Sull’effetto che malpractice e richieste di risarcimento hanno sul funzionamento del SSN si è discusso molto, ma con pochi dati. Esistono sostanzialmente due fonti: la prima è una rilevazione dell’Agenas (Agenzia nazionale servizi sanitari), Monitoraggio delle denunce sinistri 2014 - Rapporto annuale, che però non fornisce serie storiche, dato che è una rilevazione istituita di recente. La rilevazione riporta dati da 20 Regioni sanitarie su 21. I più rilevanti sono : indice di sinistrosità complessivo 20,94 per 10.000 ricoveri (i ricoveri nel 2014 sono stati poco meno di 10 milioni); indice di richieste risarcimento per danni o morte 9,79 per 10.000 ricoveri (esclusi pronto soccorso), percentuale di sinistri liquidati rispetto al totale 2,29%, costo medio dei risarcimenti liquidati € 52.578. Numeri non così drammatici. Due calcoli: 9.800 richieste di indennizzo, di cui solo 220 liquidate per un costo di 12 milioni di euro.
La seconda fonte è l’ANIA che riporta le richieste di liquidazione sinistri alle società di assicurazione. L’ultimo rapporto risale al 2014. I dati ANIA non sono esattamente sovrapponibili con quelli AGENAS perché molte Aziende e Regioni sono ricorse a forme di autocopertura e ad un diverso modo di computare i sinistri. Tuttavia gli ordini di grandezza sono simili. Nel 2012 sono riportati 19.436 sinistri per RC di strutture sanitarie e 11.759 per RC di professionisti medici. Di questi, solo una parte viene poi liquidata. Data la durata delle pratiche, tuttavia, i dati di anni recenti non sono paragonabili con quelli di anni antecedenti, e quindi i trend vanno valutati con cautela. In ogni caso, la quota di sinistri liquidata rispetto alle pratiche è comunque bassa, (fra il 30 ed il 40%), molto più elevata rispetto ai dati Agenas. Il trend di questo indicatore è comunque in leggera diminuzione (8% in meno negli ultimi tre anni). Il costo medio dei sinistri, secondo ANIA, è in aumento, anche se la relazione riporta solo dati nominali. Guardando le tabelle del rapporto questo aumento non appare del tutto evidente. Comunque secondo ANIA ogni sinistro costa in media 47.000 euro, valore simile al dato Agenas. Infine il rapporto esamina il ratio costo sinistri/premi incassati. Secondo ANIA siamo sul 130 -170%, il che fa sorgere una domanda: ma se il rischio del business è questo, come mai le aziende continuano ad investirvi?
Un’altra fonte di dati che, però, non considereremo in questo articolo è un rapporto della Commissione di inchiesta parlamentare sulla malpractice, perché ha dati ancora meno comparabili con AGENAS, e comunque ancora più vecchi.
Confronti internazionali sono praticamente impossibili, per le diversità dei sistemi e dei criteri di rilevazione. Ci limitiamo a citare solo i dati USA. Riportiamo due grafici ripresi dal portale Truecostforhealthcare che rielabora dati dell’Agenzia governativa National Practitioner Data Bank (NPDB).
La sorpresa è il netto trend in diminuzione sia nel numero che negli importi liquidati, un po’ come risulta dai dati ANIA. Sarebbe interessante capire se il fenomeno sia comune ad altri paesi ed esistano fattori capaci di spiegarlo o meno. Data la durata del trend decrescente sembra improbabile che sia un caso e, se si considera il fatto che la popolazione USA è aumentata di circa il 10% in quell'intervallo di tempo, la diminuzione è ancora più significativa.
L’esigenza di intervenire con una legge sulla materia deriva da due ragioni, ampiamente enfatizzate nel dibattito. La prima, i costi crescenti della copertura e dei rimborsi, con una quota importante di richieste pretestuose. I dati in realtà non mostrano una situazione drammatica, ma il numero di cause pretestuose è certamente elevato, come dimostra la scarsa percentuale di sinistri che esita in una liquidazione danni. È comunque vero che i premi assicurativi sono aumentati nel tempo e che molte regioni hanno trovato conveniente autoassicurarsi.
La seconda ragione è il crescere della medicina difensiva, ovvero di esami strumentali, terapie o ricoveri non necessari, fatti solo per coprirsi le spalle in caso di possibili contenziosi. Il fenomeno indubbiamente esiste, ma la quantificazione dei costi che genera è aleatoria. Non risulta che in Italia siano state fatte stime rigorose e le cifre che si sentono (fino a 16 mld l’anno) sono anche funzione della forza polemica che questa o quella parte (sindacato, assicurazioni, associazioni di consumatori) vogliono dare alla loro posizione.
Un problema, cui forse non sempre si dà il giusto peso, è che gli errori medici hanno spesso un risvolto penale. Ci sono lavori in cui l’errore ha conseguenze minime (es. professore universitario) o anche rilevanti, ma che non generano danni alle persone (es. commercialista). L’errore nelle professioni sanitarie, invece, crea quasi sempre danni alla persona e genera, quindi, un’azione penale per lesioni o addirittura omicidio colposo. Questo rischio è sempre ben presente ad ogni professionista. L’errore, come in ogni sistema umano, è inevitabile. I sistemi sanitari hanno nel tempo elaborato una serie di accorgimenti organizzativi per prevenirli o limitarne gli effetti, ma ovviamente la perfezione non esiste, e l’errore accade.
La legge interviene sostanzialmente su due aspetti, penale e civile.
Con l’art. 6 la legge interviene sul Codice penale, aggiungendo a quest’ultimo un articolo, 590 sexties, che interviene sulla definizione di colpa, elemento indispensabile per raffigurare una responsabilità penale. Prima di addentrarci nelle considerazioni di natura giuridica sulla norma, è opportuno spiegare alcuni concetti generali.
La colpa è uno degli elementi del reato. In assenza di colpa, si parla di responsabilità oggettiva, e non di responsabilità penale. La responsabilità oggettiva è prevista solamente nel settore civile (ad esempio, si risponde per i danni cagionati dai figli e/o dai propri dipendenti anche se non si è in colpa). La definizione di “colpa” è prevista dall’art. 43 del codice penale. La colpa viene definita in base alla prevedibilità (possibilità per il sanitario di rendersi conto delle conseguenze potenziali derivanti dall’agire o non agire in una determinata maniera) e alla prevenibilità (possibilità di impedire l’evento attraverso la condotta corretta richiesta). Si distingue tra “colpa generica” e “colpa specifica”.
La “colpa generica” si manifesta in tre forme: negligenza, imprudenza, imperizia. La negligenza consiste in superficialità e/o sciatteria, l’imprudenza nell’agire nonostante vi siano sintomi o altro che lo sconsiglino, l’imperizia nella mancata o scarsa competenza su tecniche specifiche, e nell’agire comunque. Per fare un esempio: un cardiologo può essere negligente, perché non analizza adeguatamente un elettrocardiogramma; un internista imprudente perché decide di utilizzare medicinali omeopatici al posto di quelli riconosciuti dalla scienza medica; l’imperizia consiste nel compiere atti per i quali non si è competenti, e può essere molto grave (medico generico che si improvvisa chirurgo estetico per denaro), oppure lieve o del tutto assente (medico generico che soccorre per strada un traumatizzato grave, ove non sia possibile attendere soccorsi competenti).
La colpa specifica consiste nella “violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline” e si ravvisa, ad esempio, nel caso degli infortuni sul lavoro derivanti da violazione delle norme di prevenzione infortuni (se un lavoratore cade da un tetto perché manca un parapetto previsto dalla legge, non devo individuare una forma di colpa, contesto semplicemente la violazione della norma). Se contesto la colpa generica (negligenza, imprudenza, imperizia) vi è un maggiore rischio di abuso consistente nella giurisprudenza del “senno del poi”, ovvero la creazione di una prevedibilità dell’evento ex post da parte del giudice. Nel caso della colpa specifica questo rischio è molto minore, laddove il giudice, per condannare, deve avere la prova della violazione della regola codificata (è la regola a prevedere il rischio e, nel contempo, a prevedere come prevenirlo). Nell’esempio del lavoratore che cade dal tetto, la norma impone un parapetto o un ponteggio che impedirebbero la caduta. Il giudice deve solo stabilire se esso c’era o non c’era.
La questione della colpa medica impegna da molti decenni la giurisprudenza, la quale oscillava tra interpretazioni troppo rigorose e/o creazioni fantasiose sia in materia di colpa che sulla sussistenza del nesso di causalità, ed interpretazioni troppo lassiste. Da molte parti si invocava una più stringente definizione delle forme di colpa sanitaria.
Un primo passo in tal senso è stato fatto con la legge n. 189 del 2012 denominata “decreto Balduzzi” che ha escluso la responsabilità per colpa lieve del sanitario che si è attenuto a “linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”.
Tale criterio discretivo non fu ritenuto sufficiente (per chi volesse approfondirne le ragioni, si segnala il paragrafo 2 di un articolo pubblicato sul sito di Penale Contemporaneo), rimanendo dei gravi profili di incertezza. Con la legge che stiamo commentando, anche alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale applicativa della legge Balduzzi, si è cercato di affrontare il problema.
Nella nuova formulazione, le differenze principali sono essenzialmente tre:
1) abolizione della distinzione tra colpa lieve e colpa grave, per cui oggi, in linea teorica, il sanitario che si è attenuto alle linee guida non risponderebbe nemmeno in presenza di una “colpa grave”;
2) la limitazione dell’esclusione di responsabilità penale alla sola ipotesi di “imperizia”, e non anche di “negligenza” ed “imprudenza”;
3) la sussistenza di una responsabilità del sanitario che abbia applicato le linee guida nonostante esse non risultassero “adeguate alle specificità del caso concreto”.
In altre parole, quanto meno in astratto, sussiste tutt’ora la colpa del sanitario - anche in caso di rispetto delle linee guida - in presenza di una sua “negligenza” o “imprudenza”. Per chi volesse approfondire il concetto con l’evoluzione giurisprudenziale ed i concetti appena espressi senza addentrarsi troppo nella materia, segnaliamo questo breve articolo. Senonché, come evidenziato in uno dei primi commenti alla nuova legge, il rispetto delle linee guida escluderebbe, in radice la sussistenza dell’imperizia. Aggiungiamo noi, che esso dovrebbe escludere anche la sussistenza della negligenza e dell’imprudenza. Ne deriva che, sulla base dell’attuale dato normativo, ciò che rileva (o dovrebbe rilevare) è solamente la violazione o meno della linea guida. Se essa viene rispettata si ritiene che non vi sia stata “colpa” (di tipo generico). In tal modo, la colpa del sanitario, nella formulazione normativa, passa da generica a specifica, laddove anche le linee guida sono, di fatto, delle “discipline”. Questo garantisce, o dovrebbe, garantire una maggiore tranquillità al sanitario, poiché la regola che ne definisce la colpa è predefinita e non può essere ricostruita ex post, come spesso succede nel caso della colpa c.d. generica.
L’art. 5 norma queste benedette linee guida. Per “linee guida”, si intendono solamente quelle “definite e pubblicate ai sensi di legge”, con un italico meccanismo burocratico: creazione di un albo, domanda dei soggetti che vogliono produrre linee guida, criteri applicativi, etc. Ora, le linee guida sono uno strumento professionale molto valido e diffuso, prodotto da enti dedicati, società scientifiche, etc. Elaborare linee guida è un processo molto complesso e richiede notevoli investimenti. Le migliori società che si dedicano all'elaborazione di linee guida sono anglosassoni, americane in particolare. Dubitiamo che SIGN, NICE o l’American Heart Association faranno domanda al Ministero per essere inclusi in questo albo, producendo la copiosa documentazione richiesta. Quindi le migliori linee guida esistenti non saranno considerate a meno che una società scientifica italiana non le faccia proprie. La ratio di questa scelta sarebbe quella di dare certezza al sanitario, dimenticando che le linee guida sono uno strumento professionale e culturale, non giuridico, e lasciano sempre molti margini al giudizio del medico relative al caso specifico. In assenza di linee guida, il sanitario deve rispettare “le buone pratiche clinico-assistenziali”, che vuol dire tutto e niente. Il rispetto andrà verificato di volta in volta con intervento di periti, etc.
Inoltre, attualmente non esistono linee guida approvate dallo Stato e chissà quando mai esisteranno. La cosa curiosa è che tale aspetto non è stato analizzato in nessuno dei primi commenti giuridici da noi consultati. In assenza di linee guida approvate, la legge, che è in vigore, è inapplicabile, e il medico è scoperto.
Quindi, non si parla di depenalizzazione dell’errore, bensì di un criterio per determinare e/o escludere la colpevolezza del sanitario. In realtà il legislatore è stato costretto a definire un criterio che avrebbe potuto essere già individuato dalla giurisprudenza, la quale, evidentemente con una buona dose di fantasia, condannava il sanitario anche quando questi si atteneva alle linee guida.
Ciliegina: il comma 4 dice che tutto questo apparato burocratico verrà messo su a costi invariati per il bilancio dello Stato. Affermazione ridicola.
Ricapitolando:
1) Non è stata depenalizzato l’errore medico. Si è previsto solo che il rispetto della linea guida e delle buone pratiche esclude la colpevolezza e, quindi, la sussistenza di uno degli elementi del reato (la colpevolezza).
2) In assenza di linee guida approvate, la norma è applicabile solamente nella parte relativa alla buone pratiche clinico-assistenziali.
3) Tra queste ultime rientrano le linee guida non ancora approvate ai “sensi di legge”.
4) È stato burocratizzato uno strumento professionale.
5) Sarà necessario molto lavoro dei periti e dei tribunali per dirimere molte situazioni concrete.
In buona sostanza, scarso effetto sulla medicina difensiva, dove lo spauracchio della responsabilità penale, anche solo presunta e poi non verificata, continuerà ad alimentare le paure dei professionisti.
Sul tema della responsabilità civile. la novità più interessante è contenuta nell’art. 7, il quale stabilisce che la responsabilità civile di ordine contrattuale (art. 1218 e 1228 del codice civile) è in capo alla struttura in cui il professionista opera, pubblica o privata che sia, anche in caso di libera professione intramuraria (quella svolta dai dipendenti del SSN a tempo pieno). Il professionista risponde di responsabilità extracontrattuale (art. 2043 del codice civile). Questo ha la conseguenza di liberare il professionista dall’onere della prova circa le cause del danno; onere che invece rimane a carico della struttura in cui egli opera. In altri termini, fino ad ora di fronte ad una contestazione di errore, era il professionista a dover dimostrare di non aver sbagliato. D’ora in poi, invece, sarà il ricorrente a dover provare che il professionista ha sbagliato. Cambiano anche i termini di prescrizione, che per il professionista scendono da 10 a 5 anni. Lo scopo è, evidentemente, di alleggerire la pressione psicologica che il professionista subisce, contemporaneamente garantendo al paziente che si ritiene leso, gli stessi diritti attuali in merito al risarcimento del danno.
Effetto della legge sarà che le richieste risarcitorie verranno dirette verso la struttura e non verso il professionista. L’art. 7 stabilisce poi parametri fissi per il risarcimento e definisce il tutto come norma imperativa, vale a dire: contratti che stabiliscono altrimenti sono nulli. A ulteriore tutela del professionista interviene poi l’art. 9 che stabilisce che la struttura che risarcisce un danno non possa rivalersi su di lui se non in caso di dolo o colpa grave.
Commenti: l'impressione è che quello dell’errore dei sanitari sia un problema più sentito che reale, in base ai numeri. Il problema vero è la pressione psicologica sul singolo professionista, che crea comportamenti difensivi, poco quantificabili per volume e valore. La legge vorrebbe alleggerirla, ma con definizioni vaghe che daranno luogo a difformità interpretative. Viene mantenuto per il paziente il regime attuale riguardo alle azioni di rivalsa, dove gli unici freni contro cause pretestuose sono l’aver legato il possibile rimborso a tabelle predefinite ed all’aver reso obbligatorio il tentativo di mediazione. Si sarebbe forse potuto fare qualcosa di più per scoraggiare le cause pretestuose, che presumibilmente rimarranno (si ricordi che solo una quota minima di cause porta ad un risarcimento). Nei primi tempi l’effetto sulla medicina difensiva potrebbe essere scarso, o addirittura inverso, se le linee guida statali tarderanno ancora molto. Difficilmente diminuirà il numero di richieste risarcitorie. Negli Stati Uniti e ora anche in Italia gli studi legali catturano potenziali clienti offrendo loro di coprire tutte le spese di avvio del giudizio in cambio di una percentuale dell'eventuale risarcimento. Questa prassi andrebbe semplicemente vietata.
Da ragionare sulla depenalizzazione del danno colposo. L’errore umano nelle professioni sanitarie causa facilmente un danno ad una persona, al contrario di quanto accade per altre professioni.
In realtà il problema della responsabilità penale si pone solamente per i casi di omicidio, poiché quelli (ovviamente più frequenti) di lesioni, anche gravi, sono punibili eslcusivamente a seguito di querela di parte. Le querele, solitamente, non vengono presentate al fine di ottenere una condanna di tipo penale, ma semplicemente per ottenere il risarcimento del danno. Una volta pagato il risarcimento la querela viene ritirata ed il reato si estingue. Di fatto solamente una responsabilitá civile anche se veicolata attraverso lo strumento penale. Certo questo comunque ha un effetto sui comportamenti professionali del sanitario.
Il problema della responsabilitá penale del medico è ovviamente del tutto peculiare. Il punto è se sia corretto ritenere penalmente lecite anche forme di colpa grave (tipo quella sopra descritta del medico generico che si improvvisa chirurgo estetico per lucro; oppure del medico che pratica le cure omeopatiche contrariamente alla comune dottrina scientifica; la guardia medica che, chiamata, rifiuta di andare a trovare il paziente, ecc., ecc.). Depenalizzare completamente questi comportamenti non sarebbe, crediamo, né corretto né giusto. Certo risorge il problema del discrimine tra colpa lieve (da non sanzionare) e colpa grave (da sanzionare). Questa legge vorrebbe essere un compromesso in questa direzione.