Una delle rivendicazioni degli indipendentisti si fonda sul fatto che la Catalogna, da lungo tempo la regione più laboriosa ed avanzata di Spagna, sussidia un buon numero di altre regioni. Fra di queste giocano un ruolo politico cruciale Galicia, Castilla-La Mancha y Castilla-Leon (bacini di voto del PP) ed Andalusia ed Estremadura (bacini di voto del PSOE). La Catalogna non è la sola regione che paga molto di più di quanto riceva – le Baleari e la Comunità de Madrid sono anch'esse donatrici nette di risorse al resto del paese – ma di certo è l’unica che lo va facendo da sempre. Nell'ultimo decennio, comunque, la Comunida de Madrid l'ha superata in questa particolare classifica.
I valori in gioco sono sostanziali – in queste pagine il lettore può fare i confronti da solo per gli anni 1995-2009, 2005, 2012, 2013 e 2014 – ma sono andati diminuendo nel tempo e non sono più paragonabili a quelli degli anni ’70-’90 e nemmeno al salasso continuo che affetta, in Italia, la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna (2009-2011 e 2015). La diminuzione è dovuta, in parte, alla crisi economica ma è frutto, soprattutto, della quarantennale pressione politica della Generalitat sul governo centrale. Infatti coloro che, come chi scrive, consideravano lo Statuto del 2006 una buona e probabilmente stabile mediazione fra i due nazionalismi, lo facevano anche perché si fermava a due passi dal formalizzare uno stato completamente federale, introducendo un federalismo fiscale sostanziale che avrebbe soddisfatto le istanze catalane per molto tempo a venire. Ma, come ho spiegato, il PP e Rajoy hanno optato per lo scontro frontale.
Il problema della re-distribuzione territoriale delle risorse è fonte, anche in Italia, di continue tensioni politiche e sociali; come i due referendum in arrivo in Lombardia e Veneto confermano, esso non è mai stato risolto.Svariati commentatori – nella foga della polemica anti-catalanista – hanno sottolineato in questi giorni “l’egoismo” e la “mancanza di solidarietà” dei ricchi che vogliono starsene da soli. La retorica del solidarismo regionale unifica, da sempre in Italia, la sinistra del “tassa e redistribuisci per comprar voti” con la destra del “tassa e sussidia per comprar voti”.
Essa è quindi invincibile: infatti ogni tentativo di equa assegnazione territoriale delle responsabilità di tassazione, spesa e bilancio –attraverso l’adozione di un vero federalismo fiscale – è fallita. Questi fallimenti, sui quali tacciono sia destra che sinistra, non sono stati indolori. Essi hanno comportato la rinuncia a far sì che nelle regioni del Meridione l’elettorato s’assuma la responsabilità del buon governo, l’unico strumento capace di fomentare sviluppo economico organico e non sussidiato da continui e dannosi trasferimenti.
Agli spagnoli è andata leggermente meglio: la redistribuzione inter-regionale, inizialmente a livelli italiani se non peggiori, è andata diminuendo per la forte opposizione dei “nazionalisti” catalani e baschi.Questo, nel tempo, ha stimolato la crecita di quasi tutte le regioni arretrate ed ha mantenuto vivo un processo di convergenza regionale che sta dando anche in questi tempi risultati positivi per il complesso del paese. Se la Spagna cresce di più dell’Italia si deve anche al fatto che la riduzione dei sussidi ha indotto fenomeni di crescita maggiormente diffusi anche se, ma andrei fuori tema, la concentrazione del potere economico in Madrid sta creando nuovi squilibri.
L’Italia e la Spagna non sono gli unici esempi di gravi differenze economiche regionali che inducono, attraverso il crearsi di “coalizioni elettorali dei sussidiati”, politiche fiscali, di spesa ed economiche dannose. Valutazioni simili si applicano a Portogallo, Grecia, Polonia e a quasi tutti i nuovi membri della UE con l’eccezione della Ceco-Slovacchia che ha risolto alla radice la questione con una separazione consensuale. Altri paesi (come la Francia, il Belgio e l’Olanda), grazie a condizioni storiche favorevoli, hanno conseguito uno sviluppo economico meno disomogeneo durante buona parte del XX secolo. Il caso della Germania è quello forse più rilevante, giacché le differenze economiche fra i vari lander erano notevoli nel XIX secolo e, nella seconda parte del XX, sono state drammaticamente aumentate dal regime comunista in quelli dell’Est. Eppure oggi – grazie al proprio sistema politico e fiscale federale e ad una politica di “aiuti all’Est” che ha cercato di evitare il circolo vizioso del sussidio al far nulla – la Germania sperimenta dei livelli di convergenza economica interna invidiabili.
In sostanza: la questione delle differenze economiche e di crescita fra diverse regioni del medesimo paese, e delle distorsioni politiche e fiscali che esse inducono, non è solo spagnola o catalana ma vale, con intensità diverse, per il resto dell’Unione Europea. La risposta di quest’ultima è stata, nei decenni, sostanzialmente debole ed incoerente. Le cosidette “politiche regionali” sono state orientate principalmente all’acquisto del consenso dei paesi meno sviluppati e sono state lasciate, di fatto, ad una gestione nazionale dei processi di spesa e di investimento. Soprattutto, non hanno mai configurato un sistema di “federalismo fiscale europeo” che responsabilizzasse il potere politico delle regioni beneficiarie di trasferimenti nelle decisioni di tassazione e spesa. L’eterna polemica sulle regioni del nostro Meridione – che non riescono a ottenere i finanziamenti per progetti infrastrutturali che potrebbero ricevere e che non riescono a spendere quelli che ricevono o li trasformano in rivoli di sussidi clientelari – ne sono l’esempio a noi più vicino.
Quando si tengono in considerazione questi fatti e si analizza il problema in un prospettiva europea, ci si rende conto che derubricare la questione catalana ad un caso eclatante di “egoismo dei ricchi”, con Lombardia e Veneto a ruota, è solo facile retorica. Il problema è sia reale che diffuso e strutturale. Le politiche, sia nazionali che europee, adottate sino ad ora hanno generato parassitismo, sussidi, alta tassazione e scarsa o nessuna riduzione delle differenze nei livelli di sviluppo economico. E perniciose tensioni politiche come quelle che oggi la Spagna vive.
Invece di retorici ed inutili proclami su una mal concepita solidarietà, che è divenuta un eterno e dannoso sussidio di intere regioni, sarebbe il caso che la crisi catalana spingesse le élite europee a porsi delle domande molto serie su come cambiare, radicalmente e rapidamente, strategia. Ma su questo mi riprometto di ritornare nell’ultimo di questi miei contributi.
Ho dato un'occhiata al primo link, quello con la tabella dal 1995 al 2009, ma non mi pare siano state escluse le poste previdenziali.
Come funziona in Spagna? Hanno casse pensionistiche centralizzate?
L'andaluso che lavora a Barcellona per poi tornare in pensione in Andalusia come viene considerato?
Contribuente in catalogna e ricevente in andalusia. Sono flussi aggregati, non ci sono panels di individui che si possano seguire.