Racconterò una storia che mi è stata riferita da un amico, che vuole rimanere anonimo, ambientata in una prestigiosa università italiana non più di qualche settimana fa.
L'Università frequentata dal mio amico rappresenta una piacevole eccezione per la presenza di un numero elevato di realtà associative, non solo di rappresentanza, per lo più indipendenti da partiti e da istituzioni esterne. In un certo senso, un mondo a sé, le cui dinamiche si determinano quindi in modo abbastanza autonomo.
All'interno di questo Ateneo esistono due tipi di realtà associative: da un lato quelle che fanno “politica”, cioè attività di rappresentanza secondo la legge negli organismi elettivi dell'Università, e quelle che fanno “altro”, cioè si basano su un progetto, o un'idea particolare, senza la pretesa di rappresentare altro che se stesse (c'è l'associazione ambientalista e quella che si occupa di accogliere e riunire gli studenti internazionali, eccetera).
Accade ora che, a fronte dell'enorme crescita (in numero e in partecipazione) delle associazioni del secondo tipo (da ora in poi, semplicemente “associazioni”), le prime (da ora in poi: “i rappresentanti”) si siano fatte promotrici di una riforma organica del sistema di rapporti tra queste e la governance universitaria. Era necessaria? Improbabile. Qualcuno l'aveva richiesta? Che si sappia nessuna associazione aveva richiesto nulla. Ma, si sa, la politica spesso conosce cosa sia necessario per il bene della società civile prima che questa se ne accorga ...
Nella fase successiva il racconto si fa lungo e complicato, perché tra l'altro si produce una strana lotta per “sedersi al tavolo delle trattative”, che al fine della storia che voglio raccontare interessa relativamente; quello che conta è che i gruppi si accorgono che il regolamento dell'Università prevedeva una sorta di “tassa sul fund raising” delle dette associazioni, come forma di compensazione per l'utilizzo degli uffici. A nessuno dei rappresentanti viene in mente che la reazione più ovvia, nel passato, sia stata l'elusione totale di questa buffa forma di imposizione.
La mossa che ne segue, per come mi è stata raccontata da una fonte forse troppo parziale, è credibile solo nella misura in cui si confà perfettamente all'atteggiamento tipico di chi “fa politica” nel nostro Paese: i rappresentanti formulano una proposta unilaterale, da firmare in tempi brevi e in periodo di esami, che prevede anche un sistema di aliquote che hanno lo scopo di rinnovare il meccanismo di tassazione del fund raising autonomo delle associazioni.
In pratica, si applicherebbe una vera e propria tassa (con aliquote fino al 20%) da far convergere poi in un fondo controllato dall'università, e gestito da una Commissione mista di personale tecnico-amministrativo, docenti e, surprise surprise, rappresentanti degli studenti! Questo fondo distribuirebbe poi le risorse ottenute, in maniera discrezionale, alle associazioni richiedenti, indipendentemente dalla capacità di queste nel contribuirvi.
Qui inserisco un giudizio mio. La proposta più naturale sarebbe stata quella di abolire la buffa forma di tassazione esistente, incentivando invece le associazioni a rendere trasparenti le proprie forme di finanziamento in assoluta libertà, magari con un supporto tecnico-logistico da parte dell'Ateneo. In alternativa, dato che dalle associazioni non era venuto nessuno stimolo in questa direzione, si potevano lasciare le cose come stavano.
Però - a fronte dell'incredibile vivacità di quel mondo negli ultimi anni e della conseguente sua capacità di attrarre risorse, prima umane e poi finanziarie - la tentazione di prenderne un po' il controllo, avendo un qualche potere di indirizzo sul medesimo attribuito dalla replica (all'interno dell'università) dei meccanismi stato-società civile che vediamo agire a livello nazionale, abbellendo magari l'operazione con bellissime argomentazioni “redistributive”, è stata evidentemente troppo forte per i "rappresentanti" degli studenti.
Accade, però, che tutte le associazioni coinvolte (più di una decina) iniziano a scambiarsi telefonate, messaggi, si incontrano, e scoprono di trovarsi contrarie a questa proposta! Una contrarietà che parte, probabilmente, da quelli che ne verrebbero maggiormente penalizzati, ma che tocca il senso di giustizia degli altri, che non vogliono sentirsi “mantenuti” dai colleghi più bravi. C'è una riunione, molto rapida, la stesura di una lettera, molto breve. C'è l'adesione di quasi tutti.
A fronte di tanta intransigenza, dopo un breve dibattito, i rappresentanti decidono di rinunciare alla proposta. In quell'università, almeno, la società civile verrà lasciata in pace ad auto-organizzarsi liberamente ed a fare ciò che, tranquillamente e privatamente, desidera fare. Niente tassazione "redistributiva", per una volta.
Mi permetto, in conclusione, un'altra considerazione personale: se l'Italia avesse vissuto più spesso momenti come questi, reazioni semplici e nemmeno tanto eroiche, probabilmente adesso sarebbe un Paese diverso – e aggiungo, migliore.
Post interessante, a me ha colpito molto questo giudizio finale:
Il problema delle Università (e della società?) italiane è che non si vuol lasciare gli studenti la possibilità di auto-organizzarsi. Non parlo di mettersi a fare i collettivi comunisti (che ho provato a frequentare, ma poi dovetti scappare), ma di creare associazioni spontanee che siano un servizio alla comunità.
E dico questo venendo dall'esperienza danese. Qui l'SL (associazione di studenti con nome danese impronunciabile) si occupa di tantissime cose. L'associazione gestisce: un pub; un refettorio; un bar e un ufficio per fare fotocopie (che ci si fa da soli con la carta, senza controllori). Oltre ciò, l'associazione promuove iniziative come biglietti del cinema a prezzi bassi, feste, viaggi, etc.. Credo che l'SL svolga anche funzioni di rappresentanza.
Ma non c'è solo l'SL, ci sono anche altre piccole associazioni. L'università ha proprio creato una "unions room" dove ci sono i vari uffici. E l'università sponsorizza quando può. Dà soldi alle associazioni che fanno manifestazioni o partecipano a conferenze.
Fino ad ora non ho sentito di associazioni politiche. Non so come funzioni la rappresentanza studentesca, ma non se ne sente poi così tanto il bisogno visto che gli interessi di studenti e rettori sono molto allineati.
Insomma, in Italia centralizziamo troppo. La realtà associativa ha bisogno di essere supportanta, quindi non basta dare delle stanze, bisogna anche trovare modi per finanziare le associazioni. Invece di avere bar e centri fotocopie di terzi, per dire, si potrebbero dare alle associazioni, sicuro che i profitti di queste ricadrebbero di più sugli studenti. Ma il punto è che non serve avere sempre un governo centrale! Le realtà associative (e gli uffici pure) sono benissimo in grado di coordinarsi e questo funziona molto meglio che avere dei "rappresentanti" a comandare.
Condivido l'impostazione generale del commento. Si ricordi però che in Italia la rappresentanza studentesca non è un fenomeno spontaneo, ma una cosa regolata per legge (cosa che, io sospetto, fu fatta appositamente nel modo migliore per permettere l'ingresso delle organizzazioni partitiche negli Atenei).
Perciò, da un lato c'è la questione delle rappresentanze: funzionano per selezionare la classe politica di domani? E' un bene che i partiti controllino (indirettamente, diciamo "per incentivi") la politica universitaria? Io dico di no, e la situazione delle grandi università pubbliche italiane - Sapienza in testa - mi sembra spieghi bene il perché senza bisogno d'aggiungere altro.
Dall'altro c'è una questione di mentalità delle governance, che ritengono l'Università un luogo penitenziale, dove magari si rimane fuoricorso per lustri, ma non sia mai che siano previsti al suo interno dei luoghi di svago, di riunione, specificatamente dedicati allo scopo: nella mia visita a LSE, una cosa che mi colpì molto fu la presenza di un pub dell'università gestito da studenti, aperto a tutti, dove i ragazzi si trovavano e guardavano le partite (quella sera, tutti contro il Manchester United).