Una scorsa all'articolo 1 della proposta lascia il lettore allibito. Ichino elenca nove (nove!) modalità diverse in cui i lavoratori possono venire coinvolti nell'andamento dell'azienda ed influenzarne le decisioni. Si va dalle decisioni riguardanti gli obblighi di comunicazione ai lavoratori a carico dell'impresa (a), alle procedure di verifica dei piani concordati (b), a cose più rilevanti come la famosa partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese (e).
Siamo allibiti dalla lettura, dicevamo, perché non sapevamo che, senza questa legge, i lavoratori non potessero accordarsi su cosa l'imprenditore possa scrivere nel bollettino aziendale. Non sapevamo nemmeno che non si potessero accordare sulla distribuzione degli utili. Ed infatti, a quanto ci risulta, sono liberissimi di farlo sin d'ora. Ma allora a cosa serve la legge? Ichino stesso, scopriamo in una sua intervista al Sole 24 ore ammette che la legge ha in queste parti valore più che altro esortativo.
Il contenuto innovativo della legge dunque non è qui. L'innovazione sta, ad esempio, in una minuziosa regolamentazione (articolo 2: "requisiti per la stipulazione del contratto istitutivo") di chi possa o non possa stipulare questi accordi. In sostanza, la norma serve a dare il potere ai sindacati nella gestione di questi accordi, ed a garantire quelle regole di democrazia rappresentativa che né i sindacati paiono essere capaci di darsi da soli, né il legislatore sembra essere stato in grado di imporre dal dopoguerra ad oggi. Lo stesso discorso vale per l'articolo 3, che istituisce i "consigli di sorveglianza", allo scopo – presumiamo - ancora di garantire la democraticità del processo. Davvero serve l'ennesimo consiglio, gli ennesimi gettoni di presenza per i sindacalisti presenti, l'ennesima regolamentazione di procedure che dovrebbero essere lasciate alla libertà contrattuale?
Una determinante innovazione della proposta si trova nell'articolo 4, che prevede, in sostanza, alcune agevolazioni fiscali nel caso che sindacati ed impresa si accordino per la compartecipazione degli utili, ed è la via che il governo sembra avere sposato. In sostanza, il legislatore (anzi, Ichino), ritiene che la compartecipazione abbia benefici sociali tali da rendere valida un'altra distorsione delle condizioni che si valutano per operare scelte imprenditoriali, meritando un sussidio da parte della collettività. Esistono fondamenti teorici ed empirici sottostanti tale affermazione? È facile scrivere una proposta di legge che promette sgravi fiscali, ma questi soldi dovranno pure arrivare da qualche parte. O la legge crea efficienze che recupereranno tali spese, oppure si tratta di soldi tolti a qualcuno per essere dati a qualcun altro (sperando che nel processo non si siano create inefficienze, cosa improbabile vista la pletora di comitati e consigli che si prevede debbano essere istituiti).
Da un punto di vista di un economista, la differenza fra imprenditore e lavoratore dipendente è una, ed è fondamentale. L'imprenditore è il soggetto che rischia il proprio capitale, mentre il lavoratore dipendente non lo rischia, e riceve il salario indipendentemente dal successo del proprio prodotto sul mercato. Quindi, chi è propenso al rischio tende a diventare imprenditore, chi non lo è tende a diventare dipendente di un imprenditore. Il che significa che il lavoratore è ben contento di non far dipendere la retribuzione dall'andamento dell'azienda, giacché ciò comporterebbe un rischio: preferisce un salario più basso ma sicuro ad uno potenzialmente più alto ma incerto, perché minore in caso di bilanci aziendali negativi.
A meno che – dal momento che, come direbbe Andreotti, a pensar male si commette peccato, ma s'indovina quasi sempre …... - la traduzione in linguaggio corrente della locuzione "partecipazione agli utili" non sia che il lavoratore prende una parte dei profitti se l'impresa va bene, ma l'imprenditore si cucca le perdite se va male. Sia chiaro: se non si crede nel modello superfisso, si devon fare i conti con i vincoli di bilancio e nessuno può dar niente per niente. Quindi è chiaro che in cambio della partecipazione agli utili un imprenditore chiederebbe una riduzione della componente fissa del salario. Come abbiamo detto, però, quest'ultima è proprio la parte che più interessa ad un soggetto tipicamente avverso al rischio. Tra l'altro, un lavoratore che un po' di rischio se lo voglia prendere, ma non tanto da tentare un'attività in proprio, avrebbe tutto l'interesse ad investire altrove: perché mai dovrebbe rischiare con la propria impresa, il cui fallimento gli provocherebbe la perdita del capitale ed, insieme, del lavoro? Anche per questo motivo l'idea della compartecipazione va contro normali criteri di efficienza.
Ma l'inefficienza maggiore si avrebbe dal punto di vista della gestione dell'impresa. Infatti, al fine di evitare aspri e perenni conflitti relativi al quantum da destinare alla suddivisione tra i collaboratori, sarebbe necessario l'accordo puntuale sul modo di gestire le risorse che l'andamento aziendale rendesse disponibili. Del tutto ovvio, ad esempio, è il malcontento che l'impresa potrebbe incontrare con la decisione d'investire in tecnologia o miglioramento strutturale – anche la banale ristrutturazione di uffici inadeguati, o persino spese modestissime – riducendo in tal modo la somma sulla quale calcolare la ripartizione. Vien facilmente da pensare anche quali vincoli decisionali – quindi quale intralcio all'efficacia operativa – si potrebbero porre, dovendo tenere in considerazione tale aspetto: è molto probabile la configurazione di un danno reale ai bilanci aziendali, con inevitabili riflessi pure sulle possibilità premiali derivanti da un buon risultato. Effetto contrario, dunque, a quanto ipotizzato.
A maggior ragione in un contesto come quello italiano, nel quale la dimensione aziendale risulta essere mediamente molto ridotta e determina una grande difficoltà a lavorare su indicatori oggettivi. Lo stretto sistema di rapporti interni basato sulla conoscenza personale, invece, aiuta le PI a rendere comprensibile la motivazione dei differenti trattamenti che l'imprenditore – oggi percepito dai collaboratori più degno di fiducia rispetto ai sindacati, molto poco presenti all'interno dei cancelli – possa decidere di riservare ai singoli. All'interno di simili realtà, quindi, non è strano che si crei la consapevolezza che il buon andamento produce benefici per tutti, dal momento che - a prescindere dalla indubbia qualità dei rapporti umani in loco - l'interesse stesso dell'imprenditore porta ad attribuire premi di fine anno quando la situazione lo consenta, al fine di rendere chiaro a tutti che la qualità lavorativa e l'impegno pagano.
Quanto qui esposto potrebbe essere criticato, sostenendo – come è stato fatto - che nessuno stia proponendo la co-gestione, cosa diversa dalla semplice partecipazione agli utili la quale, invece, darebbe un senso di unità nelle sorti dell'impresa e sostituirebbe la collaborazione alla conflittualità tipica dei tradizionali rapporti sindacali.
Ciò è falso. L’ articolo 5 della proposta Ichino prevede che parte della retribuzione possa essere differita, e diverse forme di organizzazione del lavoro introdotte, in deroga a quelle previste dal contratto collettivo nazionale, in vista della realizzazione di un piano industriale. I rappresentanti sindacali acquisiscono allo stesso tempo accesso all’informazione sull’andamento del piano industriale stesso, e la reticenza dell’impresa su questo punto costituisce comportamento antisindacale, in violazione dello Statuto dei Lavoratori.
Qualcuno ritiene che non si tratti di co-gestione?
Inoltre, la legge vuole aprire un processo di sperimentazione per costruire un “sindacato partecipativo’’, invece del modello sindacale "conflittuale'' attuale. La legge vuole favorire, insomma, tanti piccoli laboratori nel territorio, dove fare esperienze diverse di realizzazione della partecipazione. Magari anche dove modelli diversi di partecipazione si confrontino con la realtà. Lo stesso Ichino scrive, nella presentazione on line del suo progetto:
È bene che modelli diversi possano confrontarsi tra loro nel vivo del tessuto produttivo, perché la scelta tra di essi avvenga in modo pragmatico, sulla base dell'esperienza reale
Poi si procederà con un disegno più ambizioso. Ma se è questo quello che la legge si propone, allora le domande sono ben di più, e ben diverse. Ecco la più importante. Quali sono i vantaggi di un sindacato partecipativo? Molto più direttamente: quali sono le assicurazioni che una impresa cogestita funzioni meglio di una con una gestione unica? In questo caso di costi ne vediamo subito uno, grosso. Un'impresa funziona come un contratto con azionisti: la direzione dell’ impresa unicamente responsabile di fronte a loro degli esiti economici. Ha competenza esclusiva sulla direzione, perché sia chiaro, dopo, chi fosse il responsabile della gestione. Il nuovo modello sostituisce la gestione unica con una gestione (parzialmente) congiunta. Questa gestione ha due svantaggi. Il primo, che sarà – come abbiamo visto - conflittuale. Il secondo che il responsabile unico sparisce, sostituito da una figura incerta.
Non rimane che esaminare due ulteriori vantaggi prospettati dai sostenitori della proposta, il primo dei quali consisterebbe nell'interesse diretto dei lavoratori a che l’impresa abbia successo, che fornirebbe un incentivo personale - prima inesistente - a lavorare per questo successo. Il ragionamento cozza contro un calcolo semplice. Il lavoratore che decide di lavorare di più paga direttamente lo sforzo aggiuntivo, ma i vantaggi che ottiene vengono divisi per l'intero numero di lavoratori che compartecipano agli stessi profitti, dieci o mille che siano. Il confronto fra costi (pagati interamente) e vantaggi (divisi) porta all’annullamento del vantaggio, già quando il numero dei lavoratori non è piccolissimo. Evidenze sperimentali dimostrano, appunto, che l’effetto decresce sia con il numero di chi gode dei vantaggi comuni, che con la familiarità acquisita dai partecipanti a questo processo. Il guadagno è piccolo, molto piccolo se il numero dei lavoratori è anche solo relativamente grande, e tende a svanire col tempo.
Il secondo vantaggio ipotizzato deriva dal fatto che i lavoratori in un'impresa sono in possesso di una particolare informazione: quanto gli altri lavoratori s'impegnano. Hanno anche la possibilità di esercitare pressioni sugli altri, in una infinità di modi, per spingerli a lavorare di più o di meno, a seconda della situazione. Se i profitti sono solo profitti d’impresa, i lavoratori non hanno nessun interesse a fare particolare attenzione a cosa facciano gli altri, né ad esercitare pressioni in un senso o nell'altro, mentre l’interesse sarebbe chiaro se i profitti fossero condivisi. Il risultato è incerto anche in questo caso, ed inoltre sorge spontanea la nostra perplessità: se questo effetto c'è, è pensabile che non sia già stato utilizzato dall’impresa? I mezzi contrattuali per farlo esistono. E infatti riteniamo che l'imprenditore attento e capace ottenga già i miglioramenti possibili con premi di gruppo o di turno. Quello incapace ….. beh, peggio per il suo capitale che non sarà adeguatamente remunerato e, specie in situazioni di forte competizione, potrà anche dissolversi. Qualcun altro occuperà la fetta di mercato disponibile, ed altri lavoratori – meglio diretti – ne trarranno vantaggi.
Per concludere, noi pensiamo che esperienze di cogestione e compartecipazione possano essere introdotte da imprenditori e lavoratori che vogliano sperimentarle, ma questo si può gia fare a legge vigente. Un'eventuale regolamentazione rischia di mettere paletti per chi lo vuole fare, e di elargire sussidi la cui giustificazione economica ci risulta piuttosto vaga.
L'analisi è interessante e condivisibilissima. Francamente non capisco che senso abbia da un punto di vista di tempestività e di potenziale contributo a migliorare il contesto di bassi redditi e bassa produttività che connota il paese. Sembra solo un diversivo, un pò di erba 'intrattieni' lanciata in giro.
luigi zoppoli