Fino a sette mesi fa il partito repubblicano era il perdente certo delleprossime elezioni presidenziali e congressuali; l'unico quesitosembrava essere: una donna o un nero alla Casa Bianca? Tre mesi fa la cosanon era più così ovvia, e tale è rimasta sino a meno di un mese fa. Oggi le cose sembrano di nuovo decise: Barack Obama, come azzardatamente previsto, sarà il nuovo Presidente degli USA.
Ci chiediamo cosa siasuccesso durante gli ultimi sette mesi: la nostra risposta è che McCain non ha fatto nulla dieccezionale, né di tragico, mentre i democratici ed Obama hanno fatto molto per farsidel male. Non è che abbiano smesso un mese fa, loro hanno continuato: ci hanno pensato G.W. Bush e i suoi, assieme ai banchieri americani, ad affossare McCain per sempre e far risorgere Barack Obama dalla buca in cui si era infilato. Gli elettori, in preda a panico puro, oramai non vedono più Obama, ma (il mito di) Franklin Delano Roosevelt abbronzato e ringiovanito: contenti loro. Concludiamo suggerendo che l'esperienza americana dovrebbeessere attentamente studiata e meditata dal popolo di sinistraitaliano. Non dai suoi dirigenti, perché il virus raramente studia(menchemeno: cura) se stesso. Ma da chi ha a cuore le sorti di una possibile alternativa al peronismo imperante, sì.
Oramai siamo alle elezioni. Lasituazione non appare favorevole ai repubblicani.Le ragioni sono note: la fallimentare, almeno fino ad ora, invasione dell'Iraqe il peggioramento della situazione economica, in corso da un anno a questaparte e che nelle ultime settimane ha assunto tendenze catastrofiche. A questi fattori generali se ne accompagnano altri più circoscritti:dall'orrenda gestione della situazione causata dall'uragano Katrina al pessimo operato di questa amministrazione nel campo dei diritti costituzionali. Maal centro, senza dubbio alcuno, stanno Iraq e situazione economica. Con rilevanza molto diversa, però. Insoddisfazione profonda, comunque, per una presidenzaimpopolare. Eppure, sino ad un mese orsono, non era ovvio che il candidato repubblicano sarebbe uscito sconfitto dalle elezioni del 4 Novembre. Cominciamo da questa prima domanda: come si era potuta determinare la situazione del, diciamo, 15 Settembre 2008, con McCain in vantaggio su Obama (2.7 punti nei polls, il giorno in cui i Lehman Brothers hanno fatto fallimento)?
Nell'autunno 2007 la campagna per la nomination di McCain era inrovina. Ancora sei mesi dopo, nel marzo del 2008, si irrideva al suo viaggio inIraq, fatto per dimostrare che le sorti della guerra stavano migliorando quandole immagini della sua stessa visita dimostravano l'opposto. Un simbolo perfettodella medesima ottusità ed arroganza che aveva prodotto la disfatta inVietnam. A inizio primavera 2008, tutti e due i candidati democratici battevanoMcCain nei polls. La questione sembrava chi dei due sarebbe stato il prossimopresidente, da cui l'enorme attenzione per le primarie democratiche e la lorodurata "innaturale", con gli effeti non secondari che discuteremo piùavanti.
Finite le due convenzioni,ossia fine Agosto 2008, Obama era pari o sotto McCain. Perché? A questa sorprendetesituazione avevano senz'altro contribuito gli sviluppi recenti della guerra, che un anno fasembravano disastrosi e ora non lo sono più.Poiché la memoria degli elettori è corta, parlare di "guerrarovinosa" non è più ovvio: nell'estate 2008 il numero (125) dei mortiammazzati per arma da fuoco nella più grande città dello stato di cui Obamaè senatore è stato il doppio dei morti fra i militari americani in Iraq(65). Se Chicago da sola è più rischiosa di un intero teatro bellico, lasindrome Vietnam non morde più. L'Iraq, come tema elettorale, è irrilevante.Questo era vero due mesi fa, ed è vero anche ora, fine Ottobre 2008. Ma c’è, e c'era, molto di più. È lì che occorre guardare per capire gli ups ed i downs dei nostri due eroi.
Il blocco sociale della rucola
Nel luglio scorso, di fronte a una folla di agricoltori enel cuore del Midwest (Adel, Iowa, 3.435 abitanti) Obama esclamò indignato: "Ma avete visto che prezzi ti fanno a Whole Foods per la rucola?". La frasecadde nel silenzio: solo lui poteva dire una frase del genere. La rucola per gli agricoltori di Adel è un po' come le scarpe fatte amano per i lavoratori italiani: una cosa che comprano "gli altri".
Questo piccolo aneddoto è indice di un problemaprofondo. Istintivamente, e non solo istintivamente, Obama appartiene all'eliteprofessionale delle "centrocittà" democratiche, come Boston,Manhattan o Minneapolis. Un blocco sociale che mangia la rucola, che sipreoccupa dell'Amazzonia e che ha sostenuto generosamente, nelle lorosconfitte, Carter, Mondale, Dukakis, Gore e Kerry. Un blocco saldamentecollocato nel 25% per cento più ricco del paese e che, da solo, non basta pervincere un’elezione. Per vincere, Obama deve convincere i lavoratori di redditomedio-basso, ossia gli elettori di Hillary. Quelli che lui apostrofò, poiscusandosi malamente, come frustrati che scaricano le proprie frustrazionieconomico-sociali andando a caccia e faccendo i duri con il resto del mondo.Osservazione corretta, ma non molto utile per convincerli a votare in propriofavore: quando al frustrato spieghi con disprezzo che tale è, tende aprendersela. Per questo Sarah Palin apparse come un pericolo mortale per Obama: per purocontrasto, con la sua sola presenza e senza profferire una parola, rendeva ovvial'appartenzenza di Obama a una elite. Poi aprì la bocca e proferì parola, con le conseguenze note a tutti.
Sexy Sarah a parte, questo è un problema che è bene considerare davicino, perché è anche quello più direttamente interessante per i sinistri italiani. Una fetta sostanziale della popolazione, spesso quellameno educata, vota per meccanismi "identitari". Così facendo noncompie un'azione necessariamente stupida: quando, aldilà della retorica,entrambi le parti politiche non sono in grado di alterare la tua condizionemateriale di vita (discuteremo dopo il perché) allora tanto vale votare perquella parte politica che ti appare, culturalmente ed esistenzialmente, piùvicina. La maggioranza degli americani nemmeno sa cosa sia la rucola.
Il piano Obama: New o Old Democrats
Obama è oggi visto come un candidato di elite ed allasinistra dello spettro politico. Nonostante il suo messaggio di unitàe rappacificazione nazionale egli è percepito come estraneo da fetteampie dell'elettorato popolare perché comeportatore di tasse e spesa pubblica a go-go. Come questo sia potuto succederein soli sette-otto mesi merita essere considerato. Obama è entrato di forza econ fascino nel dibattito politico attraverso un messaggio di cambiamentobasato sul superamento delle divisioni razziali e ideologiche e sull'abbandonodella psicosi del terrore installata dal duo Cheney-Bush. Col passare dei mesi,la richiesta di dare corpo e sostanza alla visione si è fatta insistente, e idiscorsi pieni di speranza si sono fatti triti. Questo è avvenuto in duemomenti chiave. Il prolungarsi inusuale delle primarie democratiche ha portato,nella sua fase cruciale, ad una radicalizzazione del confronto. Come tutte leradicalizzazioni, anche questa ha funzionato a stereotipi. Lo stereotipo, inquesto caso, era che da un lato c'era una donna bianca e dall'altra un uomo nero. Giustoin questo periodo le affermazioni demenziali del reverendo Jeremiah Wrighthanno fatto apparizione, sigillando nell'immaginario di tutti (grazie anche aduna subdola ma efficace operazione mediatica della campagna Clinton) il fattoche Obama, alla fine, era di certo un nero molto arrabbiato e, solo forse, unprofeta. La cosa è stata superata, a parole: Obama ha vinto di misura leprimarie ed Hillary ha dichiarato che in nome dell'unità del partito lei e Billstanno con Obama. Ma nessuno ci crede ed è sugli umori politici delle "donne bianche" che McCain ha giocato la carta Palin. Il problema per Obama, e per i democratici,è che le primarie hanno contrapposto, una all'altra, due delle loro"constituencies" storiche. Ha perso quella numericamente più grossaed ideologicamente meno incollata al partito, il che è un guaio. Too much of agood thing, come direbbero qui, a volte è un problema: come candidati alleprimarie meglio un nero O una donna che un nero E una donna.
Questa è solo parte della storia, ma una parteimportante. La parte in cui Obama ha perso l'alone di intoccabilità messianica,ha visto scalfitto il teflon che - attraverso il suo messaggio di unità,speranza e cambiamento - lo rendeva impermeabile a qualsiasi critica e glipermetteva di promettere tutto senza specificare niente. Da aprile diquest'anno Barack Obama non è più un quasi-messia ma solo un mortaleintellettuale di sinistra che vuole diventare presidente. Ai mortali chevogliono diventare presidenti gli elettori di questo paese tendono a fare tredomande: Chi sei? Quali valori rappresenti? Cosa intendi fare? Davanti a questedomande, inaspettate solo sei mesi fa, Obama è sceso dalla montagna e, allaconvenzione democratica, ha chiarito con una lunga lista il suo programma.
Ci sono elementi, in quella lista, che sembranoconvincenti, quasi ammalianti, ma che a un esame più ravvicinato lascianoperplessi. Non ci riferiamo solo ai momenti da profeta (‘’Questo è ilmomento in cui gli oceani cominceranno ad abbassarsi, e il pianeta a guarire’’).Pensiamo ad esempi più specifici. Ricordiamo, per esempio, un momentotoccante: "Questo è il momento di mantenere la promessa di paga uguale perlavoro uguale, perché io voglio che le mie figlie abbiano esattamente lestesse opportunità dei vostri figli.’’ Come si può non essere d’accordocon questo elementare principio di giustizia? Eppure, non c’è nel discorso, onei suoi scritti, o in quelli dei collaboratori, e tanto meno nel programmademocratico (prolisso, come tutti i programmi e quindi illeggibile dagliabitanti di Adel) una indicazione di come questa principio possa realizzarsi.Forse si potrebbe richiederlo per legge. Ma non funzionerebbe, naturalmente: lalegge c’è già, dal lontano 1963, (Equal Pay Act), e impone: "Nessundatore di lavoro può discriminare fra dipendenti sulla base del sesso pagandomeno un dipendente di un altro del sesso opposto per un lavoro uguale [US Code,29, 8, 206, d].’’ Se non ha funzionato sino ad ora, perché dovrebbeadesso? Se allora le parole non sono bastate, perché dovrebbero farlo ora?
Un secondo esempio: "Giovani americani: se viimpegnate a servire la vostra comunità o il paese, vi metteremo di sicuro incondizione di pagarvi una formazione universitaria." Che vuol dire?Nel 1997, Bill Clinton approvò un piano che doveva facilitare l’accesso aglistudi universitari dei giovani di famiglie meno abbienti. L’incentivo eraquesto: il primo anno 1.000 dollari di contributi alle spese universitarie, e800 il secondo anno. Il contributo era un credito fiscale dedotto dalle tassepagate dallo studente, o dalla famiglia, fino al massimo delle medesime.Ovviamente, se la famiglia o lo studente sono veramente bisognosi le tasse nonle pagano (nemmeno a Princeton) e il credito della speranza non aiuta affatto.Il contributo è quindi perfettamente regressivo: più alte le tasse pagate sulreddito, più alto il contributo. Nella esperienza degli ultimi anni, ilcredito è servito a rendere l’accesso un po' piu’ facile a chi all’universitàci sarebbe andato comunque, e non ha cambiato nulla per chi all’università nonci sarebbe andato, circa il 30% della popolazione. Obama suggerisce diraddoppiare il totale (a 4000 dollari) e aggiunge la condizione che chi se neserve debba poi, alla fine degli studi, offrire cento ore di servizi civili perla comunità. Risultato: retorica per tutti, edificazione morale e contributifiscali per la classe media. Niente per chi ora all’università non può veramente andarci. Molti, fra coloro che non vanno all'università, sannonondimeno far di conto.
Ma veniamo al cuore della proposta fiscale di Obama: unaforte politica redistributiva, non dissimile (mutatis mutandis) da quellatentata dal recente governo Prodi. La versione più semplice è questa. Ridurrele tasse per il 95 per cento più povero delle famiglie; poi aumentare la spesaper sanità, ricerca di fonti energetiche alternative, istruzione. Tagli dialtre spese: nessuno. Ora, ossia dopo i disastri finanziari, Obama fa Roosevelt e promette lavori pubblici, ponti, autostrade, e altre cose senz'altro utili, ma costose. Le implicazioni sono due: o un deficit di bilancioinsostenibile, o il rimanente 5 per cento della popolazione paga il conto. Pocomale, penseranno alcuni lettori: il 5% è molto meno del 95% per cento. Nonnecessariamente, come molti hanno scoperto in Italia sei mesi orsono. Uningrediente del piano di Obama è l’aumento della tassa sui guadagni dicapitale. La tassa era, alla fine della presidenza Reagan, al 28 per cento;durante le amministrazioni Clinton e Bush era scesa al 15 per cento corrente.Obama propone di aumentarla; di quanto non si sa ancora di preciso.Nell’autunno scorso proponeva un aumento dal 15 al 28 per cento. Col passaredei mesi la percentuale è scesa intorno al 20. Perché? Perché da un lato aricevere redditi da capitale non è solo il 5% più ricco della popolazione e,dall'altro, Obama (o i suoi consiglieri) sanno che il reddito da capitale ètassato negli USA a livelli più alti che in Europa ed in molti paesi emergenti.Aumentarne ulteriormente la tassazione avrebbe il duplice effetto di farfuggire altrove il capitale e di non far crescere il gettito fiscale. Un secondoingrediente è un aumento dei contributi pensionistici sui redditi più alti(250 mila dollari). Un terzo ingrediente è l’aumento delle imposte suimedesimi redditi, riportando la tassazione federale marginale vicino al 40 percento, a cui vanno aggiunte le tasse statali e cittadine. Vedremo più sottoperché questi proponimenti siano irrealistici, ossia non credibili. Anche imeno abbienti sanno fare i conti.
La soluzione McCain
Il piano di McCain prevede una riduzione generalizzata epiù sostanziale dell'imposizione. Alcune riduzioni sono specificamente avantaggio dei più ricchi. Una è la riduzione del tasso massimo sul redditod'impresa dal 35 al 25 per cento (negli USA esiste ancora la doppia tassazionesul reddito da capitale). L’altra è la riduzione della tassa di successione,aumentando la quota esente a 5 milioni di dollari e riducendo il tasso dal 45al 15 per cento. I repubblicani usano argomenti "supply side" persostenere che la riduzione delle entrate da loro proposta non si tradurrà inulteriore deficit: anche negli USA, tagliare la spesa pubblica è tabù pertutti. Ovviamente pochi credono nei miracoli della supply side, ma per lepersone di basso reddito il debito pubblico non è mai stato un problema e lariduzione d'imposte promessa da McCain è uguale o superiore a quella promessada Obama.
Il sogno americano
Domanda: come è possibile che la maggioranza degliamericani preferisca il secondo piano fiscale al primo? Risposta: perchériducono le tasse della grande maggioranza degli americani di un uguale (emicroscopico) ammontare, ma il primo aumenta sostanzialmente le tasse pagate dauna minoranza; quella che, istintivamente, dovrebbe identificarsi con Obama e araggiungere il reddito della quale tutti aspirano.
Dati relativi al 2006, rilasciati in Agosto 2008dall’IRS (l'Agenzia delle Entrate statunitense), risultano utili. I percettori dell’unper cento più alto pagano il 40 per cento delle tasse federali sui redditi. Il20 per cento più alto paga l‘86 per cento ed il 50 per cento più alto paga il97 per cento. L’altra metà paga il 3 per cento. Morale a sorpresa: negli USAle imposte sul reddito sono già altamente redistributive, enormemente di più diquanto lo siano, per esempio, in Italia. Infatti, secondo il CBO, il contributonetto del 40 per cento con i redditi più bassi è negativo, ossia ricevonosussidi via "income tax credit" o meccanismi similari. Obama sostieneche la classe media è stata la vittima dei tagli di Bush. La classe media sadi non aver ricevuto vantaggi da Bush, ma neanche di esserne stata, fiscalmenteparlando, la vittima: se per classe media si prende, come pare sensato, ilquinto della popolazione con i redditi intorno a quello mediano (60 miladollari), allora nell 2005 la frazione di tasse pagata dalla classe media erail 4 per cento del totale. La classe "media" sa che poco può ricevereda sgravi fiscali, quella più povera sa che niente può ricevere. Il 25% piùricco, che mangia la rucola, si trova di fronte ad un serio problema: a quantarucola dovrò rinunciare se eleggo colui che abbassa gli oceani? Un caro amico,intellettuale europeo di sinistra stanziato a Manhattan, ci ha informatoche lui rinuncerebbe tranquillamente ad uno 0.5% aggiuntivo; altri sono stati leggermente più generosi ed uno, che però a Manhattan non vive più, è arrivato al 4%. La questione sta tutta lì, e la recessione in arrivo la rende ancor più drammatica: può Obama permettersi, fra sei-otto mesi, d'alzare le imposte per un ammontare pari al 5% del loro reddito sul 5% più produttivo della popolazione? Morale: quelli che non sanno cosa sia la rucola non vedono nessunvantaggio fiscale in Obama, mentre quelli che mangiano la rucola vedonochiarissime e sostanziali perdite.
Fuor di metafora: entrambi i piani fiscali sono sia incredibiliche irrilevanti per le condizioni materiali di una percentuale sostanziale deicittadini, quelli meno abbienti. Uno di essi danneggia sostanzialmente unaforte minoranza che viene invece avvantaggiata dall'altro piano. Questaminoranza è, sul piano identitario, favorevole a colui che la danneggerebbeeconomicamente, da cui le contraddizioni. Per quanto riguarda invece lamaggioranza degli elettori, a fronte dell'equivalente irrilevanza dei pianifiscali, il voto si decide sulla base di altri temi, quelli che abbiamochiamato "identitari". È qui che McCain e Palin hanno avuto gioco facile fino a quando non è crollata la borsa:nel bene e nel male, comprese le forme diverse d'essere ipocriti, le loroidentità sono molto più vicine a quelle dell'elettore mediano di quanto non losiano quelle di Obama e Biden.
Guardiamo la questione da una prospettiva storica,tornando al 1980, inizio dell’era Reagan. Da allora il reddito medio del quintopiù povero (in dollari 2005) è passato da 15 a 16 mila dollari. Quello delquinto più ricco da 132 mila è giunto a 231 mila. Prima conclusione: ladisguaglianza aumenta. Ma nello stesso periodo la frazione delle tasseeffettive nette è passata dallo 0 al meno 3 per cento per il quinto piùpovero, che quindi riceve trasferimenti. La frazione pagata dal quinto più ricco è passata dal 65 per cento all’86 per cento. Seconda conclusione: lapolitica redistributiva c’è stata. C’è stata come effetto di riduzionegenerale dell’imposizione, che però ha favorito in particolare i redditi piùpoveri. Mettendo insieme la prima e la seconda, otteniamo una terzaconclusione: ci sono severi limiti a quello che una politica redistributivapuò fare per ridurre la diseguaglianza. Ci sono ragioni strutturali profondeche spiegano perché il reddito dei più ricchi sale così piu’ rapidamente,ragioni strutturali che le politiche redistributive "classiche" nonsono proprio in grado di toccare. Anche i meno abbienti, e meno educati,conoscono la storia recente del loro paese.
Riassumendo
Ai mortali aspiranti alla presidenza gli elettori USA fanno tre domande: Chisei? Quali valori rappresenti? Cosa intendi fare? Le idi di marzo, per bocca diJeremiah Wright e manina di Hillary, hanno provato che Barack Obama è mortale.Hanno anche fornito, assieme alla rucola ed altri lapsus, una risposta(riportata sopra) alla prima domanda. Alla seconda domanda Obama avevainizialmente risposto in modo convincente, offrendo speranza. Ma la guerra inIraq è sparita dall'orizzonte mentre ai valori tradizionali (forse pocogradevoli e probabilmente ipocriti, ma certamente americani) che il duoMcCain-Palin ha messo sul piatto Obama e Biden non avevano contrappostonulla sino a metà settembre 2008. In attesa di uno scontro sui valori - posposto per sempre dall'esplosione della crisi -rimaneva sul terreno la terza domanda. La disuguaglianza è un fatto che morde eche, ricevendo una risposta convincente, avrebbe potuto far girare iltavolo dal lato del ticket Obama-Biden.
Non è stato necessario dare alcuna risposta convincente: è arrivato il crollo, G.W. Bush ha cominciato a spandereterrore e Hank Paulson ha coordinato, con Ben Bernanke, the "biggest grab ever attempted". McCain si è messoil piede, scarpone militare compreso, in bocca prima sponsorizzando ilpiano, poi cambiando idea, agitandosi, proponendo malamente un piano alternativo ma non troppo, insomma confermando che non sapeva chepesci pigliare, esattamente come G.W.B. a cui si è avvicinato sempre di più nel momento peggiore. Obama ha fatto il padre della patria: non ha detto assolutamente nulla, ma ha promesso ai "perdenti" che lui è e sarà dalla loro parte. Così facendo ha preso due piccioni con una fava: ha permesso che il piano Paulson si approvasse, cosa che ai suoi finanziatori di Wall Street stava molto a cuore, ma senza esporsi troppo. Anzi, lasciando capire agli "sfigati" che, una volta al potere, lui farà un altro New Deal 75 anni dopo ... qui oramai i media hanno costruito un consenso nazionale intorno al principio che dalla crisi si esce solo con un altro New Deal, il che rende McCain, di colpo, perfettamente improponibile a quei "bianchi poveri" da cui sperava ottenere il supporto decisivo. Questo ha cambiato lo scenario elettorale in modo drastico, ma non ha cambiato la sostanza del problema a partire dall'1 Gennaio 2009: il programma economico del futuro presidente promette, per il momento, più tasse per i più produttivi e spesa pubblica a go-go. Nient'altro.
Ma, abbiamo visto, la diseguaglianza non si risolve a mezzo di redistribuzionefiscale; men che meno l'ulteriore diseguaglianza che una seria recessione causerebbe. Essa ha cause strutturali molto profonde, comuni tanto agli USA quantoall'Europa, ed all'Italia. Per modificare queste ragioni strutturali profondeci vorrebbero nuove idee. La disuguaglianza di reddito non si elimina per leggepromettendo al 95 per cento più "povero" una trasferimento di 500dollari presi dalle tasche del 5 per cento più ricco. L’accesso all’istruzionedei più poveri non si realizza trasferendo fondi alla classe media. Non bastauna assistenza sanitaria generalizzata - anche se fosse fiscalmente possibile:negli USA la sanità pubblica è già più del 7% del reddito nazionale - pereliminare le differenze strutturali nelle condizioni di vita. L'uscita dalghetto della minoranza nero non si realizza a colpi di "affirmativeaction". Per ognuno di questi problemi - ed altri altrettanto impellenticome, per esempio, un "ribaltone e nuova regolazione" del settorefinanziario e bancario - occorrono idee drammaticamente nuove che dianol'impressione di poter funzionare. Queste idee nuove, nel programma di Obama,noi non le abbiamo viste e, forse, non le hanno viste neanche gli elettori menoabbienti. Per questo, se non avesse avuto l'aiuto di una crisi finanziaria seconda solo a quella del 1929, il futuro presidente degli USA avrebbe rischiato di perdere un’elezione già vinta.
Aldo e Michele, non potete cavarvela così. L'analisi è più che condivisibile, ma a questo punto quali sono i vostri suggerimenti sulle politiche che la sinistra, o il centrosinistra, dovrebbe adottare? Si, lo so, questo post è già lungo e ce ne vorrebbe un altro altrettanto lungo per rispondere, ma almeno qualche idea? Qualcosa che sia al tempo stesso politically feasible e economically sensible?
Come la vedo io ci sono tre possibili risposte:
1) La crescita della disuguaglianza è guidata da fattori strutturali ed è inevitabile, non c'è nulla che si possa o debba fare per contrastarla. Alternativa observationally equivalent: non ce ne importa nulla della crescita della disguaglianza, quindi non dobbiam far nulla per contrastarla.
2) La crescita della disuguaglianza è guidata da fattori strutturali ed è
inevitabile, ma è indesiderabile. Si può contrastarla al massimo con modeste politiche redistributive che, almeno negli Usa, sono già state messe in atto. Ben poco altro può essere fatto.
3) La crescita della disuguaglianza non è inevitabile, perlomeno nelle proporzioni osservate negli ultimi trenta anni, e si può contrastare facendo.... (you fill the blanks).
A grandi linee, quali di queste tre alternative vi pare la più plausibile? Oppure avete in mente altre alternative che io non ho visto?
Sandro:
la domanda che poni va al cuore di cosa vuol dire essere di sinistra. Io una cosa credo di averla capita, dopo tanti anni: politiche redistributive sul reddito (cioe', ex post, dopo che le differenze sono state determinate) non funzionano e anzi sono dannose, prima dit tutto perche' creano trappole di poverta'.
Questa e' la politica redistributive che non mi piace. Mi piace anche meno quando e' presentata come dovere morale. Nella famosa risposta a Joe, Obama non ha detto ``Bisogna redistribuire la ricchezza'' ha detto ``Redistribuire la rischzza e' bene per tutti''. Questo aspetto, che direi con termine da toscanaccio pretesco non mi piace.
Delle alternative che poni direi che la terza e' piu' vicina alla verita'. Ma il welfare check di 500 dollari alle famiglie (sotto i 200 mila? non e' chiaro) mi pare al massimo la seconda.