*
come chi vive
per lasciare impronte, un
solco per la morte che
ci segue, che ci precede
in forma di stagioni
fm
λέγω – λόγος – ποιέω – ποιήτης
Il poeta osserva le cose, i fenomeni, gli accadimenti, respira il pensiero del tempo, ne assimila nessi, connessioni e se ne fa portavoce consapevole di caducità e oblio, cui resiste in una battaglia al frastuono confusionale degli inganni della storia, affinché permanga una traccia che non disperda i frammenti di memoria del suo canto di vibrazione e rimembranza, sospesa nella dimora del tempo custodito.
“varcare la soglia di una domanda / rasente all’ombra che a fatica / recupera i suoi codici eccede gli argini / imponendosi torsioni di lingua / per esempio la trama discorde / che dai margini offre un sentiero / al silenzio” – (da “Esilio di voce”, 2009)
E difatti, il poeta è “custode” della bellezza, del dolore, dell’angoscia, del vero, di cui si nutre per restituirlo in forma di dono da condividere (“il dolore / mi dice continua / la corsa, riempi le mani / imbratta di sillabe” – da “Impronte sull’acqua”); egli sa che la sua parola è nulla/silenzio e non pretende verità che non sia la propria soggettiva essenza questionante di dubbio, la propria intima elaborazione degli spazi di luce ed ombra del tempo (“l’inchiostro che / vaga tra silenzio / e silenzio – “Impronte sull’acqua); conscio del fatto che il suo dire non potrà mai prescindere dai fatti, dalle parole, dal pensiero in arte nella storia, non chiuderà mai la propria esperienza in un castello di specchi, ma aprirà le finestre al pensiero ed allo scambio, cercherà sempre nuove forme, osserverà ed amerà la pluralità delle voci, fondendo il proprio essere in un’armonia di contrasti, da cui stillare il senso precipuo dell’esistenza.
“Lascia alla parola l’aura / incantata delle origini, / il lume che le compete
per nascita e destino, / il fondo oscuro / matrice d’ogni luce”.
(Per soglie d’increato , Edizioni Il crocicchio, 2006)
Lo scorrere liquido del pensiero in parole nella creazione poetica non è altro che fluir/si in offerta nuda agli occhi, alle orecchie, alle labbra di un reale o presunto interlocutore. Niente di più carnale, umorale, intimo ed oggettivamente soggettivo della poesia può costituire il mistero irrisolto dell’esistenza e della “necessità” della tradizione/traduzione del pensiero in scrittura. Segni grafici che costituiscono suoni catalogati in ordine di organi e lembi vivi di carne che ne implicano la pronunzia: labiali, gutturali, liquide, dentali, palatali …. sono le vocali e le consonanti, praticamente le note, di una composizione di suoni codificati in parole che costituiranno il pensiero – dentro di noi – o il dia-logo – quando il pensiero sia espresso per trans-itare da noi ad altri.
La liquidità densa della parola, nei versi di Francesco Marotta, si consuma nella sua stessa carne, nel suo stesso analizzare il dolore. Il verso spesso appare sincopato, spezzato, irrisolto e ripreso con profonda consapevolezza nella gestione del verso – sia pure libero – che apparirà rilegato e ricucito ad arte in enjambement, sinafie e sinalefi, che non hanno unicamente il compito “formale” di conferire il voluto ritmo – musicale quanto ottico – al “colon”, ma – ancor più – il senso sciolto dell’affermare il dis/ordine del tutto e del suo stesso contrario nello scorrere del pensiero.
Forma e parola si fanno quindi tessuto, tessuto vivo, sanguigno, denso di fluidi: acqua/sangue/sudore/umori che cambiano, che si rincorrono dalla fonte alla loro stessa foce: inchiostro nero come il cielo che fa da sfondo all’umana aspirazione al bello d’una illusoria luna o, ancora, inchiostro nero come sangue, che quando si rapprende perdendo la sua intima vitalità si stimmatizza in segno grafico che permanga, macchiando di sé la pietra, la carta, come il sangue innocente che -irrimediabilmente- scrisse la storia.
La ricerca linguistica operata sulla parola, in Francesco Marotta, esula dal mero compiacimento letterario e, ancor quando sia ricca di echi e rimandi, non è mai fine ma “mezzo”, “arca” che incarnandosi del proprio intimo dis/ordine si veicola in sostanza reale, materica, duplice nella proiezione di senso della sua stessa ombra.
Marotta è parola che si fa grido, carezza, richiamo, messaggio di un'umanità in cui spera nonostante la disillusione, nonostante le atrocità della storia, le urla murate negli occhi di innocenti, gli olocausti del passato e quelli cui assistiamo inermi, passivamente, inconsapevolemte bendati dal fuorviante buonismo del nostro tempo, che tutto edulcora e trascolora, mascherando anche il sangue sugli altari cerimoniosi della scarsa memoria; poesia come *resistenza*, fuga e ritorno alla vita, con un'aderenza che cuce l'anima al derma per essersi testimonianza ed interezza di vita.
Una traccia, che non scolora.
Esilio di voce (2009, inedito)
scrivi strappando chiarori di pronome
dalla voce la luce malata
che s’innerva
al rantolo di un verbo scrivi
con lo stilo di ruggine che inchioda l’ala
nel migrare anche la morte
che sul foglio appare dal margine
di sillabe di neve s’arrende alla caccia
al sacrificio necessario
dell’ultima lettera superstite
*
ci accomuna la conta differita dei morti
la mano adusa a separare codici e correnti
dal gorgo dove si adunano le ore
indicibile chiusa
di apocrifi in sembianti di volti
di giorni in forme declinanti
di parole
*
come questa luce di specchio
quando raccoglierla è già spreco
di fulgidi rosa un chiedere al sonno
gli spazi
intagli per minimi azzurri
l’abuso di crescere che sia privo del prima
mutilata la mano da una lama
d’inchiostro
che trema sul foglio
*
guarisci il dubbio trafitto
dall’ansia di essere riparo malattia
a cadenze autunnali guarda gli sterpi
che ti battono un’altra luce
sui fianchi e nell’ombra che sale
gioca il sogno di un confine
sospeso la tua pelle si stacca aggiunge
ore ai tuoi segni al graffio che resta
dove togli parole
ai tuoi occhi
*
assenza che sia illuminata erosione
un luogo che i sensi coincide
a un poi di riflessi se colma l’immagine
di grandine di minerali celesti e trascina
a ogni singola mano sangue di fuga
all’occhio l’identico accordo l’energia
perversa di un dono l’attrito
di maschera e volto
impaziente del balzo
*
è un abbaglio la morte la polvere
sbrina il suo vento sull’acqua un abisso
d’aria e correnti
che l’arte della pietra modella
per l’oblio materno dell’alba
*
in equilibrio di colore e distrazione
conserva segni in un forse di miscugli
sillabici il resoconto di un ramo l’ipotesi
di immagini dove presente e senso
versano lacrime agli occhi così
ritorna alla scienza diseguale del volo
l’angelo che spiuma
desideri di carne di danza
il presagio
di un nevaio che brilla dolore
sul confine tra cielo e memoria
ad altezza remota di lingua
*
paesaggi che alle palpebre tendono ombre
e distanze a volte un passo che irrompe
nel viluppo a sfrondare la norma
la linea di bianco imposta
dall’ennesimo inverno eppure
si potrebbe affidare l’oltraggio a grammatiche
docili ogni senso al destino e svanire
al suono che la preda sbalza dal sonno
verso una morte in punta di rima
*
varcare la soglia di una domanda
rasente all’ombra che a fatica
recupera i suoi codici eccede gli argini
imponendosi torsioni di lingua
per esempio la trama discorde
che dai margini offre un sentiero
al silenzio
*
dove macerano tracce e l’abisso
è radice di ore lo scarto svelato
tra il crepuscolo e un’assenza
disattesa di voci dove scopri
sgraziato e distratto
tutto il credito di una piccola morte
l’orizzonte che regge la scia
di astri vanescenti e la tua mano
che ne traghetta il lutto
verso il largo
*
avanzi verso un mare inaccessibile
e la sera ti impiglia nello sguardo un diluvio
di sillabe l’onda franata sotto i passi
e quel tempo di amare che ha l’ombra
quando ne invochi il morso vivo
dove trovare riparo
*
febbri e vene a passo d’erosione
il farmaco in affondo da scomporre
in linee inquiete notte dopo notte
inaugurando verbi di declino
il lontano di un’offerta in forme d’acqua
la replica ardente che passa sugli occhi
e depone il franto
pulviscolo
di un nome alla deriva
*
così è la grazia delle immagini
rovesciate nel palmo venute via dall’ombra
che ora ricordi accampata da sempre
alla tua soglia ma
si trattava di attese esercizi
privi di simboli come adornare sbrinati
specchi col battito salino
di una pupilla naufragata
*
è un percorso che si rivela in squarci
e argini disparenti al primo soffio
un affluente da riconoscere dall’alto
dalle torri del giorno se
nel lontano vigila un dissestato
teatro di corpi e alla chiusa
le sillabe raccogli che la mano nasconde
prima di cedere sotto la sferza
di un lampo
alla cecità di dare ancora un nome
*
nudità di deserto e alla cintura
una sacca d’aria rarefatta per talismano
e balsamo tu la trascini
abbandonando respiri a folate alla luna
seguendo a palpebre sbarrate
nell’esilio di voce
la lampada elementare che risale
fino alla sommità delle labbra
la selva di due desideri intrecciati
*
alla curva del vento
slarga foglie e rotaie l’assenza di cielo
e labbra a distesa dall’altra parte
dell’acqua si pensa un paesaggio
grande quanto una mano lungo
fino a sfiorare i capelli con la dolcezza
verde della sabbia si pensa la terra
divisa in pagine leggere e uno sguardo
luminoso di bambina
piantato tra le zolle come una spina
come una sillaba
come un’attesa
*
dal largo
sopraggiunta da un chiarore incurabile
svapora memorie come umori d’erba
accesa dai roghi dell’inverno
nuota verso la parete la mano
legge l’aspro sapore di fumo
di una foto ingiallita quell’unico dolore
di avere ancora suoni
per l’orecchio murato dei morti
*
Esilio di voce, 2009
(terza parte di inediti)
si inciampa in un grido
che si dissangua in luce
ogni volta che cerchiamo le stelle
nessuna soglia ci separa dall’assenza
nessuna parola così profonda
da poterla tacere
fossero simili a foglie
che si combinano in fuochi
di caduta le vigili inudibili parole
cresciute tra labbra e desiderio
oppure grida che colmano
tutta la distanza di un ricordo
e poi acqua che fascia il viso
dei morti quando fa buio
anche la pelle e l’occhio
soffoca di essere visione
solo una maglia slabbrata
uno squarcio nella rete del tempo
incurabile misura del guardare
*
cammina pensando una deriva
la corrente paziente delle ombre
il suono che trascorre
inascoltato
alle tue spalle immagina
con quale lingua il deserto
racconta la piaga dove premeva
la lama della luce il varco
dove precipita il respiro
di una terra libera dal dolore
del nome
*
trascini per inerzia
il tuo peso che agghiaccia l’orma
con l’esattezza di un’assenza
dimentichi i volti uditi nel sonno
e ricuci tempo ai giorni la lingua
a un vuoto di parole eppure
basta un’eco una reliquia di voce
affiorata all’insaputa delle labbra
e il confine è la tua mano
che prova ad accendere decisioni
di neve s’inventa geografie
di segni rende chiaro il cammino
come il sale che brilla la pupilla
esplosa di un fiore
*
sulla pagina svuotata di segni
la notte incide formule e gesti
poi tenta gli occhi la pelle un idillio
di voci sgranate quando dici
il mio corpo ancora mi svela
quando reggi spenti equinozi
che sarebbe cera bruciata
per chi ha nuotato a ritroso
intera la superficie di una fiamma
per chi ancora respira della luce
deposta solo l’ora che imbianca
in mezzo al guado la sua ombra
che parla con lingua di sete
da un labirinto di acque murate
*
si origina dal tuo sguardo il volo
dai tuoi occhi che arrancano l’aria
mentre vegli mani d’infanzia
al riparo degli anni un battere
d’ali a pochi istanti dal lume
che precede un grido la bocca
trattenuta a spilli
dove vasto di vento il ricordo
dimora s’apprende alla grazia
frugata tra colori di neve
dissolti
*
un tempo concluso dai lampi
registro di fragili danze
al cospetto del buio
eredità di mondi
racchiusi tra pagine e brina
presagi che hai voluto sfogliare
offrendo alla veglia
suoni al fondo dell’acqua
e poi altra acqua
le stagioni respirate a fatica
la vocazione di un salice
che sfronda al cielo distante
*
al ritmo del fuoco
riprende i suoi accordi raccoglie
una nota dismessa
e la concede alla mano
operosa nel bianco
risolve un assedio di febbri
la notte indecisa
sorpresa dal passo di chi ritorna
da una crepa del vivere
apre le porte alla lingua
le pupille dilata in un lampo
sepolte di voci
*
al cospetto della polvere
anche il ricordo si scioglie
in macchie impazienti
una pozza di esaudite meraviglie
tiene dietro a reticoli d’alba
e cemento un sepolcro d’acque
disabitate e rari colpi di vento
a reggere l’onda che cresce
il profilo di un volto riemerso
per caso una florescenza un respiro
che al deserto s’impone
a un trascorso errore di luce
*
s’appoggia al notturno che migra
il pensiero d’un silenzioso distacco
uno spazio arredato da precipizi
di voce si enumera in sghembi
movimenti di pagine arabeschi
d’inchiostro che accelerano fughe
e disagi chiamando a raccolta
le ultime tracce di volo
ora che sulle labbra senti una fitta
e il tuo nome è il confine
dove palpita l’urlo d’una sfinge
morente
*
uno sguardo arenato
nello specchio più fondo
la mano che preme e marchia la carta
di ricami di muschio ammassati
a tempesta anche questo trasuda
la lingua a chi mastica cielo
membrane di sogno scomposte
là in fondo alla gola anche
questo disordine la fibra animale
che annega nel guado
di un diverso tramonto
*
è acqua che si acquieta
quando smette memorie di sorgente
al richiamo di un varco veloce
sopra mappe di sete è lingua
che si oscura votata nel segreto
a spiragli di luce
un astro che perde peso
risvegliando sensi agli amanti
è questo corpo che insiste
e nell’urto nebbioso dei giorni
libera sangue dagli argini
dalle dita qualche piuma invernale
il sigillo infranto di un nido
*
raccogli le foglie purpuree
che la sera conclude le foglie
sospinte nel vuoto lunare
scomposte esibite esplose
da un vincolo d’ombre ecco il tempo
che ci respira nei trascorsi
di un albero nel parto nel nome
nelle voci alla fonda negli occhi
nella traccia di vento
del nostro svanire all’approdo
*
resti di qualche luce
custodita per un cielo mai vissuto
salsedine che rischiara derive
s’incolla alle mani con la tenacia
vischiosa del naufragio
e alla bocca regala parole
senza suono frange in bave di tempo
alfabeti scomposti in oceani
di nuvole ombre di una comune sera
per la pupilla che risale le dita
fino agli orli franati del ricordo
fino a un volto ferito d’infanzia
*
prova a trattenere il crepuscolo
prima che l’estremo sbiadire
dei colori trovi requie sul tuo volto
ascolta la squilla sul filo delle pietre
il varco sonoro dove sabbia e radici
restituiscono il duro lavoro del giorno
qui non un gesto che dica il prossimo
squarcio il morso del fuoco
che indurisce cristalli nel palmo
neanche il buio che preme e squama
le impronte degli occhi solo il ritmo
fraterno delle cose immaginate
in piena luce materia vivente
visibile appena il tempo di passare
*
suoni a memoria
in luogo di sillabe e accenti
un più di polvere che maschera
segmenti di notte una materia
verticale di brividi
che continua una pagina
inesistente
sul rovescio del cielo
il calco di un mattinale
dissolversi
d’ombre
*
inizia dove la voce è spazio
di una ferita uguale una metafora
imbandita da giorni minori quelli
che annaspano nella traversata
in prospettive d’isole
inalberando indici di esilio
o coprono paesaggi di neve
per interposta assenza di vento
con una rosa
una parvenza di luce
un inciso
*
visitazioni di parole nel tempo
immaginando cosa nascondono
di gesti incompiuti le mani
pietrificate senza lume
quanta l’incuria in calce ai suoni
ripetuti in forme di abbandono
fino a scoprire il labbro
dove ripara un grido
scampato alle carte della sera
una dimora d’ombre e fortuna
in cui si recitano pensieri
a una corolla il sillabario delle api
udito alla foce del respiro
*
macerie in bilico e nello scollo della frana
tutto il candore
dei germogli agghiacciati
in passaggi di stagioni
materia di canto orfano dei silenzi del ramo
teso come un arco
aereo sulla superficie del pensiero
tra le grate del ciglio semplice traccia
levigata reliquia del vento
*
passioni inudibili fiutando la cera
la lampada erbosa che inscena il distacco
o trama in punta di pelle
un vuoto chiazzato ai bordi del buio
uno stilo una bolla un flauto in disuso
che pende affrescato alla bocca
regala silenzi di neve al tuo passo
materia d’esilio all’azzurro
*
il dolore mormora la vita più lontano
irrompe per dire la smania l’ansiosa
caduta in principio di volo ma
si parla di giorni nemmeno compiuti
e sostanze intraviste per caso
per esempio un muschio un lievito
metamorfosi d’aria di pollini
della terra che rimane nel palmo
custode di ogni richiamo
sorgente acerba dell’ala
*
rimani di guardia all’alba
vivente parentesi
nell’ocra bruciato delle ore ombre
d’alberi al dito e il capo
tenuto in disparte
da un pudore di anni di solchi
s’appartiene a parole mai dette
secrezione che regge un bisogno
fiorire
appassire
al modo inconsapevole degli astri
in obbedienza cieca alla spina
*
nessuna necessità
nessuna figura a ombreggiare
luci di radura
nel verso che realizza un disegno
il bilancio di un tempo
non ancora scaduto quando
la lingua aspira angoli di notte
alfabeti inattingibili
alla voce tutto un cielo
che sgrava coralli verbali
orazioni dall’iride diaccia
di stelle appassite di specchi
increspati lascivi di vita
*
un sintomo bianco
nel gioco del sole un balzo
d’insetti nella calma del rovo
malattia che tutto muove
e trascina a un dettato febbrile
di sensi rappresi
aggrumati per somiglianza
in soprassalti di mare
domani un letargo
memoria senza risveglio
dove riposano polvere e lampo
indecidibili sequenze del sempre
*
impressioni di sabbia nell’annuncio
labiale arrecato dal vento
s’inclina disperso per legge d’isole
e cielo un vapore dettato da tante storie
sfigura a brani il percorso dell’occhio
più spesso il corpo di una parola
porosa che esplode
sanguinante nella mano
*
sera che dubita la pupilla arresa
il soccorso per rampe
definite dalla fissità della luce
carte a grappoli che scivolano sul viso
a dettare inudibili immaginarie grida
sapienti di sangue e memoria
sera di un’ultima carezza sulla pelle
un fuoco che nell’inguine s’accende
come il faro di guardia
a un mare deserto
*
la tua ombra è un crocevia
di mondi in transito neve
e rose sognate
usando un respiro che arde
tra le spine del ricordo
dove la tua figura s’indovina
quando gli occhi sostano
tra luce e fiume
madre che dall’acqua
porgi la tua mano un gesto
la misericordia di un chiarore
per essere ancora fuoco
sotto il foglio che regge il giorno
*
dissacra la pupilla del mondo
il castigo deciso dalla luce un fiotto
di sangue lo svela
che risale le labbra come pane
raffermo dilata la bocca in lente
forme d’incendio e dalla mano
percorre il tuo nome
da masticare lettera dopo lettera
senza gli umori della voce lontano
qualcuno scrive sull’acqua
il profilo di un’orma imperfetta
nell’oblio di sorgente qualcuno
che veglia l’ombra recisa
dei tuoi fogli offerti in pasto
alla sera
*
all’inizio è una forma d’onda
una cresta aerea che si offre
alla spartizione del moto poi
il caso che si libera tra ipotesi
ed evento forse la lettera finale
di un ricordo una vela che si oscura
negli specchi franati di ieri
in cambio di un accordo muto
di una lenta consunzione
senza cenere
*
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Quando lessi per la prima volta “Esilio di voce”, mi si palesò un’immagine *ResurrExit* di Anselm Kiefer. E non è un caso a ben pensarci, dacché la poesia marottiana è ricchissima di echi e rimandi alla poetica dell'assenza di Celan, di cui Kiefer può a pieno titolo essere definito il traduttore in immagini. E per immagini prosegue infatti la mia lettura, consegnandomi la poesia di Francesco quale eredità di parola, verbo, sillaba, ostinatamente urlata sin dentro la luttuosa cecità delle *orecchie murate*, in sfida agli inganni, ai dubbi, alle norme ed ai codici da violare per oltre-passare – traghettare – in un naufragio privo di argini, fin dentro la visionarietà di angeli spiumati, capaci di verità di carne oltre ogni inverno, oltre l’inferno di presagi e bilanci tra presente e memorie, in una sferzata *paleontologica* e sfacciatamente evocativa di riordinata lingua.
*
Dal quaderno originale de "L’arte dimenticata di morire" sono stati espunti otto testi poi confluiti nella silloge "Hairesis", pubblicata in E-book da Biagio Cepollaro nel 2007 ( http://www.cepollaro.it/poesiaitaliana/MarotHaiTes.pdf ); tra questi otto testi vi é una poesia in particolare di Francesco che sintetizza il senso della scrittura e la sua urgenza per chiunque sia affetto da quella salvifica malattia che convenzionalmente cataloghiamo con il termine "poesia". La lascio qui in chiusura, in segno di saluto. Alla prossima lettura.
nc
*
Fino all’ultima sillaba dei giorni . scrivere è un destino covato dall’ombra delle ore la spina amorosa di chi non lascia niente alle sue spalle perché essere cenere, sostanza di vento è inciso da sempre a lettere di fuoco nelle pupille dei segni che trascina – un canzoniere infimo, un breviario di passi senza orma tracima sillabe d’innocenza e memoriali di sabbia dalla brocca silente che disseta il labbro, quando parole malate d’aria si staccano dalle mani precipitano nell’impercettibile abisso di una pagina – . scrivere è un’ora covata dal destino la spina che costringe il corpo in reticoli d’albe in piena notte e punge fruga ricuce orli slabbrati lacera la carne fino a che sanguinano anche i sogni, fino a che l’immagine fiorisce in echi di sorgente gli alfabeti rappresi dentro un grido . (sono queste le voci che mancano a una pietra per sentirsi un arco lanciato verso il cielo, sono questi gli accenti che scortano il seme alla sua tomba di luce – al precipizio ardente dove la morte è presagio di stagioni, oracolo dei frutti e del ricordo) .
(QUI i pdf delle sue raccolte, tra cui -appunto- L'arte dimenticata di morire)