Nei suoi due libri “L’infanzia vista da qui” e “A ogni cosa il suo nome”, ci sono poesie che, seppur rilette a distanza di tempo, provocano la stessa intima spaccatura, facendo vivere o, meglio, rivivere emozioni, assenze, silenzi, vuoti, lutti, che nel momento stesso in cui Francesco poggia nero su bianco, sembrano smettere di appartenere solo a lui, per transitare nei ricordi ed in quelle emozioni di tutti, spesso soffocate dalla corazza degli anni e della disattenzione per la storia.
[…] volevo capire quel poco che posso della colpa e del dolore ma sono un uomo troppo piccolo e questa pianura è troppo vasta e vuota è terra distesa a sottolineare ciò che manca è neve caduta a coprire ciò che resta così dovrebbe essere il silenzio qualcosa che si vede si tocca e congela per sempre un angolo del cuore […]
da “L’infanzia vista da qui”
Uno stato di attonito sbigottimento si delinea nei contrasti tra cose e misure: immensamente grande/troppo piccolo. Scorrendo le parole di Francesco, si entra in un tunnel dimensionale che denuda fragilità e precarietà delle cose e di noi stessi, sempre in cerca di risposte anch’esse troppo grandi o solo troppo piccole, minuscole, come la meschinità di quella sconcertante banalità del male che, appartenendoci, ci “misura” in relazione a ruoli e cose, decretando il nostro fallimento umano e terreno.
tutti questi oggetti sono rimasti uguali a prima il nome sulle etichette il fango secco sulle suole solo una cosa è andata avanti - non posso proprio chiamarlo vivere – c’è una stanza intera piena di capelli sono ingrigiti sul pavimento aspettando i giovani di allora che nella vecchiaia non li hanno mai raggiunti
La sospensione del tempo che aspetta se stesso, si incide nel “sopravvivere” delle cose, degli oggetti alla tragica parentesi d’esistenza cui appartennero, fissando “ciò che è stato” negli occhi di chi transita in un luogo tragico e d’indefinito.
La famiglia, la sua terra di confine, gli affetti spezzati, le tracce insanabili delle atrocità di una guerra infinita e cucita sulla pelle di un’umanità che ha declinato se stessa al procedere per inerzia, le piccole cose intime e quotidiane contrapposte ad i “finti grandi cambiamenti” ed agli avvenimenti di cronaca e storia, sono così fortemente presenti e pulsanti in questa poesia, da non lasciare indifferenti per la nuda e delicata fragilità ed onestà con cui si manifestano.
(nc)
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Brevi cenni biografici:
Francesco Tomada nasce a Gorizia nel 1966.
Ha vinto il Premio Nazionale “Beppe Manfredi” nel 2007 come migliore opera prima.
Pubblicazioni:
“L’infanzia vista da qui” – ed.: Sottomondo, dicembre 2005 – ristampa marzo 2006;
“A ogni cosa il suo nome” – ed.: Le Voci della Luna, 2008.
Alcune sue opere sono presenti nell’antologia “Dall’Adige all’Isonzo. Poeti a Nord-Est” – ed.: Fara, 2008.
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da “L’infanzia vista da qui”
L’ allargamento dell’Unione Europea
Ci sono caprioli che percorrono di notte
i sentieri jugoslavi di pattuglia
per evitare i rovi
come acrobati sul ciglio del confine
voi dite “non esiste più il confine”
ma io lo vedo ancora
è una traccia senza erba fra le spine
sono i cippi conficcati nella terra
perché fra tutti gli animali
l’uomo è il solo
che segna il territorio con le pietre
*
Auschwitz, 3 marzo (a Daniel)
Anch’io ho camminato lungo i binari
dove fermavano i treni dei deportati
volevo capire quel poco che posso
della colpa e del dolore
ma sono un uomo troppo piccolo
e questa pianura è troppo vasta e vuota
è terra distesa a sottolineare ciò che manca
è neve caduta a coprire ciò che resta
così dovrebbe essere il silenzio
qualcosa che si vede si tocca e
congela per sempre un angolo del cuore
ad Auschwitz una volta almeno si dovrebbe
andare tutti, rimanere muti muti muti
scegliere un nome a caso fra i sopravvissuti
io ho scelto Rose che allora era bambina
e poi chiedere scusa di essere arrivati troppo tardi
di esser nati troppo tardi
forse di esser nati
*
Hanno arato i campi stamattina
e nel sole freddo dell’inverno
il dorso delle zolle brilla lucido
come un diamante estratto dal profondo
io credevo che il dentro della terra fosse buio:
non capivo dove i semi prendessero il coraggio
e i crochi
il colore della loro fioritura
*
Astronomia privata
Ho cinque nei sul braccio
sinistro e già da bambino
li univo in una forma
di incudine
come una costellazione
in negativo
sul cielo roseo della pelle
che delimita lo spazio alla vista
ma non lo rinchiude
e non sai dove prosegue
l’infinito
se dentro o fuori o semplicemente
ti attraversa
*
Impercezione
Dormi e il tuo corpo si fa sottile
come un quadrifoglio tra le pagine
e non è carta ma stoffa di lenzuola
e non è libro ma tu portaci fortuna
in questa escoriazione fino al vivo
che per paura di essere banali
solo di rado chiamiamo amore
*
A mia madre
Guardo la casa dove vivi sola
la stessa dove anch’io sono nato
e ho vissuto
dici che più niente ti lega a questa terra
che verrai ad abitare più vicina a me
non si sa mai, un’influenza
o soltanto un mobile da spostare
intanto hai rinnovato le stanze
cambiato la cucina lucidato i pavimenti
dipinto la ringhiera dello stesso colore bruciato
che ha sempre avuto
è come se prima di andare
tu mettessi in ordine i ricordi
e ho paura di pensare che hai più di settant’anni
e senza dirmi niente per non farmi preoccupare
ti stai preparando a qualcosa di più grande
di un trasloco
*
(a Stefania, finalmente)
Eri troppo minuta per essere donna e sorella maggiore
come sembrava impossibile che tu fossi madre
come sembrava impossibile morire di parto
nell’anno duemila di Dio
pesavi di meno di questo cognome che oggi
io porto da solo che se si potesse prenderlo
in braccio e sollevarlo come facevo con te
sarei un uomo diverso e avrei un sorriso
più facile da regalare ai miei figli
*
Senzavino
Mio nonno diceva che mangiare
senza vino in tavola
gli ricordava il tempo della guerra
mia nonna gli sopravvisse a lungo
quando anche lei morì
trovammo milleduecento bottiglie vuote
allineate come soldati lungo il muro
dietro alla legnaia
dopo pranzo negli ultimi anni lei si sedeva sul divano
con un sorriso strano che allora non capivo
pensavo che fosse per qualcosa alla televisione
invece
aveva approfittato della pace
*
So come muoiono le farfalle
come un uomo disteso di schiena su di un prato
guardano tutto il cielo che hanno
attraversato e poi
allargano le ali sopra l’erba
per allontanare la fatica
e pensano per sempre di volare
*
(notturno, due note per un ritorno)
Dal ventre di mia madre mi trassero a fatica, avevo una mano sugli occhi come a coprirmi dalla luce e non passavo, non passavo. Mio zio si fermava ogni giorno davanti alla culla, poi mi guardava la testa e diceva: ”Non prenderà mai una forma normale”. Aveva ragione, ho ancora i lineamenti non regolari, ma stanotte c’è una luna comprensiva che mi segue verso casa e la sua luce lieve cambia i miei difetti in ombre.
Un capriolo è uscito dai campi, è rimasto nel fascio dei fari con le pupille brillanti come diamanti a mezz’aria. Ho frenato, mi sono fermato, dopo un secondo lunghissimo è andato via. Come le bestie abbagliate quando aspettano la morte, così io chiedo ci prenda la vita: di schianto e noi lì ad aspettarla ad occhi serrati, con quel coraggio che io non ho avuto neppure nascendo.
*
da “A ogni cosa il suo nome”
Il negativo e l’immagine
Quando i bambini di qui fanno la guerra
bastano quattro cuscini sul letto per costruire una base
tutti hanno pistole o fucili con il tappo colorato in rosso
alcuni perfino bombe di gommapiuma
allora mi chiedo se i bambini di Beirut giocano alla pace
e come ci riescono
perché non ci sono case giardini genitori di plastica
e morire per finta è facile
ma vivere per finta non si può
*
Il museo della guerra di Karlovac è
una caserma bombardata che puzza di urina
nel cortile ci sono cannoni e mezzi corazzati
quelli nemici semidistrutti
quelli croati nuovi e lucidi
come se la battaglia dovesse ricominciare domani
nel mezzo quello che resta di un Mig
i ragazzini lo guardano entusiasti
gli corrono attorno
ma io vorrei dirgli che la coda di un aereo abbattuto
non è come quella di una lucertola
che si stacca senza dolore
se la stringi tra le mani
sulla fusoliera c’è una stella rossa
vorrei dirgli che anche in volo
non ha mai brillato come quelle vere
dal suo cielo di lamiera
*
Nell’armadio
Tutti i biglietti che lascio nelle tasche
delle giacche ai cambi di stagione
sono indirizzi numeri di telefono
e dirsi ecco dov’erano finiti
sono persone da aggiungere alle tante
che ho cercato nei posti sbagliati
proprio quando ne avevo bisogno
proprio mentre le stavo perdendo
*
Anonimi si nasce
I tuoi occhi hanno il colore di terra bagnata
se io fossi contadino direi buona da coltivare
ma da contadino mi sentivo solamente
quel fare grossolano e inadeguato delle mani
quando ho messo in te il mio seme
il mio gesto voleva essere di amore
ma somigliava più a un atto primitivo
un urlo lanciato con il ventre
mentre tu trasformavi in un embrione
il mio sentirmi vivo
*
1920
C’è questa foto del millenovecentoventi
dove si vede distrutta la casa che adesso abitiamo
una granata italiana l’aveva colpita
proprio la casa proprio la camera
dove poi abbiamo concepito i figli
ma di quei momenti nostri non ci sono immagini
e la vita quando esplode dentro non fa nessun rumore
e anche io ti ho posseduta così si dice
ma in realtà non ho posseduto niente
sei come questa terra dove per lasciare un segno
è inutile combattere bisogna appartenere
diventare umili e abitare con pazienza
come fa il colore su una rosa
*
Topolò, valli del Natisone, pt. I
(un secolo fa nel paese abitavano quasi quattrocento persone, oggi poco più di trenta)
Amo le cose che si annunciano
con un odore e un silenzio, come la neve
oggi una donna anziana mi raccontava
una volta ne cadeva così tanta
che non sapevamo dove metterla
avrei voluto chiederle che cosa facevano del silenzio
perché quello non si scioglie in primavera
rimane impigliato come certe nubi sul fondo delle valli
lo sento anche adesso
è strano pensare di sentire il silenzio
pensare che un solo silenzio rende anonime ed uguali centinaia di voci
quelle di tutti gli emigranti che sono andati via
*
Topolò, valli del Natisone, pt. II
Nel novembre del ‘43 i tedeschi fucilarono cinque partigiani nei boschi oltre le case.
La loro tomba è nel cimitero, sotto il monumento che li ricorda.
Un’incisione sulla lapide ne riporta i nomi, tutti meno uno, partigiano italiano ignoto.
Invece sapevano chi era, ma non stava bene che un carabiniere si fosse unito alle brigate comuniste.
Preghiamo l’eterno riposo per affidare i morti alla terra, ma dalla terra non impariamo la sepoltura del rancore.
Il partigiano italiano ignoto viene tradito di nuovo tutte le volte che qualcuno legge il suo non-nome.
Allora prendiamo un pennarello nero indelebile e sulla pietra scriviamo in maiuscolo,
scriviamo in tanti, ciascuno con la sua calligrafia e con l’orgoglio
di chi per settant’anni ha dovuto firmarsi con la X
ARCANGELO FABIANI
ARCANGELO FABIANI
ARCANGELO FABIANI
*
Domenica mattina ha traslocato la famiglia di bosniaci
che abitava qui di fronte
hanno ammassato su un furgone scoperto
tutte le loro cose
reti di letti mobili e giocattoli dei figli
la gente all’uscita di messa li guardava
senza capire come si potesse
spostare una casa intera in un solo viaggio
hanno salutato sorridendo come sempre
poi sono saliti
hanno messo in moto e sono andati via
l’ultima immagine che resta delle loro vite
è una scritta a pennarello nero sullo scatolone
caricato in fondo
FRAGILE
*
Preval
A volte capita che le farfalle
scorrano sul parabrezza prese nel flusso del vento
senza neppure toccare il vetro
e dietro alla macchina ritornino a volare come prima
non possono neanche gridare per lo spavento
sono così delicate che
si dovrebbe sollevarle con la mano
anzi, anzi
di mestiere voglio fare il lanciatore di farfalle
e alla fine di un giorno di lavoro
non dover contare le banconote in cassa
o controllare i voti scritti sul registro
ma guardare in alto un cielo
tutto pieno d’ali
*
(sono queste le righe che cercavo per Rose)
Cosa c’è nel museo di Auschwitz
ci sono scarpe abbastanza da calzarne i piedi
di una intera generazione
occhiali per vedere tutti i panorami d’Europa
valigie per milioni
di possibili ritorni a casa
tutti questi oggetti sono rimasti uguali a prima
il nome sulle etichette il fango secco sulle suole
solo una cosa è andata avanti
- non posso proprio chiamarlo vivere –
c’è una stanza intera piena di capelli
sono ingrigiti sul pavimento aspettando i giovani di allora
che nella vecchiaia
non li hanno mai raggiunti