Il libro è un mix, non sempre riuscito, fra ricostruzione “scientifica” della storia italiana dal dopoguerra ad oggi e pamphlet a tesi. Per essere un pamphlet, di quelli che vanno di moda ora (130 pagine scritte larghe) presenta troppi fatti ed informazioni – compresa un’Appendice statistica. Come ricostruzione “scientifica” è spesso parziale e molte affermazioni sono relativamente poco documentate. In alcuni casi, come l'entità dei trasferimenti fra regioni e gruppi sociali mediati dal bilancio statale, mancano dati e ricostruirli è molto difficile (anche se sarebbe un contributo veramente importante alla conoscenza storica). In altri casi, si tratta di informazioni su fatti e persone note agli anziani politicizzati come me (io c’ero, almeno come osservatore). Probabilmente, un giovane o chiunque non abbia seguito molto l’attualità politica avrebbe bisogno di qualche ricerca aggiuntiva. Non è quindi un libro facile da leggere sotto l’ombrellone. Bisogna perlomeno essere su una veranda con accesso alla rete. Il libro però merita un minimo di sforzo perché la tesi è molto interessante e largamente condivisibile, almeno da chi frequenta questo blog.
In sostanza, Amato e Graziosi sostengono che, a partire dai primi anni Sessanta, gli italiani si sono illusi di essere diventati ricchi e quindi di potersi permettere un tenore di vita da grande paese europeo. Invece si stavano mangiando il capitale faticosamente accumulato nella straordinaria stagione di sviluppo nota come miracolo economico. In questo modo hanno ridotto le potenzialità di crescita dell’economia italiana fino a portare alla stagnazione, manifestatasi ben prima dello scoppio della crisi attuale. Si è trattato di una illusione, come si dice ora, rigorosamente bipartisan: la DC ed il PCI hanno gareggiato a offrire più diritti, più sussidi, più aiuti (a spacciare più illusioni) almeno fino agli anni Ottanta. Dall’inizio degli anni Novanta alcuni coraggiosi (in primis Amato con la famosa finanziaria del 1992-1993) hanno tentato di invertire la tendenza, ma sono solo riuscitia convincere gli italiani che non si poteva avere di più. La maggioranza fatica ancora ad ammettere che anche i diritti già acquisiti sono economicamente insostenibili. O meglio, l’Italia è formata da decine di minoranze, ciascuna delle quali è assolutamente convinta dell’opportunità di eliminare gli ingiusti privilegi altrui, ma risolutamente contraria a toccare i propri diritti inalienabili.
Non è possibile in questa sede riassumere il libro, per ovvie ragioni. Mi limiterò a citare alcuni dei punti che mi sono sembrati più interessanti o anche criticabili
i) la necessità politica di una redistribuzione delle risorse mediata dallo stato è derivata in ultima analisi dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale, che ha distrutto la fragile legittimità della classe politica risorgimentale e delle sue aspirazioni di grande potenza. Quindi si è manifestata già alla fine degli anni Cinquanta, quando il paese è uscito dal clima di emergenza della ricostruzione.
ii) il combinato effetto della protesta studentesca (il Sessantotto) e delle manifestazioni operaie (l'autunno caldo del Sessantanove) hanno accellerato un processo politico già in corso. Personalmente, trovo che gli autori tendano a sottovalutare l'impatto degli avvenimenti della fine anni Sessanta e delle riforme dei primi anni Settanta. La crescita della spesa pubblica e del welfare a scopi redistributivi è stato un fenomeno comune a tutti i paesi avanzati. Solo in Italia, però, si è accompagnata ad una profonda (e disastrosa) riorganizzazione dello stato in senso regionale che ha moltiplicato i centri di spesa. E solo in Italia il Sessantotto/Sessantanova ha creato una mistica della “lotta” con relativa sospensione della legalità che, seppure in forme attenuate, ci portiamo dietro ancora oggi, soprattutto nei servizi pubblici.
iii) trovo l’interpretazione della storia degli ultimi vent'anni alquanto manichea, anche se temperata da uno scetticismo di fondo sul popolo italiano. Da un lato ci sono i buoni – la sinistra riformista che ha tentato di salvare l’Italia negli anni Novanta, con qualche (parziale) buon risultato. Dall’altro ci sono tutti gli altri, che, una volta evitato il disastro, hanno votato Berlusconi che ha sprecato la grande occasione dell’euro. Dopo la fine della stagione delle riforme, anche la sinistra, trascinata dalle sue frange più massimaliste, si è adeguata.
iv) la classe dirigente italiana, con pochissime eccezioni negli anni Cinquanta e negli anni Novanta, si è rivelata assolutamente mediocre ed incapace di vedere oltre il proprio naso. Come i generali francesi, si è sempre preparata per la guerra precedente. Non si è accorta delle grandi trasformazioni della società italiana, non si è resa conto del carattere eccezionale della crescita economica durante la golden age (1950-1973) e non ha compreso l’enorme sfida della globalizzazione. Tutte le classi dirigenti dei paesi occidentali hanno peccato di miopia da questo punto di vista, ma quella italiana è stata proprio cieca. A mio avviso Amato e Graziosi trascurano abbastanza il ruolo delle classi dirigenti non strettamente politico/partitiche. In particolare, manca una critica alla burocrazia ministeriale ed alla sua cultura formalistico-giuridica, che negli ultimi anni è stata forse il principale ostacolo alla riforma della pubblica amministrazione.
v) gli autori sottolineano con forza, ed a mio avviso molto giustamente, l’importanza dei fattori demografici. L’abbondanza di manodopera giovane negli anni Cinquanta e Sessanta è stato uno dei fattori essenziali del miracolo economico – più in termini di energia imprenditoriale che di riduzione del costo del lavoro. Ora l’invecchiamento della popolazione è uno dei problemi più gravi del paese, e gli autori giustamente ritengono un aumento dell’immigrazione l’unica soluzione ragionevole
Il libro non si chiude con una proposta politica esplicita – casomai si sente il rimpianto per le occasioni sprecate. L’impostazione generale implica però una visione molto pessimistica. Le classi dirigenti sono, se possibili, peggiorate e manca infatti in Italia un obbiettivo condiviso che possa giustificare uno sforzo di riforma, come lo era stato l’entrata nell’euro negli anni Novanta. Anzi, gli autori notano con palese dispiacere come l’Europa sia divenuta, nell’immaginario collettivo di una parte cospicua se non maggioritaria degli italiani, il principale responsabile della crisi. Se solo i tedeschi ci permettessero di tornare ai beati anni Settanta, ovviamente pagando graziosamente il conto, tutti staremmo meglio. Aggiungo una riflessione personale. Amato e Graziosi mettono in chiaro che la redistribuzione ha favorito in maniera particolare alcuni gruppi sociali – ed in particolare i dipendenti pubblici ed i pensionati (le pagine sulla riforma delle pensioni degli anni Settanta sono fra le più illuminanti del libro). Si rendono anche conto che la ripresa economica richiede un drastico taglio della spesa pubblica. Ma non traggono le conclusioni su chi deve pagare il conto. Forse è politicamente troppo doloroso.