Introduzione
Un commento del sottoscritto, a margine del dibattito su universita' ed omerta', ad un articolo di Nicola Lacetera e Francesco Lissoni sulla Voce, ha generato un dibattito un po' acceso sul tema privatizzazione. Lo trovate (il dibattito fra Lacetera e Boldrin) qui, nei commenti successivi alla data del 22 Febbraio. Come e' chiaro da quanto ho lì scritto, le critiche di Lacetera e Lissoni alla proposta di De Fraja - che e' in sintonia con quella fatta da Roberto Perotti e compatibile con il quadro da me suggeritoin varie istanze - non mi convincono molto. Anzi, non mi convincono proprio; comunque io la mia l'ho detta.
Ho pensato di chiedere a Nicola Lacetera di riformulare le sue critiche alla proposta di Gianni De Fraja, ed a quest'ultimo di ribattere a tali critiche. Entrambi hanno molto gentilmente risposto, ed i due articoli li trovate qui di seguito. Buona lettura.
Michele Boldrin
L'articolo di Gianni ed il commento di Nicola su LAVOCE.IT'' 'Pagina 2: La critica di Nicola Lacetera'' 'Pagina 3: La replica di Gianni De Fraja
La critica di Nicola Lacetera
'(1) Dimensione ottima minima. Quando si parla di dimensione minima efficiente di una universita', e' importante distinguere tra la funzione di teaching e quella di research. Teaching, ragionevolmente, richiede numeri di studenti contenuti per minimizzare i costi. Ma noi obiettiamo sulla ricerca, che non si misura con il numero di studenti undergraduate. Per dire: Chicago ha 5000 undergraduate e 9000 graduate, che sono gia' una proxy migliore della ricerca; la Statale 1 di Milano ha 30000 undergraduate e 4600 graduate (Case Western)... chi ha una scala di ricerca piu' grande?.
Si noti poi che le research universities americane sono, per definizione della Carnegie Commission, circa 200. Cioe' il numero max di universita' che Gianni DeFraja, nel suo articolo sul Lavoce, calcola per l'Italia. Ora, qualche rapido calcolo, giusto cosi'. Le spese complessive di R&D sul totale del GDP sono doppie negli USA rispetto all'Italia. Il GDP degli USA e' circa 7 volte quello italiano. In valore assoluto, quindi, le spese per R&D negli USA sono circa 14 volte quelle italiane, e 200 diviso per 14 fa meno di 50. Fa circa 14,2. Quindi, immaginare un "mercato della ricerca" in cui le università offrono ricerca in base a meccanismi d'asta, pare arduo in Italia, dati gli small numbers.
Alle grandi research universities americane, poi, non importa granche' avere tantissimi undergraduates, perche' i fondi che ottengono, anche per la ricerca, non sono legate al numero di studenti undergrad. Usare il numero di studenti undergrad per asserire che le universita' americane son piccole, quindi, davvero dipende da cosa stiamo discutendo: ricerca, o insegnamento?.
(2) Non confondiamo concorrenza e privatizzazione. Sono due cose diverse e, in particolare, la seconda non e' sempre necessaria per la prima.
Per quanto riguarda la concorrenza, poi, in senso "puro" (da micro 101) non ne esiste in nessuna parte del mondo accademico, in Europa o altrove. Concorrenza (di mercato) e competizione (per i fondi di ricerca) sono infatti cose diverse: la prima si fa dando valore centrale al prezzo del servizio offerto, la seconda dando enfasi alla qualità del prodotto e documentando semplicemente i costi (spesso neanche quello, perche' l'ente erogatore dei fondi stabilisce lui quali siano i costi ammissibili e in che misura). La competizione e' basata solo sul peer reviewing. Si noti che, per questo scopo, essere pubblici o privati non fa alcuna differenza.
Ricordiamoci poi che la competizione, per esempio in America, avviene anche a livello delle fonti di finanziamento. Come spiega Francesco Lissoni in un intervento su lavoce.info, una carattersitica importante del sistema americano e' proprio questa pluralita' di agenzie che a loro volta competono per attirare i ricercatori migliori.
Continuiamo a pensare, poi, che i due mercati a cui potrebbe affacciarsi l'università - insegnamento e ricerca - sono fortemente afflitti da problemi di asimmetria informativa. Nel nostro articolo su lavoce.info diciamo "afflitti piu' di altri": non escludiamo che moltri altri mercati lo siano. Ma, per venire alla analogia di Michele, mentre se compri una bottiglia di vino e non ti piace, la prossima volta ne compri un'altra, se la tua educazione non e' buona sei un po' meno flessibile, diciamo. Certo, c'e' la reputazione e ci sono le classifiche, but still. Specie se si mantiene il valore legale del titolo di studio, beh, molti studenti potrebbero essere attratti, che so, da un corso di leaurea estremeentne specifico (nel triennio), semplice e inutile, all'interno, che so, di una facolta' comune. Alla stessa Bocconi, doveplausibilmente la vrianza tra studenti e' inferiore ad altre universita' (potrei sbagliarmi), alla fine si e' tutti laureati in economia, ma tra i vari corsi di laurea (specielmente nel periodo della super proliferazione, diciamo 2000-2004 circa) le differenze erano davvero grosse. Questo per dire, c'e' ancora spazione perche', in un sistema puramente competitivo in senso tradizionale, ci siano incentivi a mandare segnali distorti. E rimandiamo di nuovo ad Acemoglu-Kremer-Mian per alcune interessanti considerazioni.
Tutto questo porta a dire che siamo contro la competizione? Non mi sembra. Piuttosto, cerchiamo di qualificare che ci sono diversi tipi di competizione nel mondo accademico, e che vanno analizzati separamente a seconda delle loro peculiarita', e di cui vanno analizzate (if any) le interazioni.
Dire semplicemente: c'e' spazio per universita' piccole che possono competere come in un tradizionale mercato, senza fare le qualificazioni di cui sopra (teoriche e empiriche), puo' essere fuorviante.
Possibilmente, infine, separiamo la questione della competizione dalla questione dell'assetto proprietario,: mesclare le due cose, di nuovo, puo' essere essere fuorviante, specie per lettore meno attento ed esperto (non tutti quelli che leggono lavoce.info scrivono di dynamic EEG...:)). Di qui il nostro modesto tentativo di riportare un po' di equilibrio nel dibattito.
(3) La parola "privatizzazione" e' diversa da "privato". Pressocche' tutte le università private degli States sono nate come tali, per iniziativa di alcuni filantropi, e tali sono rimaste tutta la vita. Nessuna o quasi e' nata come università pubblica ed e' stata poi "privatizzata". Al contrario, qualche università privata (in Georgia e Pennsylvania, ad esempio) è stata assorbita dal sistema pubblico perche' versava in difficoltà economiche. Nel suo libro di memorie del 1982 Derek Bok (allora presidente di Harvard, e di nuovo presidente ad intermi dalla caduta di Summers all'avvento della presidentessa) racconta di come Harvard e altre università private americane hanno temuto lo stesso destino negli anni '70. Tra l'altro, questo è il destino di una delle poche università private italiane, quella di Urbino.
Perche' precisiamo questo punto? Because history matters: sui libri di microeconomia 101 una impresa privata e una privatizzata sono la stessa cosa; nella vita economica reale no, perche' i comportamenti si imparano nel tempo, e non c'e' nulla che garantisca che un barone di una università "privatizzata" gestirà i soldi (sempre e comunque pubblici, in larga parte) ricevuti per l'educazione e la ricerca in modo piu' simile a un manager di una impresa privata, piuttosto che a quello che e' sempre stato, un baronazzo e basta.
Se lo scopo della "privatizzazione" e' quello di introdurre competizione nel sistema, si puo' seguire la proposta di Daniele Checchi di creare delle fondazioni, dire chiaramente agli enti locali che hanno voluto la proliferazione di sedi che hanno il dovere di entrare in queste fondazioni per sostenere le loro università locali (autonomia va insieme con responsabilita'), e far magari scegliere allo Stato centrale un numero limitato di università in cui entrare direttamente con proprie quote. Detto questo, le ammissioni in queste università, numero programmato o no (che esiste gia' in molte sedi), seguiranno criteri non strettamente di mercato, ma di offerta selettiva di un bene pubblico, qual'è l'educazione, e di un altro bene pubblico, qual'e' la ricerca fondamentale e non orientata.
(4) Nota sulla educazione e la ricerca come bene pubblico. L'educazione non e' proprio proprio un bene privato. Forse non e' un bene pubblico nel senso stretto del termine (non rivalry, non excludability...). Tuttavia, ogni persona educata genera esternalità positive, perche' entra in una rete di persone educate il cui rendimento complessivo e' superiore alla somma del rendimento che i singoli potrebbero avere da soli. E genera esternalità a livello di partecipazione alla vita pubblica, comportamenti collettivi, associazionismo. Concedo che l'evidenza empirica non e' univoca o definitiva (si veda qui, per esempio, o qui). Ma nell'ambiguita', e con almeno un po' di evidenza in questa direzione, mi sento di partire (magari non applico troppo skepticism?) da questa asserzione. La ragione fondamentale per cui l'università di massa è prevalentemente pubblica (o e' privata ma sussidiata) è questa. E' del tutto naturale, quindi, che le università in tutto il mondo siano prevalentemente pubbliche o che, quando private, siano state finanziate da filantropi e non da imprenditori (cioe', erano imprenditori quando sedevano nei CdA delle loro imprese, ma si comportavano da filantropi quando sedevano nel Board delle loro università). Addirittura, (si vedano i saggi, ad esempio, di Maryann Feldman e coautori e di David Mowery) due università private come Johns Hopkins e Stanford sono state tra le ultime ad abbracciare le pratiche di brevettazione diffusa dei propri risultati di ricerca, perche' molto restie ad abbandonare l'ethos dei fondatori per la ricerca disinteressata e non commerciale. Anche le nostre osservazioni sui fondi pubblici alla ricerca derivano da queste considerazioni. In America, le imprese private finanziano meno del 10% della ricerca universitaria. Siamo intorno al 7% dai primi anni Ottanta, la stesa percentuale, circa, degli anni Cinquanta (e piu' degli anni Sessanta-Settanta, per completezza).
Ora, questo implica che bisogna statalizzare tutto quello che e' sussidiato? Faccio davvero fatica a credere che si possa dedurre quersto da quello che scriviamo nel pezzo su lavoce.info.
Si tratta di essere consapevoli che un mercato "puro" puo' essere difficile da realizzare. Sicuramente, come per le carote, parte di questi sussidi sono il frutto di lobbying e altre inefficienze. Ma, per quanto detto subito sopra, l'educazione, e pure e forse soprattutto la ricerca (specie quella di base) hanno caratteristiche peculiari (diverse dalle carote) e il finanziamento pubblico puo' essere necessario, creando cosi' condizioni naturalmente non proprio di mercato.
(5) Insistiamo sugli esempi di Chicago GSB - Barcellona/Londra/Singapore e di JHU-Bologna. Le loro succursali/acquisizioni all'estero hanno creato delle teaching schools, e solo in alcune discipline. Sono un esempio su cui basarsi e da estendere? Non ne siamo sicuri. Vediamo cosa fanno le altre universita' impegnate in questi tentativi, magari, prima di trarre conclusioni definitive e prima di inferire cosa potrebbe succedere in Italia.
In definitiva, prima di avanzare proposte semplici e sexy, semplicemente riteniamo che sia importante chiarire di cosa stiamo parlando, e cosa volgiamo che sia l'universita' italiana. La ricerca e l'insegnamento sono cose molto diverse su molti piani, e tali vanno trattate quando si avanzano proposte di riorganizzazione di quelle instituzioni preposte a offrire l'una e l'altra funzione.
Parliamo della nature peculiare del bene ricerca e del bene educazione. Parliamo delle diverse forme e diversi livelli di competizione. Parliamo di tutti gli attori e istituzioni coinvolti. Parliamo di come misurare le dimensioni e come calcolare i costi. Partiamo dalla situazione attuale del sistema, e di come proposte semplici e sexy potrebbero davvero modificarlo (o no). Informiamoci bene su come funzionano altri sistemi, e quali davvero siano le carattersitiche peculiari che li fanno funzionare o meno. E guardiamo anche agli esempi che abbiamo, se e come hanno funzionato, e se c
" PS: Sono particolarmente curioso di leggere opinioni sul questo nostro dibattito dai colleghi che sono in Italia e che, magari, si fanno il mazzo per migliorare l'universita'. Cosa pensate delle nostre opinioni? E sono secondo voi, gli argomenti che trattiamo e portiamo, quelli davvero importanti? What are we missing? Vi riconoscete in quello che diciamo, in questi ultimi interventi e nei precedenti"
La replica di Gianni De Fraja''
(1) Gli esempi di università straniere con campus all'estero che davo (inaccuratamente as it turned out) servivano solo a suggerire che secondo me (molte tra) le università straniere vogliano espandersi, e che il mercato italiano sarebbe ghiotto, per sostenere che non vi sarebbe carenza di potenziale compratori. Il bello poi di un'asta è che se c'è poco interesse e non si vende (ad un prezzo superiore a quello minimo) si sono sprecati solo i costi organizzativi dell'asta.
(2) Per quanto riguarda i numeri: un'università mica deve insegnare e fare ricerca in ogni campo. Tra le migliori in europa, LSE è specializzata (ha quasi solo scienze sociali); Oxford e Cambridge hanno praticamente tutto. Non esiste la struttura ideale per un ateneo (mi pare anche che gli esempi americani di Michele chiariscano questo fatto). Il numero di dipartimenti (possible e/o ottimo) in una nazione dipende dalla tecnologia e dalla domanda: fino a Toni Blair in UK c'erano circa 10 medical schools. E le università chiudono dipartimenti di scienze con regolarità impressionante (un mio amico, biochimico, preferisce essere lecturer a Oxford, dove ha fondi, laboratory state-of the-art, phd e post doc, che professor in un'università dove deve - parole sue - lavare e ri-usare le provette: la ricerca, nel suo campo, in UK si fa solo a Oxford, Cambridge e UCL). Un dipartimento di chimica costa tanto, e gli economisti si stufano di lavorare perché i loro colleghi chimici possano comprarsi i lab all'avanguardia.
Magari lo steady-state in Italia è avere un sistema con 100 università di cui 20 di elite in ricerca e insegnamento in molte discipline, 10 specializzate per disciplina, 30 specializzate in teaching avanzato per laureandi, con poco peso per la ricerca, 30 specializzate in corsi di basso livello. Con riguardo a quest'ultime: inutile negare che ci siano studenti con scarse abilita', ci sono e ci saranno sempre: la scelta è se abbandonarli a se stessi come si fa adesso, o offrire loro una laurea che serva sul mercato del lavoro. Se ci sono poi 100 dipartimenti di economia e 50 di sociologia, 40 di biologia e solo tre di fisica sperimentale, pazienza, i fondi per la fisica se li spartiranno a turno dopo un giro di telefonate, ma almeno nelle altre discipline si compete. Magari il punto d'arrivo finale è completamente diverso, a priori chi puo' dire?
Il punto della mia frase "tra 50 e 200" che tanto ha incensato Lacetera, era semplicemente per dire che il rischio che il sistema universitario italiano privatizzato diventi, per motivi tecnologici, un monopolio privato è bassissimo (al contrario, ad esempio, della distribuzione della rete elettrica): se poi lo diventa per collusione è un'altra faccenda. Mi sembrava (e mi sembra tuttora) un punto ovvio. Non ho dati rigidi: i numeri, sia il 50 che 200 della Voce sia questi qui sono stime fatte a spanne sulla base della situazione in UK, paese simile per molti indicatori rilevanti - sviluppo, GDP, popolazione, consenso sui confini delle sfere pubbliche e private - e questa è l'unica evidenza empirica che posso addurre.
(3) Questo mi collega al punto sul quale Michele si dice in disaccordo con me, mentre io sono d'accordo con lui. La competizione è più importante della proprietà: se si riuscisse a introdurre competizione, privatizzare non sarebbe necessario. Ma è possibile secondo voi introdurre competizione nel sistema attuale? Per funzionare la competizione ha bisogno di due cose (i) animal spirits (ii) e regole che la permettano. Vardemo (guardiamo, per i non veneti):
(i) Sarò un ottimista, ma secondo me gli animal spirits ci sono: mi spiego: qualcuno c'è che ha voglia di farsi il c**o (si deve far così su nFA?) perché il loro dipartimento o facoltà diventi famoso (magari perché sperano che il dipartimento riceva il loro nome dopo che vanno in pensione o muoiono, e vogliono essere associati a qualcosa di buono). E ci sono anche quelli che pagano (in marchette non fatte) per il privilegio: alcuni sono i nostri amici, altri sono baroni vecchio stile, ma che sanno ascoltare e fidarsi dei nostri amici: un sistema che permette di mandare in cattedra amanti e zii, ha almeno il pregio di permettere anche di mandare in cattedra il capace italiano all'estero che non ha mai fatto favori e nessuno, e che non intende portar l'altrui borse.
(ii) Ma l'italiano capace dall'estero in Italia ci va? Con le regole che ci sono? Un preside di una facoltà di Carpenedo (quartiere di Venezia) che pensa "tizio, a Zelarino, è bravo, lo assumo", cosa può promettergli? Anche il trasloco deve pagarsi da solo quello da Zelarino (altro quartiere), altro che aumento di stipendio, o carico didattico ridotto. Le regole in Italia sono allucinati, e diventano sempre peggio: ero di recente a un convegno dove il vice-ministro Modica si dichiarò favorevole, favorevolissimo, ultra-favorevole all'autonomia universitaria, ma su una cosa non era disposto a compromessi. Il 3+2, declamò, deve rimanere un pilastro del sistema. M**chia che pilastri! Ma se l'università di Favaro (ennesimo quartiere di Venezia) decide che, per fornire un'offerta migliore ai suoi studenti, si specializza in corsi di base? No, il buon ministro dice no. Ma perché, ma perché? Suppongo perché sennò i favarotti non possono specializzarsi: ma paghiamogli il biglietto del 4 sbarrato (autobus che parte da Favaro e va "in centro"), che possano andare all'università in Piazza Barche (il "centro"), no? No. Modica dice no. Boh?
Le regole, ricordiamoci, le fa il ministero, e son d'accordissimo con Michele, qui, che bisognerebbe licenziare tutti gli impiegati del ministero: le loro preferenze rivelate non sono quelle di migliorare l'università italiana. Devo dare almeno un esempio, perché è bellissimo: insieme ad altri celebri colleghi fui studente del primo ciclo di dottorati (economics in Siena): un bel giorno il coordinatore chiese al ministero a chi spettava rimborsare le spese di viaggio ai docenti che venivano da fuori Siena (Pisa, Firenze, Roma) per farci lezione (gratis): se alla loro sede, consorziata con Siena, o se a Siena stessa. La risposta dal ministero giunse immediata e durissima: "Il pagamento di rimborso spese per docenza al dottorato è vietato, si configura come abuso d'ufficio, e sarà perseguito penalmente se attuato". Thank you very much for your help.
(4) Non sono, giuro, ideologicamente a favore della privatizzazione. Al contrario: ho scritto un articolo divulgativo intitolato "In praise of public firms". Quella che considero la miglior istituzione in the UK, e una fra le migliori del mondo, la BBC, è pubblica, e pubblica deve restare, in my view (e in quella di quasi tutti qui). Funziona bene perché: ha una bella competizione, ha regole sensate, logiche, mica come i pilastri di Modica, è ferocemente indipendente dal governo (e ha la capacità di rendere tali anche i Tony's cronies che Blair piazza lì). Si evolve, è un world leader, chiedetelo a chi volete. E, come Berkeley, è pubblica.
(5) In italia, però la situazione è così marcia che cambiare le regole, ma lasciare chi le fa al loro posto non ha funzionato, non funziona, e non funzionerà, con tutta la buona volontà dei ministri (?). Partiamo da un fatto: metà del personale universitario va licenziato (e questa e' una stima generosa, per i licenziandi). Chi glielo dice? Un ministro che ha elezioni fra due anni? Oppure fa prima Larry Summers? Un altro fatto: le università sorte come funghi negli ultimi dieci anni vanno tutte chiuse e gli stabili venduti al Club Mediterranee. Chi lo fa? Il governatore della regione? Mmmmm. http://www.noisefromamerika.org/index.php/articoli/331
Michele Boldrin, e Nicola Rossi & Gianni Toniolo (era qui, ma non c'è più) propongono fondazioni indipendenti, (Checchi e Jappelli propongono qualcosa di simile, ma meno estremo), ma la mia proposta è essenzialmente identica alla loro. Se ho ben capito, le università-fondazioni sarebbero solo formalmente pubbliche, visto che si comporterebbero esattamente come i privati. Fatto 30, io farei anche 31, privatizzandole anche formalemte, per due motivi: primo si tirano su un po' di soldi, secondo si rende più difficile a un futuro governo di riprendersi il controllo del sistema universitario. Un'altra obiezione alle fondazioni: chi li nomina, i loro consigli? Il ministro? Gli enti locali? La camera di commercio e la coldiretti? Il rotary club, il vescovo? E quando la fondazione che gestisce l'università della Gazzera (ennesimo quartiere di gioventu') si trova senza soldi, siamo sicuri che il governo, la regione, il comune dicano "too bad" e la facciano davvero andare in mona (espressione veneziana che addolcisce il concetto di "ramengo", o "fallimento" se proprio volete essere brutali)?
(6) Vengo alle "omissioni concettuali fondamentali" che Lacetera e Lissoni individuano nel mio articolo sulla voce. Michele sintetizza così il loro argomento, "siccome ci sono asimmetrie informative, l'università deve essere pubblica". Michele dice no: perché ci sono asimmetrie informative nell'offerta di prodotti agricoli, e nessuno si sogna di nazionalizzare le carote. D'accordissimo, e aggiungo: le asimmetrie informative in ricerca e istruzione sono moderate. In breve:
(i) Ricerca: ogni giorno gli appointment e i tenure panels decidono chi fa ricerca bene e chi no, e nel complesso ci azzeccano. Sì ci sono esempi di Tizio preferito a Caio, o di Sempronio cui Marghera (indovinate, cosa potra' essere?) ha negato la tenure, ma sono le eccezioni che confermano la regola. Le eccezioni sono molto rare, confermando che il meccanismo di review e tenure in un sistema concorrenziale funziona molto bene. Le assimetrie informative qui proprio non ci sono.
(ii) Didattica (1): le mamme italiane sanno in quali scuole elementari le maestre ci sono dall'inizio, tengono la disciplina, seguono i programmi, e insegnano; sanno anche in quali licei si fa Dante per bene e in quali si leggono, in gruppo, testi "alternativi". Invece, secondo Lacetera e Lissoni, per le università vi è l'oscurità più totale. Sicuri? In inghilterra si sa che le università dove si insegna bene sono Oxbridge, Durham, Bristol, etc: in italia invece nessuno sa niente. Come mai quest'ignoranza? E perché i calabresi, i pugliesi, e i siciliani che possono mandano i loro rampolli a Pisa, Padova, Milano? E le classifiche di Repubblica? Secondo Lacetera e Lissoni le univeristà al top della lista di La Repubblica sono quelle che vendono o regalano esami e lauree? Esistono associazioni che certificano e classificano le carote boldriniane: se le carote che comprate in negozio hanno il bollino dell'associazione AIAB, allora sono "biologiche" (organic). Si fida la gente? Sì. Fa bene a fidarsi? Sì, perché l'associazione ha una funzione obiettivo tale che non ha incentivo a riportare il falso. Ci sono errori? Sì certo, ma stiamo confrontando il possibile, non l'ideale. L'associazione consumatori prova e raccomanda gli aspirapolveri. Potrà sicuramente farlo anche per i corsi universitari (o magari nFA fa il suo bollino di qualità).
Didattica (2): l'istruzione universitaria NON È, RIPETO, NON È un bene pubblico: è un bene privato, il consumo è rivale ed escludibile. C'è una piccola piccola esternalità ma va cercata con il lumicino, e io lo so, perché molti dei miei paper hanno bisogno di un'esternalità nell'istruzione universitaria, e uno standard cheap shot che ricevo dai referees è che l'esternalità non esiste. Grazie a Moretti (J Ectrics 2004, 121, p. 175), posso dire che qualcosina c'è, ma proprio qualcosina. Questo mi aiuta un po' a parare il colpo basso del referee ma non ci farei sopra la politica universitaria, anche perche' non implica nient'altro che questo: occorre sussidiare un poco l'istruzione universitaria. Invece, c'è evidenza molto meno ambigua per quanto riguarda l'istruzione primaria e secondaria, Heckman, il paper di Acemoglu and Angrist citato da Nicola, fra gli altri. L'esternalità giustifica intervento pubblico, che però non implica FORNITURA pubblica. Può essere un sussidio, o altre forme: c'è una bella esternalità nella capacità di guidare le automobili, e l'intervento pubblico ha la forma di standard obbligatori ed esami per la patente, non nazionalizzazione delle autoscuole. Un altro esempio: le strade sono beni pubblici, e le costruiscono i privati pagati dallo stato. Finanziamento e fornitura non sono necessariamente legati. Nell'utilizzo dell'istruzione universitaria sul mercato del lavoro, e nello sforzo che gli agenti ripongono in questo, ci sono asimmetrie informative fondamentali e problemi di rischio morale che impediscono il finanziamento privato dell'istruzione usando il capitale umano futuro come garanzia (in parole povere: la schiavitu' non e' una bella cosa). Quindi, personalmente, sono totalmente a favore di un sistema di prestiti pubblici (students loans), per risolvere questa incapacita' del mercato di finanziare completamente l'istruzione, oltre al sussidio che internalizzi l'esternalità e svolga una funzione redistributiva. Su questo ho anche scritto, "The Design of Optimal Education Policies", The Review of Economic Studies, 69, 2002, pp 437-466.
Sul calcoletto di Lacetera con numero ottimale di research universities in Italia pari a 14,2 se dobbiamo prendere come metro di paragone gli USA: nello UK il Russell Group di universita' di ricerca che si divide la maggior parte della torta delle aste di ricerca dei Research Councils e' formato da esattamente 20 universita', e funziona piuttosto bene nel mercato concorrenziale globale. Non e' un numero troppo basso per portare benefici, anzi. Per un paese come l'Italia, 15-20 universita' di ricerca mi
sembra una stima e un obiettivo ragionevole e fattibile, gia' adesso
nei fatti solo una dozzina di universita' ha un impact factor che non sia trascurabile.