I fattori che frenano l'innovazione in Italia
Tutti scrivono che il sistema imprenditoriale non investe in innovazione. Ma perché gli imprenditori in Italia non investono sull’innovazione?La CGIL ci insegna che le imprese non investono in innovazione perchè gli imprenditori non credono nell'innovazione.
Io conosco la vera risposta o meglio lo schema di condizioni, leggi, procedure che influenzano questo fenomeno. Non e’ un solo elemento, ma il combinato disposto di tanti fattori.
Io conosco molti di questi fattori. Io so i nomi dei responsabili. Li conosco perché sono un imprenditore nel settore delle tecnologie. Li conosco perché per 15 anni sono stato un ricercatore del prestigioso Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.
E ne ho le prove, non di tutto naturalmente, ma dei principali fattori che provo ad enumerare e descrivere rozzamente e in disordine nel seguito.
Cominciamo: non è vero che gli imprenditori in Italia non vogliono investire e non investono sull’innovazione. Per gli imprenditori innovare è vitale, disperatamente vitale, per non essere schiacciati da una sorta di legge bronzea dell’ economia che tutti gli imprenditori vivono sulla loro pelle: se non c’è innovazione la marginalità competitiva si riduce a poco o nulla. Tutti gli imprenditori privati tentano di innovare finché hanno un filo di forza e di speranza.
1) Solo gli imprenditori privati!
Un imprenditore privato (che non intende dismettere l’impresa) ha interesse e allo sviluppo reale e soggettivo (attenzione: non necessariamente oggettivo) della propria azienda, per il suo futuro e per costruire il suo patrimonio è disponibile a correre un certo rischio. Quindi un imprenditore privato è interessato a rischiare per sviluppare innovazione reale, mentre un manager dell’impresa pubblica (chiamiamolo con l’ossimoro: imprenditore pubblico) deve tentare di accrescere con certezza il valore oggettivo, ma l’innovazione, se non si traduce in un fallimento, si trasforma in valore oggettivo solo in tempi medio-lunghi. In questo l’imprenditore pubblico è simile ad un imprenditore privato che intende vendere l’impresa a breve.
I valori reali, ma soggettivi a cui mi riferisco sono ad esempio: l’effettivo completamento e successo dei test preliminari di un’applicazione complessa, la conoscenza dell’assenza di difettosità in un apparato sperimentale, prima ancora dei test report formali. In negativo, ad esempio, la scarsa validità di una soluzione tecnica portata in immobilizzazione. E’ un valore reale, ma soggettivo la formazione degli specialisti su tecnologie complesse e la capacità creativa di alcuni collaboratori. Questi sono i valori critici di base per l'innovazione.
I valori oggettivi di un’impresa sono quelli che possono più o meno facilmente essere dimostrati e riportati in un bilancio (al di là del principio dei costi sostenuti), in cui cioè la valutazione non dipende in maniera preponderante da considerazioni soggettive. Una soluzione tecnica può, ad esempio, conseguire un maggior valore oggettivo a seguito di una certificazione. Un’idea a seguito di un brevetto. Queste procedure non cambiano necessariamente il valore soggettivo attribuito dall’imprenditore ne il valore come innovazione, a differenza ad esempio di un test critico sostanziale. La differenza tra valori oggettivi (dimostrabili, ma non necessariamente consistenti) e soggettivi (reali, ma fortemente dipendenti dalle capacità dell’imprenditore) è cruciale per l’innovazione.
Un bravo imprenditore pubblico responsabile pertanto dovrà concentrare la sua attenzione sulla creazione di valori oggettivi: profitti, brevetti, valorizzazione di impianti ecc. Non può e non deve (usando soldi non suoi) inseguire idee fantasiose avute la notte o portate sul suo tavolo da un neolaureato con la faccia spiritata..
Non può: perchè il suo lavoro sarà valutato nell’arco del suo mandato e se la sua innovazione fosse un successo non sarebbero intestati a lui i benefici a lungo termine, ma nel frattempo sarebbe accusato per i costi e i rischi dell’investimento.
Non deve: perché l’amministrazione non gli da licenza di fallire (innovare significa rischiare, e spesso rischiare tutto, innovare significa spesso sbagliare e fallire).
Se, ignorando ciò che gli conviene e ciò che dovrebbe fare, un imprenditore pubblico decide di scommettere su un idea, forse combatterà una battaglia di breve respiro: il suo mandato ha una scadenza che non coincide con l’orizzonte temporale dell’ innovazione.
Spesso nell’impresa pubblica manager di medio livello e giovani, hanno una chiara visione di spazi di innovazione, idee che gridano “scommetti su di me!”. Situazioni di mercato, incroci tra competenze presenti in azienda e opportunità tecnologiche talvolta indicano chiaramente (specie in una grande impresa) una direzione altamente promettente per un investimento rischioso in innovazione. Ho incontrato manager desiderosi di innovare anche in Finmeccanica e in ENI.
Ma come dare torto alla direzione che frena queste iniziative dovendo rispondere a terzi? Al massimo verrà stabilita una commissione di valutazione che farà un’analisi costi/rischi/benefici. Ma se si tratta veramente di innovazione il risultato è facilmente immaginabile!
In generale anche se ho le prove, non farò nomi, ma con un’eccezione: ho conosciuto almeno un manager pubblico di alto livello che ha tentato la strada dell’innovazione: Antonio Rodotà, come A.D. di Alenia Spazio, ha combattuto contro tante, tantissime forze in nome dell’innovazione, ma una gran parte dei suoi sforzi è stata vanificata quando ha cambiato ruolo per passare alla direzione dell’ESA. q.e.d.
In conclusione di questo paragrafo vorrei ricordare quello che mi ha insegnato un capital venture inglese: “Noi scommettiamo su un’innovazione se l’imprenditore ci punta tutta la sua impresa, la vita sua e della sua famiglia. Sappiamo bene noi e sa bene lui che il 95% per cento delle volte lui ci rimette l’impresa e talvolta anche il resto.” Ecco in generale non è questo che si chiede, si può chiedere o si deve chiedere ad un manager pubblico!
2) Togliete i maledetti finanziamenti! (e lasciateci le stesse risorse)
Il finanziamento pubblico all’innovazione aiuta l’innovazione come una lussazione aiuta uno scalatore.
E’ evidente che se le tasse fossero meno alte sarebbe tutto più bello, e da qui non impariamo nulla.
Lasciamo stare che sarebbe meglio non tassare per nulla gli utili reinvestiti nell’azienda.
Però una considerazione possiamo farla: in Italia le aziende vengono tassate in maniera significativa, ma una parte importante di questo gettito viene sprecato in “contributi all’innovazione”. Sarebbe necessario lasciare alle aziende private le risorse per l’innovazione senza farle transitare per una valutazione pubblica. Cioè se non potete ridurre la pressione fiscale, almeno lasciateci le risorse che togliete per finanziare l’innovazione!
Il contributo pubblico all’innovazione è un disastro.
La valutazione: un’innovazione per essere significativa deve essere una sfida, è raro o rarissimo che possa essere valutata a priori in maniera equilibrata. La valutazione dell’opportunità di un contributo pubblico è fatta su diversi “parametri”: rischio, business plan (a 3 anni), livelli d’ occupazione (a 3 / 5 anni), innovatività. Con questi parametri Google e Facebook tanto per fare un esempio non sarebbero stati finanziati. Che innovazione era un sito di valutazione delle ragazze dell’ università? Che occupazione può dare uno nuovo motore di ricerca?
Inoltre stiamo già ipotizzando che la valutazione sia lucida, competente e soprattutto obiettiva!
Il tempo: Il tempo di gestione dei finanziamenti pubblici (identificazione settori, sviluppo bando, presentazione progetti, valutazione, finanziamento) non è confrontabile con i tempi del mercato dell’innovazione.
In qualche caso un valutatore illuminato (e ne ho incontrato almeno uno) intuisce la prospettiva del valore di un’ innovazione al di là dei parametri. Ma anche in questo caso le risorse saranno sprecate: nel 1995 avevamo la capacità di sviluppare al pari dei primi al mondo un processore vettoriale per la grafica (per gli scettici ho ampia documentazione e referenze). Lo chiamammo VSP (Visual Signal Processor) e convincemmo alcuni brillanti e visionari valutatori dell’ ENEA che ci sarebbe stato un mercato in futuro per queste tecnologie, avevamo bisogno di 4 anni per lo sviluppo e di circa 2 miliardi di investimenti. Nonostante gli sforzi eroici dell’ENEA il finanziamento fu interamente approvato solo attorno al 1998 cioè proprio mentre NVIDIA stava rilasciando la GeForce 256 la prima GPU (Graphic Processing Unit) al mondo. Inutile dire che un ritardo di 4 anni la competizione era senza speranza.
In altri progetti di cui sono a conoscenza, i componenti elettronici prescelti (come innovativi) ad inizio progetto sono obsoleti a fine progetto (un componente innovativo diventa obsolescente in 3 o 4 anni, ma un finanziamento pubblico può vedere il saldo anche 6 anni dopo il bando iniziale).
La rendicontazione: Nei finanziamenti pubblici in ricerca una quota significativa delle risorse erogate (non meno del 20%) viene speso per la rendicontazione (la preparazione del materiale necessario per l’ ottenimento del finanziamento). Un costo del 20% sarebbe ancora tollerabile se fossero rendicontabili le spese necessarie per l’innovazione, molto spesso è il contrario!
In generale i progetti vengono finanziati sulla base della quantità di personale addetto cosa che induce alla collocazione di numerose risorse, mentre è difficilmente rendicontabile personale pregiato (ovvero pagato molto oltre gli standard di mercato). Per l’innovazione serve scommettere su poche risorse brillanti e ben pagate! Per l’innovazione serve sbagliare ovvero fare acquisti e dare commesse ingiustificabili. Questo è chiaramente incompatibile con una rendicontazione.
L’incertezza: Nei finanziamenti pubblici c’e’ sempre una componente di incertezza anche con progetti approvati e parzialmente finanziati. Un errore nella rendicontazione, l’utilizzo di un fornitore non ritenuto adeguato o anche il pagamento di un collaboratore troppo oneroso possono comportare la revoca di un finanziamento. In un caso di cui sono a conoscenza il fatto che i ricercatori non fossero nella sede dell’azienda durante un’ispezione dell’autorità erogante il finanziamento è stato causa di revoca. Poco significando che i ricercatori si trovassero sul campo a fare riprese (per un progetto di riprese ambientali)!
Questa incertezza induce tutti gli imprenditori razionali a concentrare l’attenzione sul metodo e sulla forma, ma non sui risultati (che non sono oggetto di verifica).
3) Lavorate la notte, in un garage e se non funziona: licenziati!
Gira una storiella: prima di investire su una startup innovativa vai in segreto a vedere la loro sede qualche notte, se ci sono luci accese e c’è sempre gente che lavora può valere la pena.
Diverse startup di successo nel mondo sono nate in luoghi che in Italia non avrebbero giustamente l’abitabilità. In un caso in cui sono a diretta conoscenza l’impresa ha dovuto andare in tribunale per non essere costretta a chiudere in quanto il locale era abitabile, ma non formalmente qualificato “uso ufficio”.
Il problema principale però è nei contratti di lavoro e nei rapporti con i lavoratori. L’innovazione richiede una collaborazione fiduciaria straordinaria tra i partecipanti all’iniziativa (spesso la si vede nei laboratori universitari), ma questa collaborazione è scoraggiata dalle normative attuali. In pratica l’innovazione tecnologica di punta non può essere costruita con un modello imprenditore + dirigenti/impiegati/operai, regolato da contratti nazionali, ma serve una collaborazione trasversale e la possibilità di escludere (licenziare) chi non si adegua all’impegno comune.
Le ricerche innovative coronate da successo alle quali mi è capitato di partecipare hanno sempre visto l’impegno di un nucleo di “ricercatori e tecnologi” che hanno lavorato senza risparmiarsi per settimane e mesi. In questi casi c’è sempre qualcuno che si defila. In ambito accademico è tollerato e non costituisce un grave problema, in quanto i compensi non sono di tipo economico e quasi sempre i leader sanno riconoscere chi ha dato di più ed hanno i mezzi per escludere dal gruppo un disfattista o un nullafacente.
In ambito industriale, in Italia, invece è semplicemente impossibile trovare un metodo per escludere da un team una persona selezionata e assunta per le sue potenzialità ma poi in pratica dannosa per il team.
Vorrei aggiungere che mentre l’esistenza dell’Art.18 è un problema serissimo per lo sviluppo, la crescita e la competitività delle imprese, esso ha poco a che fare con la capacità d’innovazione che dipende invece dalla disponibilità di contratti flessibili e da un rapporto fluido (leggi: contratti a progetto) con il mondo dell’accademia e dei giovani più brillanti.
Mi è stato chiesto di valutare la riforma Fornero alla luce delle nostre esigenze per quanto attiene all’innovazione. Direi che ha “eliminato il problema” rendendo in pratica quasi impossibile ogni nostra attività in tal senso. Mi spiego meglio: gran parte delle nostre attività non direttamente finalizzate alle commesse, quindi quasi tutte le attività di R&D erano svolte con contratti a progetto che oggi sono di fatto aboliti.
D’altronde i contratti a termine non sono adatti a questo tipo di attività per varie ragioni, ad esempio non possono essere sospesi qualora si evidenzi che la strada intrapresa è infruttuosa, inoltre la forma di lavoro subordinata spesso non si adatta alle personalità più brillanti con cui ci dobbiamo confrontare (spesso in bilico con il mondo accademico).
Infine i contratti a termine non possono essere utilizzati per lo svolgimento di attività di scouting tecnologico di durata breve o brevissima (20-40 giorni).
4) Università mediocri, studenti molto vari, stipendi non correlati al merito.
Nella nostra storia abbiamo fatto centinaia di colloqui di assunzione e possiamo fare una sintesi: l‘università italiana è in grado di produrre eccellenze, ma il prodotto standard non è mediocre: è di basso livello o pessimo. Devo precisare che la mia esperienza è limitata ai settori dell’ elettronica e dell’informatica, pertanto ci siamo confrontati con una gamma di giovani laureati in Informatica, Fisica, Ingegneria e talvolta Scienza della Comunicazione.
L’eccellenza si ottiene quando uno studente dotato ha trovato da se le motivazioni per uno studio e un lavoro di qualità, questo deve coincidere con la fortuna di incrociare alcuni docenti di alto livello e magari di inserirsi in un gruppo di ricerca di elite.
Questi casi sono rari e ne risultano cervelli appetibili per la nostra accademia (spesso purtroppo incapace di trattenerli) , per le imprese italiane (che spesso li sottoutilizzano) e certamente per il mercato estero.
Più frequentemente si laureano studenti che hanno lavorato in gruppi di serie B o C o che hanno conseguito stancamente il loro titolo di studio.
In questo scenario ne le imprese ne le università sono in grado di premiare adeguatamente il merito. La struttura dei contratti in pratica impedisce in Italia la stipula di contratti “di attrazione” ovvero contratti d’ingresso con livelli salariali elevati, ma con la possibilità di regredirli o interromperli se dopo 3 o 5 anni le aspettative di valore non sono mantenute. Di fatto avendo di fronte un neolaureato che appare straordinariamente brillante siamo costretti a proporre un salario d’ingresso miserevole, (con elevata possibilità di vederlo fuggire all’ estero) essendo impossibile per un’impresa proporre un salario elevato per poi ridurlo (o addirittura licenziare) se dopo alcuni anni si riconosce che magari il dipendente è si brillante ma incapace di uno sforzo continuo o produttivo, oppure incapace di adeguarsi a uno standard o simili (casi reali a iosa per chi fosse interessato).
Conclusione.
Certamente esistono contro-esempi di innovazione di successo in Italia, nonostante i fattori a cui ho accennato, ma spero che alcuni concetti chiave siano condivisibili:
- l’innovazione è rischio e bassa probabilità di successo, ma alti profitti (in caso di successo!) e questi non sono tipicamente obiettivi di buon management pubblico
- le grandi imprese pubbliche hanno giuste logiche che impediscono questo tipo di rischio
- le PMI (che vogliono avere elevate probabilità di sopravvivere) hanno solo una piccola frazione di risorse da rischiare per l’innovazione
- il finanziamento pubblico per l’innovazione andrebbe eliminato e le risorse liberate restituite alle imprese come minor tassazione (quale miglior incentivo per un imprenditore e per i lavoratori avere salari netti più alti in caso di successo?)
- le università, spesso realizzate per motivi campanilistici, senza meccanismi punitivi, non hanno seri meccanismi per promuovere l'eccellenza e quindi producono masse di giovani meno che mediocri
- le rigidità contrattuali non sono un ausilio all’innovazione tecnologica
Può essere che il paese scelga di continuare a vivere con grandi imprese pubbliche e PMI molto tassate, ma incentivate con finanziamenti pubblici. Può essere che si voglia mantenere il valore legale del titolo di studio e a finanziare università e facoltà di scarso valore senza seri meccanismi di competizione. Può essere che si mantenga il divieto di attivare contratti di collaborazione o contratti a progetto.
Nessun problema: saremo un paese di pizzerie e ristoranti sul mare. Affrettatevi però a cercare la concessione per un pezzo di spiaggia.
Simone Cabasino - it.linkedin.com/in/cabasino
e rilancio: ho lavorato per un po in un centro di ricerca in Sicilia, la fase di rendicontazione arrivava a livelli allucinanti, ogni anno venivano i finanzieri per settimane, e controllavano tutto, ma proprio tutto: mi prendevano la tastiera e il mouse per controllare i numeri seriali, una volta perdemmo un pomeriggio in 3 per trovare un floppy da 5¼, di quelli proprio floppy, a fine anni '90, non gli interessava minimamente che in tutto l'edificio non ci fosse un lettore per quel genere di supporto, avevano quel floppy in lista, e doveva spuntare. Ho poi lavorato, sempre in Sicilia, in una startup. Tralasciando tutto il resto, quando anni dopo a Londra cercavo di spiegare il concetto di studio di settore, applicato ad una startup, al CFO del mio datore di lavoro, davanti ad un paio di pinte di birra, quello si rifiutava, giustamente, di credermi.