Per quel che ho capito il libro
di Alesina e Giavazzi è un tentativo di influenzare il dibattito politico
italiano corrente e le politiche effettivamente attuate dal governo italiano in
carica. Credo vada valutato come tale, senza richiedergli cose che non
promette. In particolare, il libro non è un trattato filosofico ad ampio raggio
o un tentativo di ridefinire alla radice cosa sono la sinistra e il
liberalismo.
Il dibattito che ne è seguito, anche su questo sito, ha però spesso 'sforato', toccando temi
più fondamentali. È su questo aspetto del dibattito (che ha poco a che fare con
il libro di Alesina e Giavazzi) che mi voglio concentrare. Nello specifico,
questo post è strettamente di speculazione teorica e filosofica; non venite qui
a cercare argomenti per la battaglia politica quotidiana a favore o contro la
tesi che 'il liberismo è di sinistra'. Voglio solo correggere alcune
affermazioni fatte un po' alla leggera, ricordando alcuni risultati che sono
apparsi nella teoria delle scelte sociali nell'ultimo mezzo
secolo.
Premessa: i filosofi, i
politici e i gatti di Deng Xiao Ping. C'è una certa differenza tra il modo in cui come scienziati sociali
valutiamo il significato stesso dei termini 'sinistra' e 'destra' e il modo in
cui tali termini vengono percepiti nel dibattito politico quotidiano, in
particolare da chi fa politica in modo attivo. Gli economisti aderiscono quasi
senza eccezione, esplicitamente o (molto più spesso) implicitamente, a una
visione morale consequenzialista. Rimando a questo link per una spiegazione del consequenzialismo migliore di quella che posso
dare io. Ma se devo riassumere in forma brutale, facendo inorridire gli amici
filosofi che ci leggono, direi che il consequenzialismo afferma che la
desiderabilità delle decisioni che prendiamo va valutata unicamente guardando
alle conseguenze che tali azioni producono, e non all'azione in quanto tale.
Quindi, per esempio, può essere perfettamente giusto mentire se dire la verità
può causare morte e distruzione. La parabola dei gatti di diverso colore di
Deng Xiao Ping descrive alla perfezione questo punto di vista.
In politica economica questo
significa che la bontà di un provvedimento può essere giudicata solo guardando
ai suoi effetti su variabili come la crescita, la distribuzione del reddito o
quant'altro venga ritenuto rilevante. Per un consequenzialista 'essere di
sinistra/destra' può solo significare avere differenti preferenze riguardanti
il risultato finale delle politiche pubbliche. Per esempio, se per comodità di
esposizione diciamo che essere di sinistra significa essere rawlsiano allora una politica è buona se aumenta il
benessere di quelli che stanno peggio ed è cattiva altrimenti. Chiedersi se il
liberismo (o la proprietà pubblica delle imprese, o qualunque altra politica) è
di destra o di sinistra semplicemente non ha senso, è un po' come chiedersi se
un orologio o una bottiglia sono di destra o di sinistra. 'Di sinistra' possono
essere solo le conseguenze, non gli strumenti con i quali tali conseguenze sono
ottenute. Una persona di sinistra (più precisamente, un rawlsiano) adotterà
politiche liberiste se queste aumentano il benessere dei più svantaggiati e non
le adotterà altrimenti. Il colore del gatto è totalmente irrilevante rispetto
alle conseguenze che lo sguinzagliamento del gatto permette di ottenere.
Il punto di vista
consequenzialista, per quanto popolare tra gli economisti, non è universalmente
accettato. Per esempio ci sono persone che ritengono moralmente ripugnante il
fatto che la gente lavori e operi unicamente per trarre un tornaconto materiale
dalle proprie azioni, e ritengono quindi la proprietà pubblica intrinsecamente
superiore dal punto di vista morale. Anche se raramente esplicitato in forma
così netta, tale modo di ragionare pervade non solo vasti settori della
sinistra politica o della destra corporativa ma si può rintracciare, per
esempio, nei rantoli di Tremonti sul 'ritorno ... a una visione della vita meno
materiale e più spirituale'. Dall'altro lato, molto spesso gli aderenti alla
destra libertaria (o al libertarismo senza addizionali qualificazioni)
ritengono che l'autonomia individuale e la libertà dalle costrizioni della
collettività siano valori in sé, da difendere indipendentemente dalle
conseguenze che essi generano. Questo punto di vista è anch'esso incompatibile
con una visione strettamente consequenzialista (tornerò su questo tema alla
fine del post).
È presumibilmente alla gente che
ragiona in questo modo che Alesina e Giavazzi cercano di rivolgersi. Come
economisti mainstream, essi sono consequenzialisti. Sanno però che nella
sinistra politica italiana molte persone non lo sono, e badano più agli
strumenti che ai risultati. Si sono quindi buttati nell'impresa di convincere
costoro che i mezzi contano meno dei fini.
Per completare la discussione di
questo punto, credo sia opportuno notare che ben poco di quanto detto sopra ha
molta rilevanza pratica dal punto di vista delle scelte politiche effettive dei
vari gruppi sociali. Alla fine della fiera la gente si schiera in base ai
propri interessi, più che in base a qualche astratto ideale di giustiza. Se i
termini 'destra' e 'sinistra' vengono usati per indicare le coalizioni
socio-politiche che si cristallizzano in un dato paese, tali termini possono
rapidamente perdere gran parte della relazione con l'originario significato
filosofico del termine. Per cui, ad esempio, è possibile vedere forze politiche
di destra difendere a spada tratta sistemi di licenze e concessioni che sono
l'esatto opposto del liberismo. Oppure forze politiche di sinistra che
difendono un sistema di finanziamento dell'università che è nei fatti assai regressivo.
Ma di questo preferirei non parlare in questo post, che vorrei invece riservare
unicamente a questioni teoriche.
Nel resto del post assumerò un punto di vista consequenzialista e cercherò di
chiarire alcuni punti che a mio avviso sono risultati un po' confusi nel
dibattito. Per essere precisi assumerò che essere di sinistra significa avere
preferenze sociali rawlsiane nella versione popolarizzata dai teorici economici
(e non presente, per quel che mi è dato ricordare, in A Theory of Justice), ossia W=min{U_1,...,U_n} (vuol dire solo
che l'unica cosa che conta è l'utilità del più povero). Per favore, non
obiettate che tali preferenze sono irrealistiche; è cosa nota, servono solo per
semplificare l'esposizione e rendere il discorso più trasparente. Tutti gli
argomenti che seguono possono essere adattati a funzioni più generali che
abbiano la proprietà di assegnare all'utilità di chi sta peggio un peso
maggiore di quello assegnato all'utilità di chi sta meglio.
Rawls, la sinistra e la disuguaglianza. Restiamo quindi nel regno della
filosofia e proviamo a rispondere alla seguente domanda: come dovrebbe
giudicare una persona di sinistra (nel senso di rawlsiano) una politica che
favorisce l'aumento della disuguaglianza? Molti danno per scontato che tale
politica non può essere di sinistra; per esempio Asoni e Mele su Epistemes hanno usato esattamente questo
argomento per sostenere che il liberismo non può essere di sinistra in quanto
genera un aumento della disuguaglianza sociale. Ma non è affatto ovvio che le
cose stiano così. Il test fondamentale non è se una politica aumenta la disuguaglianza,
ma se una politica aumenta il benessere degli ultimi. L'appropriato correlato
empirico da guardare per stabilire se una politica è di sinistra è quindi il
valore assoluto del reddito, che so, dell'ultimo percentile. Il coefficiente di
Gini può andar su quanto gli pare; se a quelli che sono alla coda sinistra
della distribuzione arrivano più soldi, allora la politica è di sinistra.
Un semplice esempio dovrebbe
chiarire il concetto. Supponiamo che in una società vi siano 100 contadini. La
distribuzione iniziale della proprietà è perfettamente egalitaria: ognuno ha un
pezzo di terra identico e ne ricava 10 euro l'anno; il PIL di questa
mini-economia è quindi 1000 euro. Sarebbe possibile raddoppiare la produttività
dei terreni mediante bonifiche e costruzione di canali per l'irrigazione, ma
finché la proprietà resta dispersa tali opere non vengono attuate (per i
fanatici del teorema di Coase: supponete che non esista un adeguato sistema
legale e che i costi di transazione di raggiungere un accordo siano molto
alti). A questo punto un contadino particolarmente intraprendente trova
finanziamenti da una banca d'investimento e propone agli altri contadini di
vendere a lui la terra e farsi assumere come braccianti per 11 euro l'anno.
Essendo agenti razionali gli altri contadini accettano. Dopo le opere di
irrigazione e bonifica il PIL è salito a 2000 euro. Ci sono 99 braccianti che
guadagnano 11 euro ciascuno, per un totale di 1089 euro. Il rimanente
contadino, quello intraprendente, è diventato un ricco signorotto e si becca
invece 2000-1089=911 euro. Se sei persona di sinistra, come devi giudicare tale
cambiamento? La società è molto più diseguale, ma per un rawlsiano questo non è
un problema. Gli ultimi hanno migliorato la loro posizione, guadagnano 11 euro invece
di 10, e questo è tutto ciò che conta.
Come esempio più pratico, si
pensi a una proposta di liberalizzazione del mercato del lavoro. Dovrebbe
essere una tale misura favorita da una persona di sinistra? La risposta è 'no'
se la liberalizzazione non crea nuova occupazione e riduce il salario dei
peggio pagati, ma è invece 'si' se la liberalizzazione favorisce una espansione
dell'occupazione, permettendo ai disoccupati di trovare lavoro e quindi
facendone aumentare il benessere. In particolare, anche se la liberalizzazione
induce una maggiore dispersione dei livelli salariali e quindi un aumento della
disuguaglianza, essa dovrebbe comunque essere sostenuta da una persona di
sinistra se permette un aumento del reddito di chi è attualmente disoccupato.
Essere egualitarista è
equivalente ad essere rawlsiano in un importante caso particolare, ossia quando
la quantità di risorse presenti nella società è fissa e non dipende dalle
decisioni sociali intraprese. In tal caso è ovvio che la massimizzazione del
benessere degli ultimi si ottiene distribuendo in modo egualitario le risorse.
Ma se la decisione di distribuire ugualmente le risorse fa sì che la quantità
totale di risorse decresca, ad esempio perché riduce gli incentivi al lavoro,
allora non è affatto ovvio che un rawlsiano debba essere a favore
dell'egualitarismo.
Disuguaglianza statica e dinamica. Ma assumiamo pure che la persona di
sinistra si debba preoccupare della disuguaglianza in quanto tale. È giusto
considerare misure statiche di dispersione del reddito per valutare la
disuguaglianza presente in una società? Anche questo non è ovvio.
Un minimo di buon senso
suggerisce che l'unico modo sensato di valutare il benessere degli individui è
quello di guardare all'utilità attesa lungo l'arco della vita. Consideriamo il
seguente esempio. Compariamo una società in cui esiste un solo tipo di lavoro,
il cameriere, che paga 10 euro l'anno. La gente vive due anni e l'utilità
sull'arco della vita è data dalla somma dei redditi nei due periodi, quindi 20
euro (al solito, tutte ipotesi che servono solo per semplificare e di cui si
può fare a meno). In tale società viene introdotto un nuovo mestiere, il
professore di economia. Per esercitare tale mestiere occorre passare il primo
anno facendo lo studente di dottorato, guadagnando zero. Nel secondo periodo
arriva l'agognata cattedra e il salario sale a 20 euro; una frazione della
popolazione decide di intraprendere questa carriera. Come devono reagire un
rawlsiano o un egualitarista a questo cambiamento? La risposta è che entrambi
dovrebbero essere indifferenti. Se guardiamo all'utilità sull'arco della vita,
questa resta immutata e uguale per tutti a 20 euro. Non esiste diguaglianza né
prima né dopo l'introduzione della nuova opportunità di lavoro. Ma cosa succede
se adesso calcoliamo il coefficiente di Gini separatamente nei due periodi?
Quando si può solo fare il cameriere l'indice è zero. Dopo l'apparizione di
studenti e professori invece l'indice è strettamente positivo nei due periodi.
Un osservatore esterno che guarda tale indice conclude quindi che la comparsa
dei professori coincide con un aumento della disuguaglianza. Sappiamo invece
che non è così.
Qual è il problema? Il problema è
che l'indice di Gini è un valore interessante solo quando la società è stazionaria
e manca la mobilità sociale. Se invece un aumento della disuguaglianza nel
periodo corrente si accompagna a un aumento delle opportunità di mobilità verso
l'alto, soprattutto per le classi più basse, allora tanto un rawlsiano come un
egalitarista non dovrebbero preoccuparsi. Queste considerazioni suggeriscono
che una persona di sinistra dovrebbe preoccuparsi più di allargare le
opportunità per gli ultimi che di redistribuire le risorse esistenti. Il
correlato empirico più importante che bisognerebbe guardare è la probabilità
che un membro dell'ultimo decile della distribuzione possa muoversi nei decili
superiori. Il livello di diseguaglianza corrente è invece di importanza
secondaria.
Pareto efficienza e libertà personale. Quando si parla di liberalismo o
liberismo si ha spesso in mente la definizione di un insieme di decisioni in
cui l'individuo ha piena sovranità, relativa per esempio all'uso dei beni di
cui si è acquisita la proprietà. La società non può e non deve violare tale
sfera, a pena di essere tacciata di illiberale.
Fin qui, tutto bene. Occorre però
essere coscienti che l'istituzione di sfere decisionali private ha conseguenze
importanti sull'insieme delle decisioni sociali che possono essere intraprese,
e come tale non è interamente compatibile con il consequenzialismo. Nella
discussione svolta su questo sito si è dato per scontato che il liberalismo sia
sempre compatibile con l'efficienza Paretiana. Sappiamo invece dal lavoro di
Amartya Sen (Journal of Political Economy, febbraio 1970) sull'impossibilità del liberale Paretiano che non è così. Questo tipo di paradosso
tende ad apparire quando esiste interdipendenza tra le decisioni degli agenti,
ossia quando l'utilità di un agente dipende direttamente o indirettamente dalle
decisioni di altri. Ci sono vari esempi, e voglio concludere questo post proponendone uno
io. Consideriamo una società in cui si possono consumare solo tre beni:
tagliatelle al ragù, pasta al pomodoro e cure mediche. Tutti preferiscono le
tagliatelle al ragù alla pasta al pomodoro, ma tale delizioso cibo ha la
sfortunata conseguenza di far aumentare il colesterolo, richiedendo quindi
costose cure mediche. Ovviamente tutti preferiscono essere sani che
essere malati.
Imponiamo su tale società la
regola liberale secondo cui ciascuno ha diritto di scegliere liberamente cosa
mangiare senza essere visto dagli altri (che sembra essere un requisito
abbastanza debole). Qual è l'equilibrio in tale società? Tutti mangiano le
tagliatelle al ragù e l'assicurazione medica costa parecchio perché il livello
medio di colesterolo è alto. Non è possibile ottenere un'assicurazione medica a
prezzo più basso promettendo di mangiare pasta al pomodoro, perché il principio
liberale impedisce di ficcare il naso nelle scelte alimentari individuali.
Ma supponiamo ora che il
principio liberale venga violato e che la società bandisca le tagliatelle al
ragù. Qual è il nuovo equilibrio? Il punto cruciale è che ora la gente è
costretta a mangiare pasta al pomodoro e quindi il costo medio
dell'assicurazione scende. Per opportuni valori dei parametri, il calo di
prezzo dell'assicurazione più che compensa la perdita di utilità che di soffre
passando dalle tagliatelle al ragù alla pasta al pomodoro. Quindi, un
miglioramento paretiano viene raggiunto solo grazie alla violazione del
principio liberale.
Quanto è rilevante il risultato?
Questa è ancora un'area attiva di ricerca (si veda per esempio qui). Forse in pratica è rilevante, forse no; almeno a giudicare dall'ardore
forsennato con cui tante politiche proibizioniste vengono perseguite (non per
le tagliatelle al ragù, per fortuna), un buon numero di persone sembra essere
convinta della rilevanza pratica del paradosso. Ma, alla fine, qui della
rilevanza pratica ci importa poco. Il punto teorico fondamentale resta, e
questa è l'unica cosa che interessa in questo post.
Una domanda sul teorema di impossibilità del liberale paretiano. Il teorema afferma (roughly speaking) che non è possibile avere politiche liberali e Pareto-efficienza. Dai miei pochi studi microeconomici, ricordo che la Pareto-efficienza e l'equità sono però due cose diverse: un'allocazione efficiente può essere iniqua, e un'allocazione equa può non essere efficiente.
Possiamo allora trarre la conclusione che esiste in teoria un'allocazione "liberale" ed equa, ma non efficiente?
Se questa allocazione fosse possibile, allora sì che il liberismo sarebbe di sinistra.
Ettore, il 'liberal paradox' di Sen dice una cosa un po' diversa, che provo a riassumere come segue.
Supponiamo che le preferenze degli individui su un insieme di decisioni sociali siano arbitrarie (il ché in particolare significa che esternalità positive o negative sono possibili).
Allora è impossibile trovare un sistema di preferenze della società che a) soddisfino un requisito minimo di libertà individuale, (la società deve preferire allocazioni in cui gli individui scelgono liberamente su un certo dominio) b) classifichino allocazioni pareto efficienti più in alto di allocazioni che non lo sono
È un risultato in linea con il venerando teorema di impossibilità di Arrow, nel senso che mostra come l'imposizione di una serie di requisiti apparentemente tutti desiderabili porta a contraddizioni logiche al momento di formulare un sistema coerente di preferenze collettive. Il paradosso è ovviamente molto importante in filosofia e scienza politica. Lo è un po' meno in economia, dove spesso si assume che il consumo privato non genera esternalità.
L'equità e la Pareto efficienza sono ovviamente due concetti distinti che nulla hanno a che vedere. Il suggerimento che forse il liberalismo non è incompatibile con l'equità, mentre è incompatibile con la Pareto efficienza, è interessante, ma non ho la minima idea se sia vero. Good topic for a paper, though.
In ogni caso non mi spingerei a dire che questo renderebbe il liberismo di sinistra. Dipende ovviamente da cosa intendiamno per sinistra, ma un rawlsiano non dovrebbe essere contento con un'allocazione equa se c'è ne una efficiente che magari non è equa ma far star meglio l'ultimo.