Il processo potete riascoltarlo integralmente qui. Oppure potete continuare a leggere.
L'imputata, la meritocrazia cioè, si era seduta al suo banco immaginario con un'aura di retorica truffatrice. Non perché alcuno pensi che si debba premiare chi non merita, naturalmente. Piuttosto per la presunzione che "meritocrazia" sia un trucco retorico per giustificare le posizioni acquisite e le disuguaglianze tra individui che ne derivano. ll presidente della giuria, Massimo Adinolfi, si è chiesto come si forma il merito:
Se il merito si forma socialmente non si capisce perché debba essere premiato individualmente. Se invece deriva da un talento individuale innato non si capisce quale merito ci sarebbe nel possederlo.
Questa è anche la sostanza dell'intervento di Lorenzo Sacconi, al quale è stata affidata l'accusa e che ha ben illustrato questa posizione dal punto di vista della filosofia liberal di John Rawls. Nel mio intervento ho cercato di spiegare perché è una buona idea premiare il merito comunque questo si formi, purché si riesca ad osservare il risultato ottenuto da un individuo o da un gruppo di individui.
Iniziamo a definire di cosa stiamo parlando. Per me la meritocrazia ha due facce. Primo, si tratta di una regola organizzativa: le responsabilità vanno distribuite secondo abilità e talento. Secondo, si tratta di una regola distributiva: il reddito va distribuito secondo l'abilità, il talento, e l'impegno che l'hanno prodotto (qui e in quello che segue uso implicitamente una delle identità fondamentali della contabilità nazionale: il reddito è identicamente uguale al prodotto). Naturalmente si tratta di facce della stessa medaglia: se in un sistema meritocratico uno ha abilità e talento per accedere alle posizioni di maggiore responsabilità nell'organizzazione sociale ed economica di una comunità, normalmente avrà anche un reddito maggiore.
Abilità, talento e impegno sono inosservabili. Quello che noi osserviamo, di solito, è solo l'interazione tra queste e altre cose, ossia il risultato ottenuto da un individuo. Immaginiamo, per semplicità, che quella che chiamo abilità sia innata, e che il risultato si determini così:
risultato = abililità x impegno x altro,
dove "altro" contiene misure di cose come l'istruzione ricevuta, la salute, i contatti sociali, il background familiare, eccetera. Quindi, ad esempio, se sei molto abile ma ti impegni poco ottieni un risultato basso. E se sei molto poco abile oppure provieni da una famiglia o un ambiente sociale svantaggiato e discriminato, otterrai un risultato basso anche se ti impegni molto.
Non potendo osservare, in particolare, abilità e impegno separatamente (gli econometrici chiamano questo un "problema di identificazione") meritocrazia vuol dire che uno è premiato il base al risultato. Prima di chiederci se questo è giusto, chiediamoci se ha una ratio economica. La ratio è semplice: mentra abilità e "altro" sono in gran parte date (e possono dipendere in buona parte dalla fortuna), l'impegno è qualcosa che un individuo sceglie e dipende da quanta parte del risultato l'individuo può tenere per sé. Se sai che verrai espropriato dei frutti del tuo impegno, perché impegnarsi? D'altra parte se sai che hai un diritto di proprietà pieno sui frutti del tuo impegno allora ti impegnerai molto. Chiaro, no?
Quello che ho descritto è un semplice sistema di incentivi: la meritocrazia (premiare il risultato) è l'incentivo a impegnarsi, facendo così funzionare abilità e talenti innati. In questo semplice mondo che ho descritto il reddito aggregato (la somma dei risultati determinati come sopra) è massimo quando vige la meritocrazia.
Questo primo aspetto del problema riguarda, quindi, l'efficienza. Una volta che sappiamo come raggiungere l'efficienza possiamo porre la questione della giustizia, cioè chiederci se quello che ne deriva è giusto oppure no. Dico "possiamo" perché per qualcuno la domanda non si pone neppure: o non la trova interessante (ad esempio perché la trova adatta a pura speculazione filosofica e inadatta a organizzare la società), o la trova vuota. Io la trovo interessante quantomeno per curiosità intellettuale, per cui procedo.
Meritocrazia implica, ovviamente, disuguaglianza. Molti considerano la meritocrazia ingiusta solo per questo. È una posizione legittima (meglio uguali a Pyongyang che disuguali a Roma, Londra, o New York, dice essenzialmente questa posizione) ma che tolgo subito di mezzo se no non c'è più nulla di cui discutere. Condannare la meritocrazia perché ci rende disuguali è come condannare la democrazia perché c'è una minoranza che perde.
Partiamo allora da due casi polari, che aiutano a fissare le idee.
Caso 1: solo impegno. Immaginate che il risultato dipenda solo dall'impegno:
risultato = impegno
In questo caso tutti (credo io) giudichiamo la meritocrazia giusta. Poiché basta impegnarsi per ottenere un buon risultato (e assumendo che l'impegno sia ugualmente esercitabile da tutti) nessuno ha scuse: se hai prodotto poco è perché ti sei impegnato poco. In questo caso, che rappresenta la chimera delle uguali posizioni di partenza, la regola "chi non lavora non mangia" suona sacrosanta.
Caso 2: solo fortuna. Immaginate ora che il risultato dipenda solo dall'abilità, che abbiamo ipotizzato innata e quindi prodotto di una "lotteria della natura", come la chiamava Rawls:
risultato = abilità
In questo caso la meritocrazia produce un risultato che potremmo percepire come ingiusto: se tutti sanno che una certa distribuzione del reddito è prodotta dal puro caso, da una lotteria in cui a ciascuno è distribuito gratuitamente un biglietto, quelli che perdono non ci stanno e giudicheranno il risultato ingiusto. Anche i vincenti intellettualmente onesti riconosceranno, probabilmente, di non aver meritato alcunché.
La verità sta in mezzo a questi due casi: il risultato è determinato da una combinazione di abilità innate, impegno, e le "altre cose" descritte sopra. [Apro una parentesi. L'effetto di queste "altre cose" è mitigato in molte società orientate al welfare: sanità pubblica, istruzione pubblica, e leggi anti-discriminazione, per citare solo tre esempi, sono istituzioni che servono a ridurre il legame tra disparità alla nascita e disparità dei risultati individuali. Ne deriva che le società orientate al welfare dovrebbero essere, condizionatamente all'esistenza di queste istituzioni, più propense a considerare la meritocrazia giusta. Non mi pare sia così e mi sto chiedendo ancora perché. Chiusa la parentesi.]
In questo caso è molto più difficile giudicare cosa è giusto e sorgono due domande:
- Come decidiamo se una distribuzione meritocratica è giusta?
- Cosa facciamo se decidiamo che non lo è, sapendo che se espropriamo gli individui del loro prodotto avremo meno prodotto perché distorciamo l'impegno?
Un criterio è quello che ha descritto Aldo nel suo post e al quale rimando per i dettagli: il velo di ignoranza. Riprendo il caso descritto di Aldo: ci sono due persone al mondo, tu e un'altra; quale distribuzione del reddito preferisci non sapendo cosa ti toccherà in sorte? Ad esempio:
(2,8) oppure (5,5)?
In questo caso tutti o quasi scegliamo (5,5) perché siamo tutti o quasi avversi al rischio: in questo caso non ci piace l'idea di finire con 2 quando possiamo ottenere 5 con certezza. Se la distribuzione (2,8) riflette differenze di abilità, impegno e il resto, stiamo dicendo che con questi payoffs non ci piace, dietro il velo, un sistema meritocratico.
Bene, che si fa allora in un mondo dove la distribuzione è (2,8)? Se utilizziamo questo criterio dovremmo redistribuire per arrivare a (5,5): togliere 3 al secondo e darlo al primo. Chi ha 8 non lo farà mai volontariamente (per questo per molti il velo è uno strumento inutile: una volta che hai eseguito l'esperimento mentale e hai sollevato il velo non c'è modo di convincere gli individui a implementare il risultato) quindi ci vuole qualcuno da fuori (chiamiamolo lo stato) che tassa e redistribuisce. Questo ha due effetti. Primo, disincentiva l'impegno di chi otterrebbe 8, perché questo viene espropriato di 3. Secondo, lo stato costa e assorbe risorse che non vengono redistribuite. Prende una commissione, insomma. Immaginiamo che questi due effetti rendano la scelta vera la seguente:
(2,8) oppure (3,3)?
Cioé la distorsione degli incentivi e il costo dello stato fanno perdere 4 unità di prodotto. Cosa scegliete in questo caso? Quelli che "meglio uguali a Pyongyang che disuguali a Roma, Londra, o New York" di cui sopra continuano a scegliere la distribuzione egualitaria, (3,3). La maggioranza (credo io) sceglie invece (2,8) riconoscendo che un sistema meritocratico potrebbere essere ingiusto (cosa che non possiamo stabilire con sufficiente grado di fiducia finché osserviamo solo il risultato e non l'abilità, l'impegno, e il resto al netto di tutto ciò che determina le disparità di quest'ultimo) ma è preferibile a un sistema egualitario che riduce eccessivamente il reddito aggregato.
Ho chiesto quindi di assolvere la meritocrazia sulla base di una possibilità e di un fatto. La possibilità è quella che ho appena descritto: che se non ti piace (2,8) l'alternativa potrebbe essere (3,3). Il fatto è che la meritocrazia favorisce la mobilità sociale. Se qualcuno, a questa affermazione, è saltato sulla sedia si rimetta comodo. La prova è semplicissima. Immaginate un sistema non meritocratico: non si distribuisce in base al risultato ma in base, ad esempio, al background familiare. Allora i figli dei medici diventano medici anche se sono degli asini, i figli degli avvocati diventano avvocati anche se non capiscono niente di diritto, e i figli dei professori diventano professori anche se sono analfabeti. Ora introduciamo un po' di merito. Allora lo studioso figlio del contadino batterà il figlio asino del medico all'esame di ammissione e si iscriverà lui a medicina. Il brillante figlio del pescatore avrà pubblicato più dell'analfabeta figlio del professore e vincerà lui la borsa di studio e poi il concorso. Eccetera. Fine della dimostrazione: la meritocrazia, se la si fa funzionare, crea mobilità sociale.
Com'è finito il processo? A cena c'ho scherzato con Massimo Adinolfi, che se non se l'è avuta a male lì non se ne avrà a male adesso (spero) :-).
Lui voleva prima proporre una sentenza salomonica (assoluzione per insufficienza di prove), poi forse non volendo contribuire all'immobilismo del PD ha optato per una
condanna dell'uso ideologico e interessato del concetto di merito.
Aggiungendo:
A voi il giudizio finale, magari con un applauso.
È seguito un applauso e qui finisce l'audio che potete sentire nella registrazione. Si', perché la registrazione resa disponibile finisce lì ... ma non è finita così. Alla fine di questa approvazione via applausometro un giovanotto sulla ventina si è levato un po' incazzato dalle prime file dicendo più o meno: "Ma che applauso e applauso, oh! Votiamo!". Non si poteva non votare a quel punto e il presidente ha fatto alzare le mani. Contrari. Favorevoli.
Sorpresa, sopresa, l'applausometro della sentenza bulgara non aveva funzionato bene. Infatti nella sala ancora piuttosto gremita quelli che volevano assolvere l'imputata battevano (si poteva giudicare a occhio e infatti non si sono contate le mani) quelli che la volevano condannare in proporzione 2:1 (cioé erano i due terzi) o giù di lì. Al che il presidente chiude la serata, più o meno così:
Vabbé, vince la meritocrazia ma con una significativa fetta di contrari.
Giulio, ho ascoltato il discorso e il dibattito. Sebbene io sia ovviamente dalla parte della difesa, non capisco l'impostazione che hai dato al tuo discorso. Dal tuo discorso si evince che il trade off è tra impegno e prospective abilities, in pratica Gattuso contro Cassano.
Io penso che meritocrazia significhi far vincere chi mette sia impegno sia abilità (consentitemi, Miccoli...) su due tipi di persone:
- Il buono a nulla figlio del potente (ricordate il figlio di Gheddafi nel Perugia?)
- Il furbetto che vince eludendo le regole del gioco (ahimè, chi se la scorda la mano di Maradona?)...
No, non e' questo. L'impostazione e' quella che dici tu. Meritocrazia e' premiare il risultato, che dipende (nella rappresentazione semplificata e in quella con welfare che ho descritto nella [parentesi]) da impegno e abilita'. Chiaro quindi che vince chi mette sia impegno sia abilita', come dici tu: le due cose sono complementari.
Questo e' efficiente. La domanda successiva, per chi e' interessato, e' se e' giusto secondo qualche criterio.
Anche se giudicassimo che non lo e', imporre la giustizia potrebbe essere non solo impossibile politicamente ma anche non conveniente economicamente.
Chi poi ama la giustizia piu' di ogni altra cosa e vuole realizzarla puo' farlo (tutto il mondo del volontariato e' esattamente redistribuzione egualitaria), qui ci stiamo chiedendo se devono farlo i governi.