E' in discussione al Senato il progetto di riforma della avvocatura. Si tratta di una riforma fortemente voluta ed allo stesso tempo temuta dalla categoria, che, come tutte le libere professioni, sta vivendo un momento di profonda trasformazione.
Gli avvocati, infatti, così come molti altri professionisti, sentono le conseguenze della crisi economica, che causa contrazione dell'attività, riduzione dei margini di profitto e aumento degli insoluti. Il momento economico è però transitorio e destinato prima o poi a finire (del resto, non ci sono forse Berlusconi, Tremonti e tutti i TG d'Italia a ricordarci che stiamo riuscendo meglio degli altri paesi?), quindi, se fosse solo questo, si tratterebbe solo di stringere i denti per un po' ed aspettare tempi migliori. Il punto, però, non riguarda tanto gli aspetti economici immediati dell'attività, quanto l'organizzazione ed il modo di lavorare dei professionisti, che stanno subendo trasformazioni radicali.
E' infatti forte la tendenza ad assimilare la prestazione professionale all'attività d'impresa.
L'antitrust, in particolare, spinge da tempo su questa strada e, conseguentemente, fa sentire il peso dei suoi interventi sulle varie categorie, sollecitando la modifica dei codici deontologici, l'abrogazione di esclusive, il ridimensionamento degli ordini, l'eliminazione dei minimi tariffari e del divieto di società interprofessionali, un più facile accesso dei giovani alla professione. L'assimilazione all'impresa, come ovvio, trova forti resistenze tra i professionisti, i quali, in particolare, contrastano il fatto che si possa equiparare il servizio professionale - basato sulla personalità della prestazione e sul rispetto di regole specifiche e peculiari - ad una qualsiasi merce da vendere.
Il dibattito è acceso e complicato, coinvolge anche l'Unione Europea e varie corti di giustizia, per cui non mi arrischio neppure a farne qui un riassunto, ma quello sopra delineato è però il quadro d'insieme. Le idee dell'antitrust avevano trovato una sponda nel precedente governo e in particolare nell'attività del ministro Bersani, il quale, in una delle sue lenzuolate, aveva eliminato l'obbligo di rispettare tariffe minime vincolanti, abrogato il divieto di pubblicità, consentito le società tra professionisti, sottratto alcune esclusive ai notai e così via.
Le riforme Bersani, a distanza di alcuni anni, risultano ancora notevolmente indigeste per le varie categorie e tutte, con più o meno successo a seconda dei mezzi a disposizione, fanno lobbying per cercare di tornare - se possibile - allo status quo ante. In particolare, la misura che raccoglie le maggiori lamentele è l'abrogazione dell'obbligo di rispettare dei minimi tariffari per il pagamento delle prestazioni. Come intuitivo, il fatto che non si debbano per forza rispettare delle tariffe minime fissate per legge rende flessibile il costo del servizio professionale con indubbi vantaggi per il cliente, che può fare shopping al ribasso.
Intendiamoci, la sotto-tariffazione è sempre esistita: quindi, sotto questo aspetto, Bersani ha solo sollevato il velo dell'ipocrisia, ma è tuttavia vero che, abrogando il divieto, si è creato un mercato maggiormente e "legalmente" concorrenziale.
La principale critica mossa alla eliminazione dei minimi tariffari è che così si metterebbe a rischio la qualità della prestazione.
Al sottoscritto, la tesi che ad una tariffa bassa corrisponda necessariamente una qualità scadente della prestazione, lascia dubbioso. Non necessariamente, infatti, una tariffa conforme ai minimi garantisce che chi ha redatto quel progetto architettonico o predisposto quell'atto di citazione, abbia - per ciò solo - eseguito una prestazione di qualità, così come il fatto che, magari grazie ad una efficiente organizzazione dello studio o alla capacità di generare di economie di scala, un professionista sia capace di proporre una prestazione a prezzi più bassi, non vuol dire affatto che quella prestazione sia, per ciò solo, scadente.
E' però vero che che alla fine spesso si ha ciò che si paga. Quindi, mentre alcune prestazioni più standardizzate possono anche essere anche fornite a costi ridotti, altre prestazioni, che magari coinvolgono diritti costituzionali (come la salute o il diritto alla difesa), se fornite a prezzi stracciati, possono generare il dubbio che lascino scoperti alcuni aspetti di tutela.
Va anche detto che, spesso, a mancare è proprio la selezione preventiva di qualità, dato che, mentre in passato il professionista era sostanzialmente selezionato nell'ambito di una ristretta èlite, oggi le cose sono cambiate e così come si è avuta una università di massa, si assiste anche al fenomeno del "professionista di massa", con numeri di tutto rispetto, dato che si va dai circa 200.000 avvocati ai circa 100.000 commercialisti-ragionieri, il che lascia pensare che non è così difficile conseguire il titolo e che vi sia tutto sommato scarsa selezione in entrata.
E' poi evidente che, sui grandi numeri, la possibilità che gli ordini professionali possano tutelare la qualità della prestazione rimane una chimera, nè può affermarsi che la selezione la possa fare il mercato, dato che - come detto - in presenza di asimmetrie informative il cliente/consumatore medio non è in grado di percepire se un professionista fa bene o male il proprio lavoro, sicchè ad essere prevalenti, alla fine, risultano anche elementi che con la qualità della singola prestazione nulla hanno a che fare, come per esempio la reputazione o la capacità di fare "marketing", creando una rete di relazioni e di agganci con chi può procacciare lavoro.
Fatta questa lunga e forse prolissa introduzione, senza la quale però non si capirebbero le ragioni che stanno dietro alla riforma, veniamo ora agli avvocati, per i quali valgono anche delle considerazioni specifiche legate alla loro attività. La professione legale, come chiunque intuitivamente capisce, ha una posizione di particolare delicatezza, dato che concorre a tutelare interessi di rilevanza costituzionale e gli avvocati si trovano oggi stretti tra le inefficienze della giustizia, il numero eccessivo degli iscritti all'ordine e la spinta ad eliminare il loro ruolo nel campo che non sia strettamente processuale.
Sul primo aspetto, l'inefficienza del sistema giustizia, c'è poco da dire se non rimandare agli articoli del nostro Axel. Sul secondo aspetto, ossia il numero, riporto le parole di Draghi pronunciate durante le considerazioni finali dell'anno scorso:
«Nel confronto internazionale il nostro Paese si segnala per l' elevato numero di avvocati in rapporto alla popolazione».
In effetti, i dati parlano di circa 213.000 avvocati italiani rispetto ai 48.000 francesi, 146.000 tedeschi e 150.000 inglesi (includendo nella categoria sia i solicitors che i barristers).
Insomma, la professione appare inflazionata, segno, da un lato, che i filtri di accesso sono molto blandi (del resto tutti ricordano i casi di esami di abilitazione con il 90% e più di promossi, dei quali ha approfitato anche l'avvocato ministro Gelmini) e, dall'altro, che rischia di non esserci "pane per tutti", sicchè alcuni finiscono per incitare i clienti a fare cause per le quali non ci sarebbero neanche i presupposti, con ciò incrementando l'inefficienza della giustizia, in un circolo vizioso che si autoalimenta.
Il terzo elemento, ossia, la riduzione delle competenze è un fenomeno comune a tutte le professioni, dato che si cerca nei diversi settori di semplificare e di limitare l'intervento obbligato del professionista ai soli casi strettamente necessari. Per gli avvocati una perdita secca di lavoro, per esempio, è stata la possibilità, data da un decreto Bersani, del risarcimento diretto dei danni da incidente stradale, con una procedura direttamente gestita tra le assicurazioni che, in molti casi, ha reso di fatto antieconomico l'intervento di un legale.
Gli avvocati, poi, si lamentano anche per la possibilità del così detto "patto di quota lite" ossia l'accordo (reso anche questo possibile dalla riforma Bersani) raggiunto tra il legale ed il cliente in base al quale l'avvocato viene pagato in base ad una percentuale dell'eventuale rirascimento ottenuto a fine causa, secondo un meccanismo tipicamente amerikano
Il patto di quota lite, secondo molti, sarebbe lesivo del decoro della professione e spingerebbe ad una sorta di società tra cliente e avvocato, il quale potrebbe essere incentivato a comportamenti deontologicamente non corretti pur di ottenere il risultato, mentre secondo altri sarebbe invece un incentivo a far ottenere al cliente il miglior risultato possibile nel più breve tempo possibile.
Insomma, è su questa situazione si innesta il progetto di riforma all'esame del Senato. Come tutti sanno il Parlamento è composto prevalentemente di avvocati, quindi il sospetto che la categoria possa confezionarsi una riforma su misura è molto forte ed in effetti il progetto conferma i sospetti.
Senza entrare troppo nel dettaglio, tre sono gli interventi maggiormente significativi:
a - una conferma ed anzi un ampliamento delle attività riservate in esclusiva agli iscritti all'ordine;
b - un filtro più stringente per l'accesso alla professione, rendendo più complicato il periodo di praticantato, per il quale si prevedono test di accesso al tirocinio e test per poter sostenere l'esame di abilitazione;
c - un ritorno alle tariffe minime vincolanti e inderogabili.
Con tutta evidenza, si tratta di una vera e propria controriforma rispetto alle inziative di Bersani, che l'antitrust ha prontamente condannato lo scorso 21 settembre ricevendo a stretto giro di posta la replica del Consiglio Nazionale Forense; non tedio i lettori con il copia/incolla e rimando ai documenti linkati: ciascuno di noi può così farsi un'opinione al riguardo. I prossimi mesi ci diranno se le spinte protezionistiche avranno avuto successo: per il momento non si accettano scommesse.
Nel frattempo, se qualcuno ha voglia di approfondire la questione "liberalizzazione nei servizi legali", invito a leggersi questo articolo che racconta l'esperienza dell'Inghilterra, che per prima ha visto la radicale apertura al mercato della professione legale. Sotto molti aspetti, si tratta di risultati sorprendenti, dato che, alla prova dei fatti, la liberalizzazione non ha visto una clamorosa riduzione dei compensi, nè un massiccio ingresso di nuovi soggetti sul mercato, mentre la principale misura di successo si è rivelata la possibilità per i legali di fare pubblicità ai propri servizi; segno che, probabilmente, il mercato dei servizi legali ha una propria dinamica ed una propria vischiosità che lo rende poco permeabile alle leggi che regolano altri tipi di mercati, ma qui si tratta di fare valutazioni da economista, quindi mi zittisco da solo.
Sono troppo demagogico e semplificativo se voto per una abolizione assoluta dell'albo degli avvocati? (lo so che non si realizzerà mai ma la speranza è l'ultima a morire)