La regolamentazione della compartecipazione

/ Articolo / La regolamentazione della compartecipazione
  • Condividi

Oramai la notizia non è più nei giornali, ma come sapete questo è un sito di riflessione, non di reazione epidermica. Qualche settimana fa l'aria d'agosto ha fatto balenare ad alcuni l'idea della "compartecipazione agli utili". In concreto le idee sono le più svariate, ma si tratta, sostanzialmente, di permettere a imprenditori e lavoratori di accordarsi per co-gestire l'impresa e condividerne gli eventuali profitti. Tremonti dice "si farà", e anche i sindacati sono d'accordo. Sarà davvero una buona idea? Per capirlo, abbiamo dato un'occhiata al disegno di legge sulla materia proposto da una persona ragionevole, Pietro Ichino.

Una scorsa all'articolo 1 della proposta lascia il lettore allibito. Ichino elenca nove (nove!) modalità diverse in cui i lavoratori possono venire coinvolti nell'andamento dell'azienda ed influenzarne le decisioni. Si va dalle decisioni riguardanti gli obblighi di comunicazione ai lavoratori a carico dell'impresa (a), alle procedure di verifica dei piani concordati (b), a cose più rilevanti come la famosa partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese (e).

Siamo allibiti dalla lettura, dicevamo, perché non sapevamo che, senza questa legge, i lavoratori non potessero accordarsi su cosa l'imprenditore possa scrivere nel bollettino aziendale. Non sapevamo nemmeno che non si potessero accordare sulla distribuzione degli utili. Ed infatti, a quanto ci risulta, sono liberissimi di farlo sin d'ora. Ma allora a cosa serve la legge? Ichino stesso, scopriamo in una sua intervista al Sole 24 ore ammette che la legge ha in queste parti valore più che altro esortativo.

Il contenuto innovativo della legge dunque non è qui. L'innovazione sta, ad esempio, in una minuziosa regolamentazione (articolo 2: "requisiti per la stipulazione del contratto istitutivo") di chi possa o non possa stipulare questi accordi. In sostanza, la norma serve a dare il potere ai sindacati nella gestione di questi accordi, ed a garantire quelle regole di democrazia rappresentativa che né i sindacati paiono essere capaci di darsi da soli, né il legislatore sembra essere stato in grado di imporre dal dopoguerra ad oggi. Lo stesso discorso vale per l'articolo 3, che istituisce i "consigli di sorveglianza", allo scopo – presumiamo - ancora di garantire la democraticità del processo. Davvero serve l'ennesimo consiglio, gli ennesimi gettoni di presenza per i sindacalisti presenti, l'ennesima regolamentazione di procedure che dovrebbero essere lasciate alla libertà contrattuale?

Una determinante innovazione della proposta si trova nell'articolo 4, che prevede, in sostanza, alcune agevolazioni fiscali nel caso che sindacati ed impresa si accordino per la compartecipazione degli utili, ed è la via che il governo sembra avere sposato. In sostanza, il legislatore (anzi, Ichino), ritiene che la compartecipazione abbia benefici sociali tali da rendere valida un'altra distorsione delle condizioni che si valutano per operare scelte imprenditoriali, meritando un sussidio da parte della collettività. Esistono fondamenti teorici ed empirici sottostanti tale affermazione? È facile scrivere una proposta di legge che promette sgravi fiscali, ma questi soldi dovranno pure arrivare da qualche parte. O la legge crea efficienze che recupereranno tali spese, oppure si tratta di soldi tolti a qualcuno per essere dati a qualcun altro (sperando che nel processo non si siano create inefficienze, cosa improbabile vista la pletora di comitati e consigli che si prevede debbano essere istituiti).

Da un punto di vista di un economista, la differenza fra imprenditore e lavoratore dipendente è una, ed è fondamentale. L'imprenditore è il soggetto che rischia il proprio capitale, mentre il lavoratore dipendente non lo rischia, e riceve il salario indipendentemente dal successo del proprio prodotto sul mercato. Quindi, chi è propenso al rischio tende a diventare imprenditore, chi non lo è tende a diventare dipendente di un imprenditore. Il che significa che il lavoratore è ben contento di non far dipendere la retribuzione dall'andamento dell'azienda, giacché ciò comporterebbe un rischio: preferisce un salario più basso ma sicuro ad uno potenzialmente più alto ma incerto, perché minore in caso di bilanci aziendali negativi.

A meno che – dal momento che, come direbbe Andreotti, a pensar male si commette peccato, ma s'indovina quasi sempre …... - la traduzione in linguaggio corrente della locuzione "partecipazione agli utili" non sia che il lavoratore prende una parte dei profitti se l'impresa va bene, ma l'imprenditore si cucca le perdite se va male. Sia chiaro: se non si crede nel modello superfisso, si devon fare i conti con i vincoli di bilancio e nessuno può dar niente per niente. Quindi è chiaro che in cambio della partecipazione agli utili un imprenditore chiederebbe una riduzione della componente fissa del salario. Come abbiamo detto, però, quest'ultima è proprio la parte che più interessa ad un soggetto tipicamente avverso al rischio. Tra l'altro, un lavoratore che un po' di rischio se lo voglia prendere, ma non tanto da tentare un'attività in proprio, avrebbe tutto l'interesse ad investire altrove: perché mai dovrebbe rischiare con la propria impresa, il cui fallimento gli provocherebbe la perdita del capitale ed, insieme, del lavoro? Anche per questo motivo l'idea della compartecipazione va contro normali criteri di efficienza.

Ma l'inefficienza maggiore si avrebbe dal punto di vista della gestione dell'impresa. Infatti, al fine di evitare aspri e perenni conflitti relativi al quantum da destinare alla suddivisione tra i collaboratori, sarebbe necessario l'accordo puntuale sul modo di gestire le risorse che l'andamento aziendale rendesse disponibili. Del tutto ovvio, ad esempio, è il malcontento che l'impresa potrebbe incontrare con la decisione d'investire in tecnologia o miglioramento strutturale – anche la banale ristrutturazione di uffici inadeguati, o persino spese modestissime – riducendo in tal modo la somma sulla quale calcolare la ripartizione. Vien facilmente da pensare anche quali vincoli decisionali – quindi quale intralcio all'efficacia operativa – si potrebbero porre, dovendo tenere in considerazione tale aspetto: è molto probabile la configurazione di un danno reale ai bilanci aziendali, con inevitabili riflessi pure sulle possibilità premiali derivanti da un buon risultato. Effetto contrario, dunque, a quanto ipotizzato.

A maggior ragione in un contesto come quello italiano, nel quale la dimensione aziendale risulta essere mediamente molto ridotta e determina una grande difficoltà a lavorare su indicatori oggettivi. Lo stretto sistema di rapporti interni basato sulla conoscenza personale, invece, aiuta le PI a rendere comprensibile la motivazione dei differenti trattamenti che l'imprenditore – oggi percepito dai collaboratori più degno di fiducia rispetto ai sindacati, molto poco presenti all'interno dei cancelli – possa decidere di riservare ai singoli. All'interno di simili realtà, quindi, non è strano che si crei la consapevolezza che il buon andamento produce benefici per tutti, dal momento che - a prescindere dalla indubbia qualità dei rapporti umani in loco - l'interesse stesso dell'imprenditore porta ad attribuire premi di fine anno quando la situazione lo consenta, al fine di rendere chiaro a tutti che la qualità lavorativa e l'impegno pagano.

Quanto qui esposto potrebbe essere criticato, sostenendo – come è stato fatto - che nessuno stia proponendo la co-gestione, cosa diversa dalla semplice partecipazione agli utili la quale, invece, darebbe un senso di unità nelle sorti dell'impresa e sostituirebbe la collaborazione alla conflittualità tipica dei tradizionali rapporti sindacali.

Ciò è falso. L’ articolo 5 della proposta Ichino prevede che parte della retribuzione possa essere differita, e diverse forme di organizzazione del lavoro introdotte, in deroga a quelle previste dal contratto collettivo nazionale, in vista della realizzazione di un piano industriale. I rappresentanti sindacali acquisiscono allo stesso tempo accesso all’informazione sull’andamento del piano industriale stesso, e la reticenza dell’impresa su questo punto costituisce comportamento antisindacale, in violazione dello Statuto dei Lavoratori.

Qualcuno ritiene che non si tratti di co-gestione?

Inoltre, la legge vuole aprire un processo di sperimentazione per costruire un “sindacato partecipativo’’, invece del modello sindacale "conflittuale'' attuale. La legge vuole favorire, insomma, tanti piccoli laboratori nel territorio, dove fare esperienze diverse di realizzazione della partecipazione. Magari anche dove modelli diversi di partecipazione si confrontino con la realtà. Lo stesso Ichino scrive, nella presentazione on line del suo progetto:

È bene che modelli diversi possano confrontarsi tra loro nel vivo del tessuto produttivo, perché la scelta tra di essi avvenga in modo pragmatico, sulla base dell'esperienza reale

Poi si procederà con un disegno più ambizioso. Ma se è questo quello che la legge si propone, allora le domande sono ben di più, e ben diverse. Ecco la più importante. Quali sono i vantaggi di un sindacato partecipativo? Molto più direttamente: quali sono le assicurazioni che una impresa cogestita funzioni meglio di una con una gestione unica? In questo caso di costi ne vediamo subito uno, grosso. Un'impresa funziona come un contratto con azionisti: la direzione dell’ impresa unicamente responsabile di fronte a loro degli esiti economici. Ha competenza esclusiva sulla direzione, perché sia chiaro, dopo, chi fosse il responsabile della gestione. Il nuovo modello sostituisce la gestione unica con una gestione (parzialmente) congiunta. Questa gestione ha due svantaggi. Il primo, che sarà – come abbiamo visto - conflittuale. Il secondo che il responsabile unico sparisce, sostituito da una figura incerta.

Non rimane che esaminare due ulteriori vantaggi prospettati dai sostenitori della proposta, il primo dei quali consisterebbe nell'interesse diretto dei lavoratori a che l’impresa abbia successo, che fornirebbe un incentivo personale - prima inesistente - a lavorare per questo successo. Il ragionamento cozza contro un calcolo semplice. Il lavoratore che decide di lavorare di più paga direttamente lo sforzo aggiuntivo, ma i vantaggi che ottiene vengono divisi per l'intero numero di lavoratori che compartecipano agli stessi profitti, dieci o mille che siano. Il confronto fra costi (pagati interamente) e vantaggi (divisi) porta all’annullamento del vantaggio, già quando il numero dei lavoratori non è piccolissimo. Evidenze sperimentali dimostrano, appunto, che l’effetto decresce sia con il numero di chi gode dei vantaggi comuni, che con la familiarità acquisita dai partecipanti a questo processo. Il guadagno è piccolo, molto piccolo se il numero dei lavoratori è anche solo relativamente grande, e tende a svanire col tempo.

Il secondo vantaggio ipotizzato deriva dal fatto che i lavoratori in un'impresa sono in possesso di una particolare informazione: quanto gli altri lavoratori s'impegnano. Hanno anche la possibilità di esercitare pressioni sugli altri, in una infinità di modi, per spingerli a lavorare di più o di meno, a seconda della situazione. Se i profitti sono solo profitti d’impresa, i lavoratori non hanno nessun interesse a fare particolare attenzione a cosa facciano gli altri, né ad esercitare pressioni in un senso o nell'altro, mentre l’interesse sarebbe chiaro se i profitti fossero condivisi. Il risultato è incerto anche in questo caso, ed inoltre sorge spontanea la nostra perplessità: se questo effetto c'è, è pensabile che non sia già stato utilizzato dall’impresa? I mezzi contrattuali per farlo esistono. E infatti riteniamo che l'imprenditore attento e capace ottenga già i miglioramenti possibili con premi di gruppo o di turno. Quello incapace ….. beh, peggio per il suo capitale che non sarà adeguatamente remunerato e, specie in situazioni di forte competizione, potrà anche dissolversi. Qualcun altro occuperà la fetta di mercato disponibile, ed altri lavoratori – meglio diretti – ne trarranno vantaggi.

Per concludere, noi pensiamo che esperienze di cogestione e compartecipazione possano essere introdotte da imprenditori e lavoratori che vogliano sperimentarle, ma questo si può gia fare a legge vigente. Un'eventuale regolamentazione rischia di mettere paletti per chi lo vuole fare, e di elargire sussidi la cui giustificazione economica ci risulta piuttosto vaga.

Indietro

Commenti

Ci sono 40 commenti

L'analisi è interessante e condivisibilissima. Francamente non capisco che senso abbia da un punto di vista di tempestività e di potenziale contributo a migliorare il contesto di bassi redditi e bassa produttività che connota il paese. Sembra solo un diversivo, un pò di erba 'intrattieni' lanciata in giro.

luigi zoppoli

A me sembra che Ichino abbia in mente il modello tedesco, da giuslavorista non sa (o meglio, fa finta di non sapere) che i sindacati italiani non sono i sindacati tedeschi, anzi, l'esatto opposto, dare le chiavi dell'azienda a gente che si vende i posti di lavoro (e le imprese pur di non avere rotture di scatole accettano questa prassi) è un suicidio. Lento, ma rimane un suicidio.

Dò solo atto che Ichino ha in mente un modello, gli altri nemmeno quello e farfugliano sciocchezze senza senso.

Poi, per far capire meglio a chi daremmo le chiavi aziendali racconto un nanetto: c'è un mio amico, iscritto al Partito Comunista (quando era PCI), poi PDS, poi DS,e che dopo una carriera all'interno di varie aziende nelle Risorse Umane è diventato Direttore del Personale di una medio-grande azienda (450 dipendenti),orbene costui è diventato sostenitore di Forza Italia. L'ultima volta che ci siamo visti mi ha detto: "meglio Berlusconi che è un farabutto unico, che i 1.000 farabutti che stanno nel sindacato, e che non hanno mai lavorato in vita loro". Potenza dei sindacati italici...

 

 

 

Lo stretto sistema di rapporti interni basato sulla conoscenza personale, invece, aiuta le PI a rendere comprensibile la motivazione dei differenti trattamenti che l'imprenditore – oggi percepito dai collaboratori più degno di fiducia rispetto ai sindacati, molto poco presenti all'interno dei cancelli – possa decidere di riservare ai singoli.

 

Siete proprio sicuri che ci sia questa fiducia dei lavoratori verso l'imprenditore?

La mia esperienza diretta e indiretta e' molto piu' catastrofistica: in generale il lavoratore "medio" ha la stessa sfiducia per i sindacati e per l'imprenditore, con quest'ultimo che, (sempre in media) "ricambia" (poco) cordialmente.

E questa sfiducia reciproca e' inversamente proporzionale alla dimensione aziendale.

Ma magari e' "solo" perche' qui siamo sottosviluppati.

 

Lo stretto sistema di rapporti interni basato sulla conoscenza personale, invece, aiuta le PI a rendere comprensibile la motivazione dei differenti trattamenti che l'imprenditore – oggi percepito dai collaboratori più degno di fiducia rispetto ai sindacati, molto poco presenti all'interno dei cancelli – possa decidere di riservare ai singoli.

 

Siete proprio sicuri che ci sia questa fiducia dei lavoratori verso l'imprenditore?

 

L'esperienza diretta che mi riguarda, insieme a quella di moltissimi colleghi con i quali ho strette relazioni, dice proprio questo. Ma anche la stessa scarsa presenza sindacale nelle PI è un buon indicatore, dal momento che, evidentemente, i lavoratori per lo più non ritengono di dover essere tutelati esternamente. Inoltre, è interessante notare che la preponderante scelta di mantenere il Tfr in azienda - anziché conferirlo all'INPS, notoriamente gestito dai sindacati - depone inequivocabilmente a favore di tale ipotesi.

 

Nell grandi aziende quotate i rapporti sono solitamente conflittuali. Spesso il bene degli azionisti (valore delle azioni alto e dividendi) è il male dei dipendenti (che devono essere mandati a casa in vari modi per ridurre i costi a brevissimo termine e tenere alto il valore delle azioni). In situazione del genere non c'è nessuna possibilità di "bene comune" generalizzato, vedi il caso Telecom.

E' ovvio invece che in una piccola o piccolissima impresa il bene dell'azienda è quello di tutti, lavoratori compresi che, come minimo, corrono pochi rischi di essere licenziati - se piacciono al padrone e magari non si iscrivono ai sindacati che devono restare rigorosamente fuori dai cancelli, se possibile lontanissimi. Tutto il resto però è pura teoria e ovviamente non è sempre presente, favoletta dei buoni rapporti e della fiducia imprenditore-maestranze compresa.

 

Nell grandi aziende quotate i rapporti sono solitamente conflittuali. Spesso il bene degli azionisti (valore delle azioni alto e dividendi) è il male dei dipendenti (che devono essere mandati a casa in vari modi per ridurre i costi a brevissimo termine e tenere alto il valore delle azioni). In situazione del genere non c'è nessuna possibilità di "bene comune" generalizzato, vedi il caso Telecom.

 

Quello che dici tu sembra presupporre un conflitte ineluttabile. E' un pensiero che ho sentito diverse volte da varie persone in Italia di estrazione diversa, quindi penso si possa considerare come qualcosa che molte persone danno per assodato.

Penso che dovremmo fare attenzione: non c'è niente di male nel fatto che gli azionisti e gli imprenditori vogliano alti dividenti o profitti per loro. In fondo è questo il motivo che li spinge a possedere l'azienda. Se questo viene percepito come un problema e in un modo o nell'altro lo si ostacola, allora azionisti e imprenditori potrebbero trovare più conveniente investire i loro soldi in altre iniziative o geografie. Questo comporterebbe la chiusura di aziende e la mancata apertura di nuove (costo opportunità) e una diminuzione dei posti di lavoro.

Penso che questo porti a una soluzione perdente: diminuire i problemi sul lavoro perché si tagliando il numero di posti di lavoro!

Per il resto, la discussione è abbastanza articolata. Ti dico solo, però, che come altro interlocutore in tutta questa faccenda, ci sono i manager delle aziende.

Da economista, un paio di piccoli appunti. Primo, non e' necessariamente vero che "il lavoratore dipendente non lo rischia, e riceve il salario indipendentemente dal successo del proprio prodotto sul mercato". Se l'impresa fallisce i lavoratori possono, al massimo, ricevere un ammontare uguale al valore di liquidazione dell'azienda (limited liability) e questo potrebbe benissimo essere minore dei salari promessi. Quindi, i salari sono anch'essi sogetti al rischio di fallimento. Secondo, la teoria che dice che dice che "chi è propenso al rischio tende a diventare imprenditore, chi non lo è tende a diventare dipendente di un imprenditore" e' tutta da dimostrare in un mondo in cui la diversifcazione del rischio e' aperta a tutti tramite i mercati finanziari. Khilstrom & Laffont sono autori del famigerato modello in cui si mostra una relazione negativa tra propensione al rischio a tendenza a diventare imprenditori e assumono da un lato che il salario e' risk-free e dalla'altro che la diversificazione non e' possibile. Togliete una di queste due ipotesi e la relazione negativa sparisce. Infine, dal punto di vista empirico la relazione tra avversione al rischio e tendenza a diventare imprenditori e' tutt'altro che dimostrata.

Ciao Luca:

1. Mi aspettavo un’altra critica, e gia’ che ci sono ce la faccio da solo. Il salario independente dal rendimento e’ una assunzione ragionevole in una situazione molto astratta, di equilibrio competitivo in cui per esempio non ci sono problemi di osservabilita’ dello sforzo del lavoratore. Se questi problemi ci sono, come in tutte le aziende di cui stiamo discutendo in questo post, allora il contratto ottimale prevede partecipazione agli utili, perche’ e’ dato dalla soluzione di un problema principale agente. Naturalmente questo e’ un contratto personale, quindi non e’ proprio la partecpazione agli utili di cui si parla nel dibattito e nella proposta di legge.

2. E’ vero che i salari sono sottoposti al rischio di fallimento. E’ vero anche che la partecipazione agli utili non migliora questo problema.

3. Il modello Kihlstrom e Laffont va benissimo come modello concettuale per discutere questi problemi. Ma che il salario nel loro modello sia costante e’ veramente una assunzione sostanziale? Pare una questione un po’ sottile, ma ha molto ha che fare con la discussione sulla partecipazione agli utili. Supponi che qualche imprenditore stia pagando un salario che non e’ costante ma variabile, rischioso. Siccome qualunque imprenditore e’ piu’ avverso al rischio di qualunque lavoratore, lo stesso imprenditore potrebbe pagare un po’ meno in valore atteso, avere la stessa offerta di lavoro (perche’ reduce pagamento atteso e incertezza del pagamento) e guadagnare di piu’, quindi lo farebbe, e lo farebbe fino a che il salario diventa fisso.

4. Ultima nota: io non lo so se empiricamente gli imprenditori sono meno avversi al rischio perche’ e’ cosi’ che si selezionano ad equilibrio. Ma in genere hanno un reddito o una ricchezza piu’ alta, e questo fatto da solo li rende piu’ disposti a prendere rischi di quanto lo siano i lavoratori.

1. Imprenditore non è solo quello che ci mette i soldi, ma nella definizione di imprenditore si ricomprende "persona che organizza beni e persone", si ditingue dal manager solo perchè è anche prorietario, ma la mera proprietà non ti fa diventare imprenditore.

2. I sindacati sono assenti nelle piccole aziende non perchè noi abbiamo la faccia feroce, o controlliamo che un dipendente non sia iscritto al sindacato, semplicemente non è previsto dal contratto fino a 15 dipendenti.

3. Lavoro con aziende piccole, medie e grandi, non ho rapporti diretti con i titolari delle grandi (Marchionne non lo ho mai visto), ma non ho avuto sentore di grandi conflittualità esasperate, anzi ho sempre incontrato persone orgogliose di quello che facevano e di lavorare in una grande azienda, i problemi li ho visti quando le aziende vanno male e intervengono i sindacati, prima mai. Se lavori..

4. Io, come tutti quelli che conosco, dò premi ai miei dipendenti a fine anno se le cose vanno bene (se io sono bravo, ergo), altrimenti niente. E' mio interesse dare premi di produzione e non licenziare, ma se l'azienda ha un momento di crisi non c'è contratto che tenga, da questo punto di vista la cogestione ope legis è una fesseria, se ho dei collaboratori validi li sto a sentire su tutto, se le loromidee sono valide si va avanti, ma non ho bisogno di Tremonti, anzi avrei bisogno che Tremonti, o chi per esso, stia il più lontano possibile da me.

5. Nelle aziende private è difficile che esistano dgli imboscati: il sistema nostro è fatto apposta per evitarlo, poi che qualcuno ci riesca (a imboscarsi) è fisiologico, ma siamo su percentuali non rilevabili, a livelli dello 0,

 

 

 

2. I sindacati sono assenti nelle piccole aziende non perchè noi abbiamo la faccia feroce, o controlliamo che un dipendente non sia iscritto al sindacato, semplicemente non è previsto dal contratto fino a 15 dipendenti.

 

Non solo, Marco. Come sai anche tu (e non sanno, ça va sans dire, coloro che non conoscono le situazioni e tuttavia non rinunciano a pontificare ....) la scarsa presenza dei sindacati dipende, a prescindere dal superamento della soglia di 15 dipendenti, soprattutto dal rapporto diretto che si instaura tra imprenditore e collaboratori in un ambiente che tipicamente lo favorisce. Tant'è vero che, in moltissimi casi, le iscrizioni alla "trimurti" riguardano solo una piccola parte dei lavoratori, e non rari sono i casi - lo dico per esperienza diretta - nei quali alle programmate assemblee i responsabili sindacali di zona si ritrovano a parlare ad un'audience ancor più ridotta, oppure si sentono dire che non è il momento di perder tempo.

Tutto ciò, non tanto perché si tema chissà quale conseguenza - del tutto improbabile per i conflitti che comporterebbe non solo a causa della normativa vigente e, probabilmente, anche controproducente - ma proprio per mancanza di un'esigenza rappresentativa: è molto più sempice ed efficace il dialogo diretto interno, che ha più possibilità di risolvere eventuali problemi.

Poi, naturalmente, ci sono le eccezioni e le situazioni di particolare difficoltà. Ma, appunto, tali sono. Tra l'altro, i sindacalisti più attenti e meno ideologizzati (che parrebbero in numero crescente, sebbene ancora netta minoranza) non danno grande importanza alla propria intermediazione, quando le cose funzionano. Sebbene, in genere, tendano a giustificare il non-lavoro che li caratterizza a fronte di un incredibile ed iniquo costo per la collettività.

La soglia di 15 dipendenti, invece,  è deleteria perché impone tutta una serie di obblighi - talvolta così assurdi e cervellotici, che non pochissimi piccoli imprenditori, se possono, scindono le aziende sopportando le diseconomie che ciò comporta - ma questo è tutto un altro discorso ......

 

4. Io, come tutti quelli che conosco, dò premi ai miei dipendenti a fine anno se le cose vanno bene (se io sono bravo, ergo), altrimenti niente. E' mio interesse dare premi di produzione e non licenziare, ma se l'azienda ha un momento di crisi non c'è contratto che tenga, da questo punto di vista la cogestione ope legis è una fesseria, se ho dei collaboratori validi li sto a sentire su tutto, se le loro idee sono valide si va avanti, ma non ho bisogno di Tremonti, anzi avrei bisogno che Tremonti, o chi per esso, stia il più lontano possibile da me.

 

Infatti, è ciò che sostengo anch'io, e l'ho scritto. Per quanto riguarda l'aver bisogno di GT o chi per esso, specie se le grandi idee sono di questo tipo, condivido l'affermazione comunemente attribuita a Thomas Jefferson: il miglior governo è quello che governa meno ...... :-)

In ogni caso, per tornare all'argomento del pezzo, a me pare evidente che la proposta Ichino prenda le mosse dall'errata convinzione che il peso corporativo dei sindacati debba aumentare, proprio - guarda caso - in quel mondo delle PI che non li vede protagonisti. Ed è significativo che solo le idee dirigiste e distorsive del libero mercato abbiano la possibilità di ricevere consenso bipartisan, in questo miserrimo Paese, tanto che i socialisti dell'altro schieramento, da Tremonti a Sacconi, son lì che non stan più nella pelle ....

Ecco, oltre l'analisi, polemica infine sia. Quella polemica che Aldo ed Andrea - da bravi economisti - hanno smorzato e che io avrei invece voluto feroce, tanto che proponevo espressioni anche forti ed un titolo del tipo "Italia, in marcia verso il socialismo" ..... :-)

E sono ancora disponibile a sparare ad alzo zero, of course.

 

 

E sono ancora disponibile a sparare ad alzo zero, of course.

 

Non lo abbiamo già fatto abbastanza? Non rimando alle innumerevoli volte in cui ci siamo trovati costretti a sparare ad alzo zero, il problema sembrerebbe che non siamo noi a non sparare abbastanza, e che sono loro proprio idioti.

Però io un disegno continuo a vederlo: l'unica cosa che tiene in piedi questo paese è la borghesia imprenditrice, siamo una minoranza, ma abbastanza identificati come gruppo sociale, e siamo l'ultimo baluardo al "neosocing" , visto che per forma mentale e attitudine badiamo al sodo (quando non perdiamo tempo a spiegare agli economisti come va il mondo -)), ci confrontiamo con contesti internazionali, vediamo subito tutto il marcio della Casta, o Oligarchia Politica.

Quindi il disegno della Casta è frantumarci: Destra contro Sinistra con la Lega ad abbaiare, scalata a Confindustria delle Partecipazioni Statali (Confindustria, a mio parere, rimane comunque una voce fuori dal coro, sia pure con  interessi dei soliti noti, cooptati nella Casta), Cogestione e Sindacati pervasivi e invadenti, è tutto un disegno (inconscio) per disgregare l'unico baluardo pensante in questo paese. E poi poter sgovernare al meglio. Ho sconfinato nella politica e sociologia, ma la "cogestione" è una cavolata immane, se qualcuno vuol cogestire qualcosa costituisce una cooperativa (e ce ne sono di cooperative che sono dei veri e propri giganti nel proprio settore, indice che se qualcuno vuol cogestire qualcosa lo riesce a fare), non ha bisogno dell'ennesima legge, regolamento di attuazione e direttiva ministeriale, il mercato fa da sè.

 

se qualcuno vuol cogestire qualcosa costituisce una cooperativa (e ce ne sono di cooperative che sono dei veri e propri giganti nel proprio settore, indice che se qualcuno vuol cogestire qualcosa lo riesce a fare), non ha bisogno dell'ennesima legge, regolamento di attuazione e direttiva ministeriale, il mercato fa da sè.

 

Già che ci siamo - ne avrei voluto accennare nell'articolo, ma sarebbe stata l'apertura di un altro fronte, per quanto contro la medesima mentalità etico-sociale - è opportuno ricordare che, proprio riguardo alle cooperative, esistono anche altre regole che sarebbero - queste sì! - da rivedere. Con l'intento di parificare realmente le condizioni per la sana competizione, anziché introdurre nuove distorsioni d'ogni tipo, tutte rigorosamente motivate da supposti meriti sociali.

Se si volesse - cortesemente - evitare di vagheggiare un intero Paese in trasformazione verso un'unica grande cooperativa, infatti, si potrebbe iniziare a por mano ai vantaggi di cui da lungo tempo gode la cooperazione, proprio in virtù di una supposta e soggettiva “superiorità etica”, truffaldinamente sfruttata per fare affari. Quelle ingiuste agevolazioni nei confronti di una concorrenza alla quale non è dato, ad esempio, di non pagare l'IRES sulle riserve accantonate e non distribuite, oppure di aumentare il capitale sociale del tutto gratuitamente, od ancora di raccogliere risparmio tra i soci.

P.S. In merito al tentativo di scalata a Confindustria in atto da parte delle ex Partecipazioni Statali - con il supporto degli ambienti legati alla politica, s'intende - sono stato più volte sul punto di scrivere qualcosa di articolato e feroce. Prima o poi lo farò, credo .....

P.P.S. Il richiamo al "socing", Marco, è bellissimo. In particolare il terzo slogan - "la schiavitù è libertà" - mi ricorda così da vicino certe pretese di lasciar decidere il bene di tutti a taluni uomini con le sottane, che san Giulio da Sondrio sembra tanto apprezzare ...... :-)

 

in effetti con i sindacati italiani che non rappresentano nessuno è un problema. La scarsa produttività è perchè si gestiscono male le cose, ad esempio si è passati dappertutto dal ruolo di capo a quello di coach? si cerca il contributo di tutti all'innovazione o è esclusiva di imprenditori e consulenti?,...

Questa proposta introduce in Italia i consigli di sorveglianza già visti nelle aziende tedesche.

Essi sono pesanti zavorre, fonti di corruzione e conflitti di interesse, e sottraggono le imprese
alle logiche di mercato sottoponendone le scelte a logiche politiche.

Gli industriali vi si opporranno?

Purtroppo quella parte del nostro capitalismo senza capitale che si guarda bene dall'investire i suoi soldi 
e preferisce chiedere i soldi dei contribuenti, privilegi e protezione, probabilmente preferirà sacrificare
la competitività (che non ha) per infognarsi sempre più in quelle stesse logiche politiche ed assistenziali da cui dipende.

Le aziende italiane diventeranno così ancora meno competitive e la chiusura delle aziende inefficienti
diventerà sempre più un lontano miraggio a scapito degli imprenditori innovativi che vorrebbero emergere.

Piccole e medie imprese orientate al mercato non avranno la possibilità di competere.

Il capitalismo feudale delle grandi aziende italiane sarà così sempre più protagonista della deriva medioevale e corporativa
del sistema produttivo italiano.

Ma io non dispero: c'è sempre la Green Card Lottery.

   Sono completamente d’accordo con Marco e  Doktorfranz, e naturalmente anche con l’arguta analisi dell’articolo. Più che una “marcia verso il socialismo”, molto in voga trenta o quaranta anni or sono, mi sembra che il nostro Paese marci verso una sempre più diffusa vacuità. La “partecipazione agli utili dei lavoratori” è una trovata che serpeggia da più di cento anni (se ne parlava in era fascista) e che ha trovato una parziale realizzazione solamente in Germania, con risultati assai modesti.  Pensare di seguire una strada che si è rivelata insoddisfacente in Germania –malgrado una migliore predisposizione dei lavoratori tedeschi al confronto di quelli italiani– mi sembra semplicemente una sciocchezza.  Vorrei per finire rilevare un ultimo aspetto: proporre leggi che in parte o per l’insieme abbiano valore “esortativo”, mi sembra l’ultima trovata di una classe dirigente incapace di svolgere il proprio mandato. In questa direzione, gli esempi sono molteplici: per citarne uno recente, una serie di articoli che dovrebbero facilitare la  “fusione” tra atenei fanno parte degli ultimi DDL di riforma delle università. Naturalmente, queste “fusioni” (che penso siano invise a tutti i gestori delle università, gli stessi dipendenti) sono possibili anche oggi, in assenza di disposizioni specifiche.  

In sintesi:

1) Un plauso a questo Ex Kathedra: condivisibile in modo ampio su tutta la linea.

2) L'inconsistenza fondamentale di queste proposte (Tremonti, Sacconi, ecc.) è che si pensa di poter parlare di partecipazione agli utili lasciando fuori dalla finestra la partecipazione alla gestione (chiamatela come volete) e alla formazione del bilancio. Si pensa di poter aprire la porta della partecipazione agii utili senza parlare di gestione. Ma è pensabile questa distinzione se il vero target è quello di ottenere consenso e partecipazione sugli obiettivi aziendali? O si creano piuttosto tante altre ragioni di micro-conflittualità?

Quanta leva finanziaria fare? Quanti ammortamenti mettere in bilancio? E quelli anticipati? Già in questo esercizio o aspettiamo il prossimo? Quanti compensi per gli amministratori? Quanti dividendi? Quanti investimenti? ecc. ecc. Il concetto è già stato ben evidenziato dagli autori.

3) Pensiamo a due lavoratori (Toni e Bepi) in tutto uguali (professionalmente) che lavorano in due diverse aziende anch'esse in tutto uguali tranne che per il rapporto tra mezzi propri e debito. L'azienda B ha meno patrimonio e più debito, di conseguenza paga più interessi passivi, fa meno utili e quindi eroga una retribuzione più bassa a Bepi rispetto a quella di Toni che lavora nell'azienda A. Tutto questo che conseguenze ha sulla prestazione professionale di Bepi? Se il mercato funziona in modo decente, Bepi se ne frega che la sua azienda sia indebitata e tenderà ad ottenere una retribuzione vicina a quella di Toni (per farla breve..). O no?     

4) Per non parlare delle diverse prestazioni professionali di due diversi lavoratori che lavorano nella stessa azienda. Tutti uguali? Il premio legato agli utili non può allora essere molto consistente perché deve lasciare all'imprenditore cassa sufficiente per premiare le prestazioni dei lavoratori più meritevoli. Vale la pena tutto 'sto casino per un premio che alla fine può essere nella generalità delle situazioni aziendali solo "marginale"? Stretto tra utili aziendali in media "contenuti", minimi retributivi contrattati a livello nazionale e un certo ammontare di "cassa" per premiare le differenze professionali tra lavoratori?    

5) Recentemente l'onorevole Castro del PDL ha sostenuto sulle pagine de Il Gazzettino questo tipo di proposte rifacendosi alle esperienze di partecipazione avute durante gli anni in cui è stato responsabile delle Risorse Umane in Electrolux. Se questi sono i riferimenti "culturali" siamo a posto... Capirai se possiamo paragonare il tessuto delle nostre PMI alla realtà di una multinazionale. (E' l'errore concettuale già fatto - ad esempio - con le leggi sulla sicurezza del lavoro). Oltretutto Castro è stato sotto scorta per molti anni del suo operato in Electrolux. Non tutti erano entusiasti... Sarà stata anche un'esperienza positiva... 

6) Esiste già - in quanto regolamentato dai contratti collettivi a livello nazionale - il PdR-Premio di Risultato che permette di coinvolgere i lavoratori sui risultati dell'azienda in cui lavorano. La partecipazione agli utili è già possibile all'interno del PdR e come tale beneficia già di qualche agevolazione fiscale. Chi vuole (imprenditore, organizzazioni sindacali e lavoratori di una certa azienda) se trovano un accordo possono già legare le erogazioni dei premi ai lavoratori agli utili conseguiti. "Ingenuamente" ci si domanda: Cosa lo vieta? E' indispensabile esortare per legge?        

 

Post del tutto condiviso, così come i commenti di Franz e Marco (a parte la digressione sulle coop che meriterebbe una discussione a parte, per evitare l'effetto BarDelloSport).

Il brutto, da parte mia, sta però soprattutto nel notare, per l'ennesima volta, la distanza siderale tra chi ci governa (e i loro consulenti) e la realtà. Anche il (abbastanza) valido Ichino, in questo caso, perde punti, la sua sembra più che altro una "riflessione sul tema", per altro piuttosto povera e disarticolata, altro che un disegno di legge.

Esiste già una contrattazione di secondo livello, che è la vera (ed unica) possibile traduzione di "compartecipazione agli utili". Certo, nessun imprenditore vi è obbligato de facto, ma all'atto pratico, se si vogliono collaboratori validi, vi ricorriamo tutti, perchè i minimi da contratto sono risibili e quindi andiamo ad integrare con superminimi (che sono una cosa comunque un po' diversa) e premi di produzione/rendimento.

I premi di produzione sono una reale compartecipazione, se dati a pioggia a tutti i lavoratori, con l'obiettivo di aumentarne la soddisfazione e garantirsi il continuo dell'impegno, oltre che di dire "grazie" in modo pratico (si, noi piccoli imprenditori diciamo spesso grazie ai dipendenti e non solo con pacche sulle spalle)

I premi di rendimento permettono di andare a premiare il singolo che si distingue per impegno e capacità, facendo quindi un'opera mirata alla valorizzazione del singolo che no, non siamo tutti uguali; mentre invece una compartecipazione piatta (comunque sia gestita e regolata) porta ad un'ulteriore conflittualità (quello viene in officina a "tirar sera" e poi prende quanto me, quindi anch'io mi sento autorizzato a rallentare).

Insomma, il concetto di meritocrazia è ben lungi dall'entrare nella testa dei nostri politicanti, ma è ben difficile che concetti nuovi(?) entrino nella testa di menti vecchie, cresciute nelle segreterie di partito o arrivate al potere in quanto sodali del capo.

E intanto noi tiriamo avanti, nelle nostre officine e nei nostri reparti di produzione, per generare una ricchezza che viene in gran parte divorata dai passeggeri del carrozzone romano, i veri partecipatori dei nostri utili.

Sì, Ivan.

Il problema vero è proprio la diffusa ignoranza in merito al funzionamento del sistema produttivo - per lo più formato da piccole imprese, in Italia - che normalmente caratterizza gli estensori delle proposte di legge, Ichino compreso. E pure Tremonti e Sacconi, s'intende, i quali paiono molto ben disposti verso misure mirate ad ottenere una superficiale popolarità - ignoranti od incuranti delle ovvie controindicazioni - onde evitare problematiche risposte di piazza al momento critico .....

Tra l'altro, io non condivido pienamente la buona opinione di Aldo nei confronti del giuslavorista (termine orribile .....) eletto nelle fila del PD, il quale mostra alcuni barlumi di ragionamento, ma anche - a mio avviso - tutto il suo background culturale corporativo, perfettamente inserito nel mainstream bipartisan. Qui, come ho già detto, l'obiettivo non sembra proprio premiare chi meglio contribuisce al buon andamento aziendale (merito, dove sei?) promuovendone la crescita anche retributiva, quanto piuttosto consolidare il potere della corporazione sindacale e consentirne la consueta politica massificante (cioè contraria alla valorizzazione individuale), fornendo armi potenti all'uopo. Si vuole solamente ridurre la dimensione dell'ambito d'applicazione da generale ad aziendale: è meglio, non c'è dubbio, ma affronta il problema nel modo sbagliato perché non punta ad aumentare le differenze (ch'è ciò di cui c'è bisogno, non il contrario), con l'aggravante di introdurre rigidità e conflittualità che anche un bambino comprenderebbe e che - temo del tutto inutilmente, giacché la cultura liberale è distante anni luce ........ - abbiamo evidenziato.

 

Adesso il Veneto vuol fare da apripista: è mai possibile che questi politicanti siano tutti così populisti e completamente ignoranti d'economia da sprecare risorse pubbliche per una simile idiozia e distorcere in cotal modo ogni mercato che toccano?

Ah, cos'è la ricerca del consenso di massa .............

Franco, leggendo il pezzo si apprendono un paio di altre cose:

1) l'iniziativa è bipartisan, la proposta è di un consigliere del PD (ossia di una forza all'opposizione in Regione). Questa idea della compartecipazione sembra veramente piacere a tutti i politici, anche se magari non capiscono perché.

2) Fortunatamente sembra la classica boiata all'italiana. Dice l'articolo:

 

Il sostegno finanziario previsto per avviare una prima sperimentazione pratica della proposta di legge e' di 700 mila euro per il 2010 e di 1 milione di euro per il 2011. Soddisfazione per l'approvazione di questa legge che viene giudicata ''importante e innovativa'' e' stata espressa in aula dal consigliere leghista Claudio Meggiolaro e dall'assessore Massimo Giorgetti.

 

Ora, 700mila euro sono anche tanti per una cosa che non porta da nessuna parte, ma non posso credere che con quei soldi si modifichi di gran ché la struttura proprietaria dell'impresa veneta e si distorcano molto i mercati.
Perderanno un po' di tempo, butteranno via qualche soldo, e poi annunceranno tronfi che grazie a loro è scoppiata la pace tra lavoro e capitale. Alla fine, danno limitato. Certo, se qualche volta si pensasse ai problemi veri...