90.1% paganti 800€ aggiuntivi per studenti, meno l’esenzione per tutti quelli che sono stimati abbandonare per effetto della manovra). Tale importo è pari al 18.31 del finanziamento pubblico del 2007 (con un fondo finanziamento universitario di 7 miliardi di euro). Porterebbe la contribuzione degli studenti ai costi dei bilanci universitari dall’attuale 11% al 22%. La manovra coprirebbe completamente il taglio imposto dal decreto “Tremonti” fino al 2013.
Quali saranno gli effetti di un aumento dei costi di iscrizione? È vera in particolare la possibilità accennata precedentemente che le ripercussioni sarebbero più forti fra i redditi più bassi?
Una nostra prima stima dimostra però che essi potrebbero rivelarsi modesti. Dai dati dell’Indagine sui Bilanci delle Famiglie Italiane condotta dalla Banca d’Italia nel 2006 l’elasticità stimata della probabilità di iscriversi all’università al reddito dei genitori , tra chi vive in famiglia in età compresa tra 18-25 anni, è pari a 0.06: questo anche quando si controlla per istruzione del padre. Se si restringe la stima a chi ha già conseguito un diploma di maturità l’effetto diviene addirittura negativo. Se prendiamo l’istruzione dei genitori come proxy del reddito permanentee il reddito familiare come proxy del reddito transitorio, un incremento della spesa per istruzione di 800 euro equivale ad una riduzione temporanea del reddito familiare del 2% (alla media del campione). Se consideriamo le stime più sfavorevoli (cioè quelle che danno il maggior peso possibile ai vincoli di liquidità), una riduzione del reddito corrente delle famiglie pari al 2% riduce la probabilità di iscrizione media dello 0.11%, un decimo di un punto percentuale. Si tratterebbe quindi di meno di 2000 studenti, che potrebbero facilmente essere esonerati dall’incremento delle tasse.
A nostro parere non è quindi impossibile immaginare aumenti anche consistenti delle tasse universitarie italiane, a due condizioni: da un lato che vengano aumentate le possibilità di scelta delle famiglie (attraverso per esempio la costruzione di residenze universitarie finanziate con la destinazione vincolata di parte degli aumenti stessi); dall’altra che vengano tutelate le fasce economicamente deboli (attraverso meccanismi di borse di studio erogate non solo sulla base del reddito familiare, ma anche sulla base del contesto socio-culturale, per esempio sostenendo i figli di genitori che non abbiano completato l’obbligo scolastico).
Nutro alcuni dubbi sulla praticabilita' di una tale soluzione. Il principale e' relativo all' incertezza sul salario medio di partenza dei laureati. Come sappiamo da alcune ricerche sono in media piu' bassi dei nostri colleghi europei, ed inoltre la progressione della retribuzione spesso segue l'anzianita' e non il merito dell'individuo.
Come pensate sia possibile ovviare a questi problemi strutturali?