A 20 anni esatti dall’azzeramento di ogni produzione nucleare nel nostro Paese; a 27 anni dall’ultima centrale realizzata (da Enel a Caorso, vicino a Piacenza); a circa 40 anni dalla relativa procedura di licensing, è possibile rientrarvi e a quali condizioni? E’ possibile, in altri termini, dopo aver distrutto tutto il sapere di cui disponevamo – scientifico, progettuale, manifatturiero, gestionale – realizzare in tempi brevi nuove centrali nucleari, come Enel va dichiarando, dicendosi pronta a realizzare “5 centrali da 1.800 MWe in 8 anni” (3 per l’autorizzazione, 5 per la costruzione). Roba, che se vera, farebbe schiattare di rabbia i francesi? Ancora: è possibile, per tale via, contrastare il caro-petrolio e ridurre l’enorme svantaggio competitivo nei costi/prezzi elettrici verso l’Europa?
Il meno che si possa dire è che la realtà delle cose è ben altra da quel che si cerca di rappresentare e che le risposte ai problemi da risolvere sono molto ma molto più complesse di quanto appaia dalle semplicistiche posizioni espresse nel dibattito che si è acceso al riguardo. Dibattito teso, ieri come oggi, più a far la conta dei favorevoli e dei contrari al nucleare, per fini squisitamente politici, che a comprendere se quel che si propone abbia un qualche minimo fondamento e, soprattutto, quali siano le condizioni per darvi concreto seguito.
E’ mia opinione – e lo dico essendo stato tra i pochi che si batterono contro il referendum del 1987 e contro chi oggi ne parla a sproposito o se ne dice pentito (alla Chicco Testa, per intenderci) – che il rientro nel nucleare non possa che realizzarsi in un’ottica di lungo periodo e non come concreta e ravvicinata possibilità di ridurre significativamente i costi dell’elettricità. Non illudiamoci. A parte il fatto che per riuscirvi bisognerebbe realizzare molte e non poche centrali, concorrono ad impedirlo, accanto a ragioni d’ordine sociale, in un paese che non riesce a realizzare una discarica, un rigassificatore, un termovalorizzatore, altre d’ordine economico. In sintesi: l’incompatibilità del nucleare con la logica di mercato che connota oggi i sistemi elettrici e che governa le decisioni degli investitori e finanziatori.
E’ proprio il mercato che spiega l’innegabile impasse in cui il nucleare versa – checché se ne dica – nell’intero mondo industrializzato. Sulle 35 centrali attualmente in costruzione nel mondo (di cui 13 bloccate), 20 sono nei paesi emergenti (in molti casi in regimi non propriamente democratici) e appena 5 nei paesi industrializzati. Nessuna negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Germania, in Canada, in Spagna. Negli Stati Uniti, l’ultimo kWh ordinato risale al 1978, mentre dal 1990 si sono costruite in quel paese centrali a metano per 220.000 MW.
Tra 1970 e 1990 si sono costruite nel mondo 17 centrali nucleari ogni anno. Dal 1990 al 2005 appena 1,7 all'anno, per lo più nei paesi emergenti. I dati, nudi e crudi, sono questi. Venute meno le condizioni che in passato favorirono gli investitori (enormi aiuti di stato, assetti monopolistici che garantivano la domanda, prezzi che coprivano i costi remunerati), essi hanno volto le loro preferenze là dove i costi di capitale sono di gran lunga inferiori; dove rischi ed incertezze di mercato sono molto minori; dove i rientri degli investimenti sono molto più rapidi. Dove, in sostanza, la redditività è più certa e maggiore (in primis: metano) o dove addirittura è garantita (con i lauti sussidi alle mitiche quanto marginali rinnovabili).
Morale: le convenienze di mercato disincentivano oggi investimenti di lungo periodo, come sono tipicamente quelli nel nucleare. Piaccia o no, ma è così. Non a caso, l’unica centrale in costruzione in Europa, in Finlandia, è stata realizzata grazie ad un modello societario che bypassa il mercato (e grazie ad aiuti di Stato che la Commissione Europea ha messo sotto indagine), attraverso una partnership chiusa tra produttori e grandi consumatori che si sono impegnati a ritirare la produzione nell’intera vita della centrale a prezzi ancorati ai costi remunerati. Quel che ha azzerato ogni rischio di mercato, con la disponibilità delle banche a finanziare la centrale a tassi la metà di quelli altrimenti praticati.
Conclusione: in passato erano gli Stati a decidere se investire o no nel nucleare, oggi è il mercato. Accapigliarsi su quanto costi il nucleare rispetto alle altre fonti – confronto per altro difficilissimo – ha poco senso. Quel che conta è, infatti, la valutazione di convenienza che ne fanno imprese e banche, che rischiano del loro denaro. Se ne sono convinte, è perché ritengono che il nucleare sia vincente nel gioco del mercato.
Il ruolo degli Stati oggi è altro da quello del passato: è garantire certezza dei processi autorizzativi; definire standards e vincoli di sicurezza; predisporre organismi di vigilanza e di controllo altamente specializzati (in Italia sono stati sostanzialmente cancellati e vanno interamente ricostruiti); concorrere a individuare i siti delle centrali e quelli per smaltire le scorie (ed i modi con cui farlo); definire le politiche di regolazione. La decisione ultima resterà, comunque, degli investitori privati. Allo stato delle cose il loro interesse nella quasi generalità dei paesi industrializzati non va affatto palesandosi (Enel a parte), così che l’Agenzia di Parigi (un organismo associato all’OCSE e non un covo di anti-nuclearisti) stima, sulla base degli ordinativi in essere, solo una leggera crescita del nucleare nel mondo da qui al 2030, contro un raddoppio della complessiva produzione elettrica, con un conseguente calo della quota del nucleare di 6 punti, al 9%.
Essere realistici non significa, tuttavia, escludere che il nostro Paese debba e possa riprendere la via del nucleare in un futuro non immediato, ma da costruire, comunque, da subito. L’orizzonte internazionale è l’unica prospettiva entro cui farlo: puntando a recuperare e valorizzare il poco sapere rimasto; aggregandosi all’altrui impegno di ricerca; ripartendo, in buona sostanza, da zero: sul piano industriale, gestionale, istituzionale. Dire altrimenti, in modo strumentale e fazioso, è truccare le carte in tavola.
Perché questa prospettiva si traduca in fatti è necessario disegnare una chiara e credibile strategia di lungo periodo che fissi gli obiettivi da raggiungere e in che tempi; definisca l’assetto delle responsabilità nel rapporto pubblico-privato; quantifichi le risorse finanziarie che si intendono impegnare nella ricerca e a carico di chi; chiarisca in anticipo le politiche di regolazione dei mercati tali da ridurre le incertezze per gli investitori senza gravare sui consumatori o sui contribuenti. In altri termini: senza che si adottino altri sussidi simili a quelli che vanno gonfiando le bollette elettriche per sostenere le fonti rinnovabili (quantificabili nel solo fotovoltaico in 10 miliardi di euro nei prossimi 12 anni): con rendite a beneficio di pochi privati e a carico dell’intera utenza (ad oggi circa 40 miliardi di euro).
Una strategia che richiede chiarezza di intenti, determinazione nel perseguirli, continuità d’azione, e, non ultimo, piena condivisione politica (dati i lunghissimi tempi del potenziale rientro, non meno di 15-20 anni), onde evitare altri “Stretti di Messina”: ovvero che quel che una parte politica avvia, l’altra smantella. Senza nessuna illusione, comunque, di poter rimediare in breve ai morsi sempre più dolorosi della crisi energetica e agli sciagurati errori di venti anni fa. Di illusioni, sprechi, fallimenti nel nucleare ne abbiamo già patiti troppi in passato per poterne sopportare di altri in futuro.
L’articolo è apparso originariamente sul numero del 16 Giugno 2008 de
Complimenti per l'articolo. Anche a me sembra si stia parlando di nucleare a sproposito e con toni da barzelletta. Un'altra lettura interessante e' qui:
http://www.economist.com/world/britain/displaystory.cfm?story_id=11559889
Io non nutro alcuna avversione pregiudiziale nei confronti del nucleare, e penso che, a posteriori, il referendum dell'87 si sia rivelato un grosso errore. E' illusorio pensare di ribaltare la situazione in pochi anni, pero'.
Nota a margine: lasciando perdere i discorsi razionali e vista la qualita' della politica e della pubblica amministrazione italiana e tutti gli scandali legati ai rifiuti venuti fuori negli ultimi anni, non posso che tirare un piccolo sospiro di sollievo al pensiero che con il referendum ci siamo evitati qualche chilo di scorie... E non parlo solo di Napoli! Le inchieste di Riccardo Bocca sull'Espresso, per esempio, nessuno le ha piu' riprese...