E’ opinione condivisa che le piccole e medie imprese rappresentino “un importante volano per lo sviluppo e la crescita dell’economia” del Paese. Tuttavia, la circostanza che l’Italia sia al 49’ posto (su 143 Stati) nella classifica internazionale che misura il livello di competitività per l’anno 2014/2015 (Global Competitiveness Report del World Economic Forum) rende palese la mancanza di un ambiente favorevole all’esercizio dell’iniziativa economica privata: tra le cause, assume particolare rilevanza la quantità di oneri finanziari e amministrativi da cui essa è gravata. Una rappresentazione concreta ne viene annualmente fornita dalla Banca Mondiale nel rapporto Doing Business. Il report inerente all’anno 2014, verificando l’impatto delle regolamentazioni di diversi Paesi sull’attività d’impresa, evidenzia ancora una volta quanto quest’ultima sia svantaggiata dalla normativa nazionale: l’Italia è al 56’ posto nella classifica internazionale (su 189 Stati) e al 29’ nell'area Ocse. Un imprenditore necessita di oltre 7 mesi per acquisire un permesso edilizio, dovendo attivare 10 procedimenti; attende 124 giorni per l’allacciamento all'elettricità (a fronte di 2 settimane in Germania e di 2 mesi e mezzo circa in Francia); impiega 269 ore per pagare le tasse, che peraltro influiscono in misura pari al 65,8% sul suo profitto (contro il 33,7% della Gran Bretagna, il 39% dell’Olanda e il 48,8% della Germania: l’Italia è al 138’ posto quanto a pressione fiscale). A quest’ultimo riguardo, è stato “stimato un totale di 173 milioni di ‘invii’ eseguiti dai contribuenti italiani in un anno, per una spesa di oltre 17 miliardi di euro e 19,3 milioni di giornate lavorative dedicate dagli operatori a predisporre e a inoltrare i documenti al fisco”. Oltre a incidere negativamente sulla produttività aziendale e, quindi, sulla competitività dell’intero sistema economico nazionale, i “costi” sopra esposti ne inducono altri, a propria volta: in particolare, incrementano la propensione all’evasione fiscale e, quindi, alimentano il sistema sommerso, specie in presenza di “una bassa percezione dell’output pubblico”.
Appare palese che non hanno sortito buoni risultati gli interventi effettuati negli ultimi anni per favorire le piccole e medie imprese, originati dalla considerazione che queste ultime soffrono più di altre per la mancanza di una “regolazione intelligente” e possono essere colpite dai costi di regolazione in misura maggiore rispetto ai competitors più grandi. Il legislatore nazionale si era posto l’obiettivo di diminuire i costi connessi alla regolazione nel 2008, mediante il decreto c.d. taglia-oneri (in conformità a quanto stabilito in sede UE con l’Action Programme for Reducing Administrative Burdens in the European Union del 2007, poi confluito nel Regulatory fitness and performance programmedel 2012); fino al 2012 ha condotto un'attività di misurazione (MOA) degli oneri amministrativi sulle PMI (su 93 procedure ad alto impatto in 9 aree di regolazione, per costi pari a 30,98 miliardi di euro), prevedendo semplificazioni e fissando normativamente principi in linea con la smart regulationUE; ha, in seguito, elaborato unulteriore programma di misurazione e riduzione degli oneri, anche diversi da quelli amministrativi (in linea con l’evoluzione avvenuta in sede UE); sempre al fine di “creare un contesto più favorevole e rafforzare la competitività” delle piccole e medie imprese, nel 2010 ha approvato una direttiva di attuazione dello Small Business Acteuropeo, ispirata ai relativi principi guida, stabilendo il monitoraggio continuo delle politiche messe in campo a sostegno delle PMI (mediante un Rapporto annuale del Ministero dello Sviluppo Economico in collaborazione con la Presidenza del Consiglio dei Ministri) e la predisposizione di una Legge annuale per le piccole imprese (che non risulta essere stata mai emanata); ha quindi varato il c.d. Statuto delle imprese, in cui tra l’altro ha sancito che venga valutato sia ex ante che ex post l’effetto sulle PMI delle proposte legislative e amministrative a esse inerenti (c.d. test PMI) mediante l’analisi e la verifica di impatto della regolazione (AIR e VIR) e che tale valutazione sia condotta secondo criteri di proporzionalità e gradualità.
Nonostante l’insieme degli interventi delineati, il Garante per le PMI (figura istituita dalla l. n. 180/2011) sottolinea che resta prioritario “l’alleggerimento degli oneri fiscali sul lavoro e sugli investimenti, per liberare risorse che le imprese possano destinare ad agganciare la ripresa e dar fiato al mercato interno. Così come l’abbattimento a tappe forzate dell’insostenibile onere burocratico”. Inoltre, una “indagine” effettuata dal MISE nel 2013 rileva che solo il 5% del campione di PMI intervistate percepisce l’adozione da parte delle istituzioni “di misure a favore soprattutto delle imprese di micro, piccole e medie dimensioni”: considerato che “il risultato non è raggiunto fino a che non è percepito da cittadini e imprese”, appare evidente quanto sia ancora lontano l’obiettivo di una normazione effettivamente idonea ad agevolare l’iniziativa economica privata. Del resto, come evidenziato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), “il cammino intrapreso verso l’adozione di regolazioni che ‘pensano in piccolo’ potrà produrre risultati positivi per lo sviluppo e la nascita delle piccole e medie imprese, a condizione che i modelli di analisi d’impatto vengano attuati in modo concreto e sostanziale da tutte le amministrazioni, centrali e locali”. Invece, nonostante l’importanza che riveste, rimarcata dall’Autorità Garante, l’analisi di impatto è reputata “un onere fra gli oneri” dal legislatore nazionale, che spesso la prepara “dopo la stesura delle proposte”, per giustificarle a posteriori, anziché avvalersene come strumento funzionale alla preventiva comparazione di costi e benefici connessi alle diverse opzioni di regolazione, al fine di adottare quella migliore. Peraltro, l’AGCM afferma che “ad oggi non esistono esempi” del Test PMI, sopra citato, nonostante esso rappresenti una componente obbligatoria dell’AIR. Sono, quindi, chiari i motivi per cui le politiche intraprese per le PMI non stanno producendo apprezzabili risultati: in assenza di analisi di impatto che definiscano ex ante gli effetti attesi dalle scelte di regolazione compiute, ponderandoli in relazione ai soggetti sui quali incideranno, non può essere verificato ex post se tali effetti siano stati, poi, in concreto ottenuti. Mancano così i presupposti per poter apportare alle disposizioni già emanate i correttivi necessari a renderle realmente efficaci: continuano, di conseguenza, a stratificarsi leggi inadeguate e onerose, che rendono l’ambiente normativo nazionale sempre più complesso, farraginoso e, di certo, non favorevole all’attività di impresa.
Il legislatore sembra non considerare che “la semplificazione fallita è una complicazione riuscita. E la semplificazione fallisce quando non misura i propri effetti, quando non calcola gli oneri amministrativi che ne discendono (…) Non conta l’intenzione, conta la realizzazione” (Ainis). Dati i decisori politici nazionali, quest’ultima osservazione andrebbe scolpita nella pietra.
Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono l’istituzione per cui lavora
Ne bis in idem esprime una regola di diritto, ma anche un precetto di buon senso. Perché ripubblicare lo stesso articolo di due giorni fa?